Lavoro

Se la cessione del ramo d'azienda è illegittima l'obbligazione del cedente ha natura retributiva

La Corte torna ad affrontare la tematica relativa alla natura (risarcitoria o retributiva) dell'obbligazione del datore di lavoro nel caso in cui un giudice accerti illegittimità della cessione di azienda o ramo d'azienda, con ripristino del rapporto in capo al cedente il quale, tuttavia, rifiuti la ricostruzione del rapporto e pertanto ometta di corrispondere le relative retribuzioni

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di Simone Carrà*

I termini della questione: natura risarcitoria o retributiva dell'obbligazione del cedente

La recente sentenza n. 3479 della Suprema Corte di Cassazione , pubblicata in data 6 febbraio 2023, affronta ancora una volta la tematica relativa alla natura (risarcitoria o retributiva) dell'obbligazione del datore di lavoro cedente, nel caso in cui un giudice accerti l'illegittimità della cessione dell'azienda (o del ramo d'azienda) e ordini la continuità del rapporto di lavoro con il cedente stesso, il quale tuttavia si rifiuta di ricostituire il rapporto stesso e pertanto, pur a seguito della sentenza, ometta di corrispondere le relative retribuzioni.

Il tema è peculiare e va distinto da altre fattispecie, pur per certi aspetti sovrapponibili, quali l'inottemperanza all'ordine di reintegrazione a fronte di declaratoria di nullità del licenziamento e quello molto simile (e a oggi, come si vedrà, parificato dalla giurisprudenza sotto il profilo della soluzione interpretativa individuata) del rifiuto di ricostituire il rapporto di lavoro a fronte della declaratoria di interposizione illecita di manodopera.

La rilevanza, sotto il profilo pratico, della questione è di non poco conto: se dall'inottemperanza all'ordine giudiziale di ripristinare il rapporto di lavoro discendesse un'obbligazione risarcitoria, il debitore (ossia il datore di lavoro) potrebbe opporre i limiti tipici che si frappongono alla piena risarcibilità del danno, ivi incluso il c.d. aliunde perceptum.

Conseguentemente nel caso di cessione di ramo d'azienda ritenuto illegittimo all'esito di un giudizio, il datore di lavoro che rifiutasse di ripristinare il rapporto di lavoro con il lavoratore ceduto (così ponendo in essere una condotta di inottemperanza all'ordine giudiziale), potrebbe comunque opporre al lavoratore che, nel frattempo, seguitasse a svolgere la propria attività lavorativa in favore del cessionario, il diritto di dedurre dalle retribuzioni a questi dovute quelle dal medesimo percepite nell'ambito del rapporto di lavoro con il cessionario.

Qualora invece la natura dell'obbligazione datoriale avesse natura retributiva (e non già risarcitoria), si giungerebbe al paradosso che il lavoratore possa avanzare il diritto ad una "doppia retribuzione" (la prima in virtù del rapporto di lavoro che di fatto continui a svolgere con il cessionario anche in seguito alla sentenza che accerti il suo diritto a vedersi ricostituito il rapporto con il cedente, la seconda in virtù di quello ricostituito, seppur non eseguito per rifiuto della controparte datoriale, in capo al cedente).

"Doppia retribuzione" che, perlomeno con riferimento ad un'ipotesi di lavoro full-time, oltre ad apparire immotivata da un punto di vista emotivo, potrebbe far sorgere una serie di dubbi sotto il profilo giuridico, a partire dal chiaro effetto sanzionatorio che ne scaturirebbe, alla effettiva possibilità di far convivere due rapporti causalmente identici e portatori di effetti incompatibili l'uno con l'altro (sotto il profilo dell'orario di lavoro, ad esempio, e del rispetto dell'obbligo di fedeltà), alla verifica dell'effettiva buona fede del lavoratore (che da una parte potrebbe aver messo in mora la sua controparte contrattuale, ma dall'altra di fatto non avendo rassegnato le dimissioni dal rapporto di fatto proseguito con il cessionario si pone in una situazione di impossibilità di adempiere alla prestazione lavorativa), alla tematica dell'ingiustificato arricchimento.

I precedenti giurisprudenziali

La fattispecie è stata esaminata dalla casistica giurisprudenziale in una molteplicità di declinazioni.

Con la sentenza n. 2990 del 7 febbraio 2018 la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, aveva esaminato la questione relativa alla natura retributiva o risarcitoria delle somme spettanti al lavoratore, il quale, dopo la declaratoria giudiziale che ha accertato l'illecita interposizione di manodopera e offerte le proprie energie lavorative, non fosse stato riammesso in servizio.

