Civile

Non scatta la diffamazione se i messaggi su Facebook sono privati

Lo ha ribadito la Corte di cassazione, sentenza n. 5701 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo contro la sua ex colpevole

 

di Francesco Machina Grifeo

L’invio di comunicazioni tramite il sistema di messaggistica di Facebook, anche a più iscritti, non fa scattare il reato di diffamazione se le “mail” sono inviate ad un soggetto per volta, mancando il requisito della comunicazione diretta a più persone. Lo ha ribadito la Corte di cassazione, sentenza n. 5701 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo contro la sua ex colpevole, a suo dire, di aver inviato messaggi privati a due suoi amici “con l’intento preciso di danneggiarlo ed di isolarlo dal contesto degli amici e colleghi di lavoro”. Né si può sostenere che il solo fatto di aver utilizzato i messaggi di un social network implichi l’accettazione di un maggior rischio nella diffusione degli stessi.

In primo grado il tribunale gli aveva dato ragione condannando la donna a risarcirgli 5mila euro a titolo di danno morale. Successivamente, la Corte d’appello di Milano ribaltava la decisione ritenendo mancassero gli estremi della diffamazione, “in quanto i messaggi erano stati inviati dall’appellante verso un unico destinatario alla volta, quindi in forma riservata e senza superare i limiti della continenza”. La Corte puntualizzava che le comunicazioni con i due amici, in tempi diversi, erano avvenute a mezzo di uno scambio di messaggi su Facebook ed erano indirizzate ad un singolo interlocutore per volta, e quindi mancava l’elemento oggettivo richiesto dalla giurisprudenza di legittimità per integrare la diffamazione, costituito dalla comunicazione diretta ad una pluralità di destinatari. Inoltre, riteneva che le comunicazioni fossero prive di valenza denigratoria, ritenendole semplicemente “espressione della delusione personale e della preoccupazione dell’appellante a fronte degli atteggiamenti ritenuti immaturi assunti dal proprio ex”.

Proposto ricorso, la Terza sezione civile l’ha respinto. “Nel caso in cui, come nella specie – spiega la Corte -, ci siano state più comunicazioni, ma tutte indirizzate ad un singolo destinatario, l’elemento oggettivo della diffamazione, integrato dalla diffusività della condotta denigratoria, potrebbe sussistere solo nell’ipotesi in cui l’agente, pur comunicando direttamente con un’unica persona, esprima la volontà o ponga comunque in essere un comportamento tale da provocare, da parte dell’agente medesimo, l’ulteriore diffusione del contenuto diffamatorio attraverso il destinatario”. Ma questa ipotesi è stata esclusa dal giudice di merito, con giudizio insindacabile in Cassazione.

“Né può ritenersi – prosegue il Collegio - che il particolare strumento di comunicazione usato (messaggi inviati sul canale Facebook privato) si presti di per sé, per le caratteristiche intrinseche del mezzo di facilitare la diffusione delle comunicazioni, a far ritenere formata in capo al mittente l’accettazione del rischio di diffusione”. Diversamente opinando, argomenta la decisione, “l’apprezzamento aprioristico della potenziale idoneità diffusiva del mezzo di comunicazione usato, scisso dalla considerazione delle circostanze del caso concreto, avrebbe l’effetto di ribaltare impropriamente sul mittente di un messaggio con unico destinatario l’onere della prova di non aver voluto l’ulteriore diffusione del messaggio”.

“Non si può quindi affermare, senza ribaltare la distribuzione degli oneri probatori – conclude la Cassazione -, che in mancanza di una prova del divieto di diffusione da parte del mittente, si presume che i messaggi inviati tramite social network sui canali di posta privati siano destinati alla diffusione o che, comunque, il mittente abbia consapevolmente accettato il rischio della diffusione da parte del destinatario e debba subire, per questo, le conseguenze dell’eventuale diffusione qualora essa integri un obiettivo discredito della persona di cui si parla”.

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