Amministrativo

Sulla proposta di riforma dell'articolo 132 della Costituzione: una "leva" per attuare il regionalismo differenziato?

La riforma aspira a ridefinire le fattispecie previste dall'art. 132 Cost., per quanto riguarda i quorum delle consultazioni popolari prescritte per la fusione di Regioni esistenti, la creazione di nuove Regioni o il trasferimento di Comuni e Province da una Regione all'altra

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di Davide De Lungo *


È attualmente in corso di esame al Senato il disegno di legge costituzionale A.S. 1642 recante "Modifiche all'articolo 132 della Costituzione in materia di validità dei referendum per la fusione di regioni o la creazione di nuove regioni e per il distacco di province e comuni da una regione e la loro aggregazione ad altra regione".
Svilupperò qui due ordini di considerazioni: il primo ordine riguarda il merito della proposta, il secondo attiene invece alla possibile combinazione del riformato art. 132 Cost., con l'attuazione del regionalismo differenziato ex art. 116, comma 3, Cost.

Osservazioni sul merito della riforma
Cominciando dal merito della proposta, il contenuto è piano sia nella lettera che negli intenti.
La riforma, infatti, aspira a ridefinire le fattispecie previste dall'art. 132 Cost., per quanto riguarda i quorum delle consultazioni popolari prescritte per la fusione di Regioni esistenti, la creazione di nuove Regioni o il trasferimento di Comuni e Province da una Regione all'altra. Nel testo attuale, quorum strutturale e quorum funzionale coincidono: poiché per l'approvazione è richiesto il voto favorevole della maggioranza degli aventi diritto delle popolazioni interessate, il secondo finisce per assorbire il primo. Il testo oggi in esame, invece, propone di assimilare la disciplina dell'art. 132 Cost. a quella prescritta dall'art. 75 Cost. per i referendum abrogativi, distinguendo così fra quorum strutturale (dato dalla partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto) e quorum funzionale (commisurato alla maggioranza dei voti validamente espressi).
L'abbassamento del quorum funzionale – come si evince dalla relazione illustrativa – si fa carico dei fenomeni di crescente astensionismo dell'elettorato, e tende dunque a rivitalizzare istituti che rischiano altrimenti di diventare troppo difficili a esperirsi, o sostanzialmente ineffettivi.
Così inquadrata, la proposta appare condivisibile sotto diversi profili.
Un primo argomento che milita a favore della proposta oggi in esame, confermando almeno in parte la sussistenza delle problematiche che essa aspira a risolvere, si rinviene nei dati statistici. Infatti, la procedura referendaria contemplata dal primo comma dell'art. 132 per la creazione di nuove Regioni o la fusione di Regioni esistenti non è mai stata attivata; quella prevista dal secondo comma dell'art. 132, invece, è stata attivata 26 volte dal 2005, e tuttavia, dal 2014 ad oggi, ben 3 referendum su 5 non hanno raggiunto il quorum; percentuale assai più elevata, rispetto al periodo 2005-2013, dove il quorum era mancato solo in 5 casi su 21.
Da un punto di vista di coerenza ordinamentale, poi, la previsione è in linea con le soluzioni che più di frequente si rinvengono in materia di referendum consultivi. Circoscrivendo l'attenzione (per ragioni di contiguità dell'oggetto) allo specifico ambito dei referendum consultivi per la modifica dei territori comunali, gli statuti e la legislazione regionale in molti casi prevedono quorum analoghi a quelli contemplati nel testo. Si possono citare, ad esempio, l'art. 44 della legge regionale della Valle d'Aosta n. 19 del 2003 e l'art. 36, comma 3-bis, della legge regionale del Piemonte n. 4 del 1973.
Non mancano tuttavia frequenti previsioni informate ad un favor ancora maggiore verso la salvaguardia della validità della deliberazione. È il caso dell'art. 67 della legge regionale della Toscana n. 62 del 2007 ("il risultato del referendum è valido indipendentemente dal numero degli elettori che vi hanno partecipato"), dell'art. 52 della legge regionale della Liguria n. 12 del 2020 ("il quesito sottoposto a referendum è accolto quando in ciascuno dei Comuni interessati abbia partecipato al voto almeno il 30 per cento degli aventi diritto […] e la maggioranza assoluta dei voti validamente espressi in ciascuno degli stessi sia favorevole"), l'art. 7-quinquies della legge regionale della Lombardia n. 29 del 2006 ("per la validità del referendum non è richiesta la partecipazione al voto della maggioranza degli aventi diritto").
Una soluzione mediana fra le due precedenti si trova nell'art. 12 della legge regionale dell'Emilia-Romagna n. 24 del 1996: nell'ipotesi di istituzione di nuovo Comune mediante scorporo di una porzione di territorio o distacco di frazione da un preesistente Comune essa prevede un quorum analogo a quello della proposta qui in esame, mentre negli altri sancisce la validità del referendum a prescindere dal quorum strutturale.
Senz'altro da segnalare, infine, è quanto dispone l'art. 6 della legge regionale del Veneto n. 25 del 1992, che si cura espressamente di disciplinare il quorum per il caso di consistente iscrizione all'AIRE degli aventi diritto: in ciò, la norma intercetta una preoccupazione comprensibile, adombrata nella relazione illustrativa dai proponenti del disegno di riforma oggi in esame. In particolare, il legislatore veneto da un lato ha individuato in via generale il quorum strutturale nella partecipazione della maggioranza degli aventi diritto; dall'altro lato, ha previsto diversi scaglioni di abbassamento del quorum, in proporzione alla percentuale di aventi diritto iscritti all'AIRE (al 40 per cento, ove gli iscritti all'AIRE siano superiori al 10 per cento degli aventi diritto al voto; al 35 per cento, ove gli iscritti all'AIRE siano superiori al 15 per cento degli aventi diritto al voto; al 30 per cento, ove gli iscritti all'AIRE siano superiori al 20 per cento degli aventi diritto al voto).