In tale occasione, la Suprema Corte aveva ritenuto di dover fare piena applicazione del diritto comune delle obbligazioni, concludendo che «[…] nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull'effettivo datore di lavoro l'obbligo retributivo. Dal rapporto di lavoro, riconosciuto dalla pronuncia giudiziale, discendono, infatti, gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti ed, in particolare, con riguardo al datore di lavoro, quello di pagare la retribuzione, e ciò anche nel caso di mora credendi e, quindi, di mancanza della prestazione lavorativa per rifiuto di riceverla»; tale orientamento riceveva perfino avallo dal Giudice delle Leggi con la sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 28 febbraio 2019 .

Da un punto di vista pratico, tuttavia, nel caso risolto dalle Sezioni Unite, risultava che i ricorrenti non avessero comunque diritto alla "doppia retribuzione".

Ed infatti la Suprema Corte applicava l'art. 27, comma 2, D.Lgs. 276/2003 (espressamente richiamato dall'art. 29, comma 3-bis per il caso di interposizione illecita di manodopera), che prevede che «tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata».

Successivamente la Suprema Corte di Cassazione avrebbe esteso l'applicazione del principio anche al caso in cui il provvedimento giudiziale fosse relativo alla declaratoria di illegittimità della cessione di ramo d'azienda, con ripristino del rapporto in capo al cedente, il quale rifiutasse di ottemperare alla sentenza.

In tali occasioni, la Suprema Corte specificava peraltro che «non sono applicabili le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 276 del 2003 […] all'art. 27, comma 2 (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall'art. 29, comma 3 bis, in tema di appalto illecito)»; ed infatti «Il testo delle disposizioni, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell'appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda. Il dato testuale che connette l'effetto liberatorio esclusivamente in favore del soggetto che "ha effettivamente utilizzato la prestazione" esclude altresì ogni interpretazione estensiva (men che meno analogica) che consente l'applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l'impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto» ( Cass. n. 17784 del 3 luglio 2019 ).

La recente pronuncia n. 3479 del 6 febbraio 2023 della Suprema Corte di Cassazione.

Nell'ambito del predetto contesto si colloca la recente pronuncia n. 3479 del 6 febbraio 2023 della Suprema Corte di Cassazione .

Il caso è quello tipico della cessione di ramo d'azienda, di cui i lavoratori ricorrenti hanno contestato la genuinità, chiedendo di vedersi accertato il proprio diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro in capo alla società cedente; la Corte d'Appello, in accoglimento dell'appello incidentale dei lavoratori, aveva condannato la società cedente a corrispondere le retribuzioni dovute dalla data della lettura del dispositivo di primo grado fino all'effettivo ripristino dei relativi rapporti di lavoro.

La Suprema Corte - aderendo pienamente all'orientamento formatosi intorno alle Sezioni Unite n. 2990/2018 (in materia di interposizione illecita di manodopera), ed esteso dal Giudice della Leggi alla fattispecie della cessione di ramo d'azienda con la sentenza n. 29/2019 - respingeva la censura di parte ricorrente che contestava la natura retributiva, anziché risarcitoria, del credito vantato dal lavoratore illegittimamente ceduto.

Secondo la Suprema Corte, infatti, è necessario procedere verso «il superamento della regola sinallagmatica della corrispettività, […] intesa come riconoscimento al lavoratore, che chiede l'adempimento, del solo risarcimento del danno in caso di mancata prestazione lavorativa, pur se tale mancata prestazione è conseguenza di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro in violazione dei principi di buona fede e correttezza».

Ne consegue il diritto dei lavoratori alla retribuzione dalla data della sentenza fino all'effettivo ripristino del rapporto di lavoro, a prescindere dal fatto che i lavoratori stessi avessero nel frattempo svolto attività lavorativa presso la società cessionaria e senza applicazione della compensatio lucri cum damno.

Se dunque viene ribadito il principio giurisprudenziale della natura retributiva dell'obbligazione del datore cedente, vi è comunque da rilevare che la Corte volutamente non entra nel merito della compatibilità dell'obbligo di fedeltà (così come, potrebbe dirsi, della coesistenza di due rapporti causalmente identici e peraltro full-time) con il diritto del lavoratore ad una "doppia retribuzione"; tale profilo - che potrebbe permettere di individuare il giusto bilanciamento di interessi, che le S.U. 2990/2018 (che si trovavano ad affrontare la analoga casistica nella diversa fattispecie interpositoria) avevano risolto con l'applicazione dell'art. 27, comma 2, D.Lgs. 276/2003 - non poteva essere indagato dalla Suprema Corte in quanto, pur essendo stato formulato apposito motivo di ricorso in cassazione, trattavasi di tematiche «non specificamente affrontate dalla sentenza impugnata».

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*A cura dell'Avv. Simone Carrà, Studio Legale Littler - Partner 24 Ore Avvocati

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