Penale

Mae rifiutabile se il Paese richiedente non prevede i domiciliari per i malati

Lo ha chiarito la Cassazione, con la sentenza n. 24100/2025, affermando un principio di diritto con riguardo ad un soggetto affetto da una grave depressione e rischio suicidario

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di Francesco Machina Grifeo

La Corte di appello, in qualità di giudice dell’esecuzione di un Mae, può rifiutare la consegna, nel caso in cui emergano motivi seri e comprovati per ritenere che la persona verrebbe esposta a un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di un deterioramento irrimediabile della salute. Rischio nel caso specifico integrato dal passaggio dalla detenzione domiciliare (con relative cure) al carcere per un soggetto gravemente depresso. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 24100/2025, affermando un principio di diritto e respingendo il ricorso del Procuratore generale presso la C.d.A. di Bari.

Il caso riguarda un uomo condannato in via definitiva a sei anni ed otto mesi da un tribunale della Romania per corruzione. Considerato il disturbo depressivo maggiore, di entità grave, da cui è affetto, il giudice di secondo grado (richiamata la sentenza della Corte Ue, Grande Sezione, causa C-699/21, E.D.L. e la sentenza n. 177/2023 della Corte Costituzionale), ha definitivamente confermato la sospensione e dichiarato il non farsi luogo alla consegna per l’impossibilità che l’imputato venisse sottoposto in Romania ad analogo trattamento psichiatrico in regime di detenzione domiciliare; trattandosi di una forma di detenzione non contemplata dall’ordinamento del paese richiedente. Secondo le relazioni dei consulenti, infatti, l’alto rischio suicidario era collegato direttamente all’inserimento in carcere, anche in costanza di un trattamento psichiatrico, peraltro assicurato dal Paese di destinazione.

Nel respingere i motivi di ricorso, la Suprema corte ripercorre i principali approdi della giurisprudenza comunitaria e nazionale secondo cui “l’esecuzione di un mandato di arresto europeo non dovrebbe mai determinare l’esposizione della persona richiesta a un rischio di deterioramento rapido, significativo e irrimediabile del proprio stato di salute, e, a fortiori, di una riduzione dell’aspettativa di vita, anche in considerazione della mancanza di cure adeguate alle sue condizioni patologiche nello Stato di emissione”. Qualora, infatti, la consegna esponesse la persona richiesta a simili rischi, la sua effettiva esecuzione risulterebbe incompatibile con il diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti, così come sancito dall’art. 4 CDFUE.

La Cassazione dunque afferma sul punto il seguente principio di diritto: “In tema di mandato di arresto europeo, qualora successivamente alla decisione che dispone la consegna emergano motivi seri e comprovati di ritenere che la consegna esponga la persona richiesta ad un rischio reale di riduzione significativa della sua aspettativa di vita o di un deterioramento rapido e irrimediabile del suo stato di salute, la Corte di appello, quale giudice dell’esecuzione, può rifiutare la consegna con ordinanza ricorribile in cassazione”.

Per il Suprema Collegio, dunque, la Corte di appello, “al fine di verificare le condizioni di salute della persona richiesta e, quindi, l’esistenza, o meno, di una grave malattia o di gravi patologie, di carattere cronico e potenzialmente irreversibili, ossia di situazioni per le quali esista un rischio di morte imminente o vi siano seri motivi di ritenere che, pur non correndo rischio imminente di morire, la persona si troverebbe, nelle circostanze del caso di specie, dinanzi ad un rischio reale di essere esposta a un declino grave, rapido e irreversibile del proprio stato di salute o ad una riduzione significativa della propria aspettativa di vita, è tenuta ad indicare, con adeguata motivazione, gli specifici elementi rivelatori di tale status ed i relativi criteri di valutazione, il cui mancato apprezzamento rileva come violazione di legge, soggetta al sindacato della Corte di cassazione”.

Diversamente dai casi di pericolo di sottoposizione ad un trattamento inumano e degradante per effetto di un difetto strutturale o sistemico delle strutture di detenzione dello Stato membro di emissione, in questo caso, le richieste sono state strutturate sulla “specifica situazione della singola vicenda processuale, sulle condizioni patologiche della persona richiesta e sulla idoneità specifica del trattamento riservato alla persona chiesta in consegna a realizzare un’adeguata tutela del diritto alla salute”.

Le conclusioni cui la Corte territoriale è pervenuta, riguardo alle condizioni di detenzione in cui la persona richiesta sarebbe stata presa in carico, conclude la Corte, dunque non sono “apodittiche”, ma fondate su un congruo apprezzamento delle informazioni ricevute, dalle quali è emerso che l’ordinamento romeno non prevede la misura alternativa della detenzione domiciliare, nè una terapia psichiatrica analoga a quella che la persona richiesta ha in corso in Italia.

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