Valutazioni prospettiche e scenari possibili: l'art. 132 riformato come "leva" del regionalismo differenziato?
Il secondo elemento su cui soffermare l'attenzione è, per così dire, "prospettico": mi riferisco alle potenzialità che la riforma costituzionale qui in esame potrebbe sviluppare in sinergia con l'eventuale attuazione dell'art. 116, comma 3, della Costituzione, per il conferimento di ulteriori forme e condizioni di autonomia alle Regioni ordinarie.
Per un verso, la revisione dell'art. 132 Cost. potrebbe rivitalizzare, per come strutturata, gli istituti da esso previsti, a cominciare dalla fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni, ad oggi mai attivate. Per altro verso, l'avanzamento nel processo di attuazione del regionalismo differenziato consentirebbe alle Regioni che vi accedono di acquisire maggior competenze, gettito e autonomia.
Mi sembra che questi due elementi possano giocare combinandosi e catalizzandosi fra loro, dischiudendo scenari alquanto inediti per il nostro regionalismo, ad oggi informato nel senso di una marcata omogeneizzazione. Infatti, la Regione potrà intestarsi quote tanto più rilevanti di funzioni, quanto maggiore sarà la sua "massa critica" demografica ed economica. Proprio per condensare questa massa critica, a mio avviso la fusione e l'aggregazione fra Regioni previste dall'art. 132, nel testo qui all'esame, potrebbero costituire gli strumenti d'elezione, poiché, ampliando il mercato interno di riferimento e il gettito dei contribuenti, assicurerebbero la sostenibilità delle nuove funzioni, oltre a garantire un più significativo peso politico, sul piano nazionale, all'ente regionale.
In altre parole, aperta la possibilità di accedere al regionalismo differenziato, ciascuna Regione verosimilmente potrà aspirare a forme di autonomia sempre più marcate; e ciò sarà più facile, ove, grazie all'istituto dell'art. 132 novellato, divengano più facili le fusioni e aggregazioni fra Regioni. La crescita dimensionale delle Regioni è infatti una sorta di evoluzione naturale, o meglio un presupposto, per l'ipotesi in cui gli enti territoriali vogliano dotarsi di maggiori funzioni, maggiori risorse, maggiore forza lavoro, più ampi mercati, maggiore competitività in Europa.
Per tal via, combinando il riformato art. 132 con l'attuazione dell'art. 116, comma 3, potrebbe finalmente trovare attuazione quel vecchio progetto, mai concretizzato, delle macro-regioni: idea, questa, che muoveva esattamente dall'esigenza di ridurre il numero delle Regioni, accorpandole, per aumentarne il peso politico, economico e demografico, così da creare enti territoriali adeguati al livello delle funzioni loro intestate.
Ciò, peraltro, avverrebbe invertendo la logica che caratterizza la geografia regionale nel nostro ordinamento: non più quella dell'eteroindividuazione dall'alto, per la quale aveva optato il Costituente del 1948; bensì quella dell'autoindividuazione dal basso, come una dottrina particolarmente felice ha avuto modo di definirla, adottata ad esempio nel sistema spagnolo per la creazione delle Comunità autonome.
Lo scenario così tratteggiato produrrebbe a mio avviso esiti non distonici rispetto all'impianto del nuovo regionalismo italiano, disegnato con la riforma del Titolo V, e improntato ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Resterebbero ovviamente saldi i limiti già oggi previsti per assicurare le necessarie condizioni di omogeneità sul territorio nazionale, riconducibili al principio di unità e indivisibilità della Repubblica ex art. 5 Cost.
Pur esulando dall'odierno dibattito, mi domando in conclusione se, per rispondere alle medesime finalità qui perseguite, e per assecondare quel processo di razionalizzazione e ottimizzazione dei livelli di esercizio delle funzioni, già ampiamente scolpito nella normativa nazionale e regionale, non sia il caso di valutare anche una riforma dell'art. 133 Cost.

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*Professore di diritto pubblico – Università San Raffaele

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