Peculato al curatore se ottiene dalla banca il compenso prima dell’autorizzazione del giudice fallimentare
Per l’attenuante della riparazione del danno questa deve avvenire prima del provvedimento di ammissione al rito abbreviato
Il curatore fallimentare che chiede e ottiene dalla banca, dove è acceso il conto corrente della fallita, di liquidargli il compenso per il lavoro svolto commette peculato se agisce in assenza del provvedimento autorizzatorio del giudice. Ciò comporta una chiara violazione della procedura di liquidazione del compenso in questione e di conseguenza un’assenza di titolo a ottenerne il pagamento.
Per tali ragioni la Corte di cassazione - con la sentenza n. 40948/2023 - ha respinto l’argomento difensivo secondo il quale si sosteneva che l’imputato avesse agito in buona fede nonostante la propria esperienza professionale di avvocato più volte nominato curatore in diverse procedure fallimentari.
Infatti, la Cassazione nega l’esistenza della buona fede, invece sostenuta dalla difesa in base alla circostanza che l’imputato - avendo dato disposizione a un proprio incaricato di presentare istanza al giudice delegato per la liquidazione del proprio compenso - ritenesse emesso il relativo provvedimento autorizzatorio nel momento in cui domandava e otteneva il pagamento dalla banca.
Buona fede non ritenuta sussistente dalla Cassazione a fronte del chiaro iter stabilito dalla legge per il pagamento:
- istanza del curatore
- relazione del giudice delegato
- decreto del tribunale.
Iter azionabile di regola solo dopo l’approvazione formale del rendiconto o dopo l’esecuzione del concordato.
Va detto che nel caso concreto l’imputato nello svolgere il proprio ruolo di curatore aveva proficuamente attratto risorse alla massa fallimentare per la soddisfazione dei creditori. Ma ciò non ha emendato la sua responsabilità penale.
Al contrario la Cassazione accoglie il ricorso contro la decisione dei giudici che non avevano ritenuto il reato attenuato dalla riparazione del danno in quanto non andava considerato solo quello patrimoniale, ma anche quello morale e d’immagine. Sul punto la sentenza del giudice di appello è carente di motivazione. Infatti, il risarcimento del danno in misura superiore a quanto illecitamente percepito deve essere adeguatamente motivato e non può essere apoditticamente sostenuto che si sia in presenza non solo di danni patrimoniali, ma anche morali e d’immagine.
E il risarcimento non assurge a circostanza attenuante se la restituzione del denaro viene effettuata da un terzo (in questo caso la banca) in assenza di espressa manifestazione di volontà riparatoria da parte dell’imputato. Conclude la Cassazione - nel dare indicazioni al giudice del rinvio - che per il riconoscimento dell’attenuante va rispettata la tempistica del momento riparatorio, che in caso di rito abbreviato deve precedere il decreto di ammissione.