Penale

Scrittura privata sotto minaccia, scatta il reato di “estorsione consumata”

Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 6771, con riguardo alla firma di un documento in cui la parte venditrice, dopo che la compravendita era saltata, riconosceva un debito non dovuto

di Francesco Machina Grifeo

Una scrittura privata firmata sotto minaccia, nella specie relativa al riconoscimento di un debito inesistente, integra il reato di “estorsione consumata” e non “tentata”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 6771 depositata oggi, respingendo il ricorso degli imputati contro la decisione della Corte di appello di Torino che aveva riqualificato in tal senso il reato.

Il caso era quello di una compravendita non andata in porto, in cui la venditrice che aveva diritto a ritenere la caparra, si era invece dichiarata debitrice della somma. Secondo la difesa dei ricorrenti si doveva ritenere del tutto erronea la riqualificazione del fatto ascritto come estorsione consumata e non meramente tentata, e dunque la decisione era inficiata da un vizio di motivazione.

Di diverso avviso la II Sezione penale secondo la quale “nell’ipotesi di rilascio sotto minaccia di una scrittura privata, nella quale la persona offesa dichiara di essere debitrice di una determinata somma, in realtà non dovuta, e si impegna a restituirla alle scadenze indicate, è configurabile il delitto di estorsione consumata - e non tentata - in quanto il conseguimento di un atto autonomamente produttivo di effetti giuridici costituisce esso stesso l’evento del reato”.

In questo senso, prosegue la decisione, la Corte di appello ha ampiamente ricostruito gli elementi a supporto della responsabilità dei ricorrenti, “con motivazione logica e persuasiva”, richiamando analiticamente “i rapporti tra gli stessi e le persone offese, le gravi pressioni e intimidazioni esercitate senza alcun titolo nei confronti delle stesse, la costrizione esercitata, che portava alla ricognizione di un debito inesistente ed alla rinuncia del diritto a trattenere la caparra versata per una compravendita non conclusa”. Elementi tutti riscontrati da una approfondita considerazione delle diverse fonti di prova e dall’esame della documentazione acquisita, “con puntuale e specifica valutazione dell’insieme delle condotte poste in essere in un complessivo regime di sopraffazione e violenza per il raggiungimento di un ingiusto profitto con altrui danno”.

Del resto, prosegue la Cassazione, la pretesa avanzata dai ricorrenti con un’azione coordinata e concordata, “posta in essere mediante più momenti di pressione violenta ed intimidatoria indirizzata verso, era del tutto priva di qualsiasi base normativa e giustificazione in diritto, atteso che la vittima aveva tutto il diritto di trattenere la caparra confirmatoria”; mentre la asserita mediazione non era stata in alcun modo richiesta, ma imposta a danno della persona offesa “con modi violenti per questioni relative a rapporti di insofferenza etnica tra i gruppi di etnia rom e sinti che erano stati coinvolti nella vendita o si mostravano interessati alla stessa”.

Conseguentemente, conclude la Corte, la ricognizione di debito e le condotte complessivamente poste in essere dai ricorrenti si dovevano ritenere del tutto corrispondenti alle imputazioni elevate “in assenza di qualsiasi diritto legittimamente azionabile, essendosi all’evidenza la vittima riconosciuta debitrice senza alcuna causa di una somma che avrebbe avuto il diritto di trattenere quale caparra confirmatoria”. E le condotte contestate “avevano tutte manifestato una chiara e consapevole efficacia causale a tal fine, caratterizzandosi tra l’altro per pervicacia e particolare violenza”.

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