Si chiude il caso Taricco: la prescrizione nei reati fiscali resta vincolata
I termini di prescrizione dei reati tributari non possono essere interpretati retroattivamente, né modificati senza l'intervento di una norma riformatrice che però ha sempre applicabilità «ex nunc», mai con lo sguardo rivolto al passato. Ciò in forza del principio di certezza del diritto e di determinatezza della pena ed in quanto la prescrizione penale è considerata diritto sostanziale e non processuale . Così ha stabilito la Corte costituzionale pronunciandosi sul caso Taricco con la sentenza n.115 del 10 aprile scorso. Ma andiamo con ordine.
Il braccio di ferro tra giudici Ue e Consulta
Possiamo definire caso Taricco la diatriba giuridica combattuta a suon di sentenze avvenuta dal 2015 a oggi tra la Corte di giustizia dell’Unione europea e la Corte costituzionale relativamente alla disciplina italiana in materia di prescrizione, con particolare riferimento alle regole di cui agli articoli 160 e 161 del codice penale che, a giudizio del giudice comunitario, comporta una sorta di sistematica impunità nei reati aventi ad oggetto l’Iva, con evidente lesione degli interessi economici sia dell’Italia che anche e soprattutto dell’Unione europea stante la natura dell’imposta.
Uno sguardo diacronico si ritiene doveroso per rivivere i passaggi di questo braccio di ferro tra l’ordinamento comunitario e quello interno italiano: alla luce dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale (sentenza n. 115 del 10 aprile 2018) quest’ultimo sembra esserne uscito vittorioso.
Come noto, con la sentenza Taricco del 8 settembre 2015 emessa dalla grande camera della Corte di giustizia dell’Unione europea il giudice comunitario chiedeva a quello italiano di disapplicare, nell’ambito dei reati fiscali aventi ad oggetto gravi frodi in materia di Iva, il disposto degli articoli 160 e 161 del Codice penale per far rispettare gli obblighi sanciti dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2 del Tfue.
Tale decisione, logicamente, suscitava numerose perplessità soprattutto in relazione ai principi cardine del nostro ordinamento costituzionale sulla scorta della teoria dei “controlimiti”, con particolare riguardo al principio di legalità in materia penale. Perplessità applicative che inducevano la corte di appello di Milano prima e la Cassazione poi a sollecitare l’intervento della Consulta.
La prima sentenza della Consulta
In linea con le argomentazioni svolte nelle due ordinanze di rimessione, la Consulta riconosceva la concezione sostanziale dell’istituto della prescrizione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano; concezione di cui la diretta conseguenza è la riconducibilità di tale istituto al principio di legalità e ai sui corollari (riserva di legge, tassatività e irretroattività). Ne consegue che trattandosi di norme di diritto penale sostanziale è necessario che le regole sulla prescrizione seguano il principio di determinatezza della legge penale, quale principio irrinunciabile del nostro diritto penale costituzionale.
Come anticipato, il dibattito non si arrestava con la prima ordinanza della Corte costituzionale, infatti con la sentenza del 5 dicembre 2017 la Corte di giustizia Ue (cosiddetta Taricco-bis) ribadiva l’interpretazione dell’articolo 325 Tfue (si ricorda che tale norma prevede per gli Stati membri l’impegno di «lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive») svolta nella sentenza Taricco.
Più specificamente, per superare le argomentazioni della Corte costituzionale italiana il giudice comunitario affermava che il contrasto del diritto nazionale con l’articolo 325 Tfue non può determinare la disapplicazione del diritto interno se questa disapplicazione comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene, andando poi a imporre con vigore tuttavia al giudice nazionale di «disapplicare le disposizioni interne sulla prescrizione» che siano in contrasto con l’articolo 325 Tfue. In altri termini la disapplicazione delle norme in materia di prescrizione non era più eventuale e rimessa alla discrezionalità del giudice interno ma poteva comunque essere effettuata solo nel rispetto del principio di legalità.
Il secondo intervento dei giudici costituzionali
Proprio sul principio di legalità e sulla determinatezza della norma penale, come abbiamo già visto, si è incentrata la recentissima pronuncia della Corte costituzionale che con molta probabilità ha messo la parola fine all’annoso scontro tra l’ordinamento comunitario e quello nazionale relativamente all’istituto della prescrizione dei reati fiscali in materia di Iva.
Sancita definitivamente l’inapplicabilità della “regola Taricco” nel nostro ordinamento, stante la forza e l’efficacia del principio di determinatezza in materia penale, così come affermato dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale, si ritiene utile ricordare brevemente gli attuali e vigenti termini prescrizionali in materia penal-tributaria.
Come noto, con l’articolo 2, comma 36 vicies semel, lettera l) del Dl 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011, n. 148 sono state apportate delle sostanziali modifiche al sistema penal-tributario nazionale, con riferimento specifico - per quello che qui ci riguarda - al regime prescrizionale di parte dei reati tributari previsti dal Dlgs 20 marzo 2000, n. 74.
Infatti l’articolo 17, comma 1-bis, Dlgs 74/2000 fissa in otto anni (risultato dell’aumento di un terzo del termine ordinario di sei anni) il termine di prescrizione dei delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto. Resta, invece, non riformato il termine di sei anni per la prescrizione dei delitti di cui agli articoli 10-bis (omesso versamento di ritenute dovute o certificate), 10-ter (omesso versamento Iva), 10-quater (indebita compensazione) e 11 (sottrazione fraudolente al pagamento di imposte) del decreto.
Riassumendo e schematizzando l’attuale e vigente regime prescrizionale dei reati tributari previsti dal Dlgs 74/2000 il termine di prescrizione per i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 è il seguente: per i reati di cui agli articoli 2 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) 3 (dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici), 8 (emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) e 10 (occultamento o distruzione di documenti contabili) per i quali è disposta la pena massima edittale di anni 6 di reclusione, ai sensi del richiamato articolo 17 del decreto 74/2000 il termine di prescrizione è di 8 anni, elevato a 10 in caso di interruzione ai sensi dell’articolo 161 del codice penale e fino a un massimo di anni 13 in caso di sospensione ex articolo 159 Codice penale.
Nonostante per i reati di cui all’articolo 4 (dichiarazione infedele) e all’articolo 5 (omessa dichiarazione) sia disposta una pena massima edittale più lieve rispetto ai reati sopra elencati e rispettivamente di anni 3 e anni 4 di reclusione, assistiamo tuttavia allo stesso gravoso regime prescrizionale sopra evidenziato.
Discorso diverso, invece, va fatto per i reati tributari esclusi dal regime speciale previsto dall’articolo 17 del Dlgs 74/2000. Infatti per i reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter, 10-quater e 11 i quali prevedono la pena massima edittale di anni 2 di reclusione ad esclusione dell’articolo 11 che prevede una pena massima edittale di anni 4 di reclusione, il termine di prescrizione è di 6 anni, elevato a 7 anni e mezzo in caso di interruzione ai sensi dell’articolo 161 Codice penale e fino a un massimo di anni 10 e mesi 6 in caso di sospensione ex articolo 159 del Codice penale.
Questi termini non potranno quindi mai più essere estesi retroattivamente, né per legge né per decisioni o interpretazioni giurisprudenziali , un loro prolungamento non potrà che essere effettuato che per le annualità di imposta correnti al momento dell'emanazione di una eventuale legge di riforma.