Società

231 e reati tributari: i nuovi profili di rischio per le imprese

Alla fine del 2019 sono stati aggiunti al catalogo 231 i reati più gravi del D.lgs. 74/2000 connotati da una spiccata componente di frode, l'estensione della responsabilità pone oggi molti profili problematici

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di Mattero Vizzardi*


La circostanza che i reati tributari non fossero inclusi nel catalogo 231, e cioè nella lista di quelli per i quali poteva essere chiamata a rispondere anche la società, appariva ai più da molto tempo come una emerita anomalia, soprattutto a fronte di un Decreto 231 che negli anni aveva conosciuto una inarrestabile espansione, fino ad includere fattispecie sulla cui attinenza all'attività delle imprese era, ed è, lecito dubitare.

Il Legislatore nell'ultimo anno ha cercato di dare risposta a quella che aveva tutta l'aria di essere una lacuna, e lo ha fatto però in un modo alquanto discutibile. Innanzitutto perché l'estensione della responsabilità ex 231 ai reati tributari è avvenuta in due fasi, a distanza di pochi mesi l'una dall'altra.

Alla fine del 2019 sono stati aggiunti al catalogo 231 i reati più gravi del D.lgs. 74/2000, connotati da una spiccata componente di frode: la "dichiarazione fraudolente mediante l'uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti" (art. 2); la "dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici" (art. 3); l'"emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti"(art. 8); l'"occultamento o distruzione di documenti contabili" (art. 10); la "sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte" (art. 11).

Questo primo round ha naturalmente comportato per le imprese più scrupolose la necessità di aggiornare il proprio Modello organizzativo, salvo poi apprendere che nell'estate del 2020 il Legislatore si trovava a dover dare attuazione alla cosiddetta Direttiva PIF, e dunque ad allargare ulteriormente la lista dei reati tributari, se commessi a danno degli interessi finanziari dell'Unione Europea, e cioè con evasione dell'IVA.

Con il D.lgs. 75 del 2020 il legislatore ha dunque aggiunto nel catalogo 231 anche le ulteriori fattispecie, sempre descritte nel D.lgs. 74/2000, di "dichiarazione infedele" (art. 4), "omessa dichiarazione" (art. 5) e "indebita compensazione" (art. 10-quater), a condizione però che il fatto di reato venga commesso nell'"ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri" – e cioè riguardi almeno due Paesi dell'Unione – e al fine di evadere l'IVA "per un importo complessivo non inferiore a dieci milioni di euro".

Per queste ultime fattispecie, finalizzate a tutelare in estrema sintesi le grandi evasioni dell'IVA a livello europeo, il Legislatore ha peraltro fatto risorgere dalle proprie ceneri la punibilità delle ipotesi del mero "tentativo", a differenza di quanto accade di regola per i reati tributari, la cui punibilità è riservata alla consumazione del reato, ai sensi dell'art. 6 D.lgs. 74/2000. Questo complica ancora di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, una disciplina già sin troppo ingarbugliata.

Per i reati tributari il legislatore ha riservato sia sanzioni pecuniarie (fino a 500 quote, cioè circa 774 mila euro, aumentabili di un terzo in caso di profitto di rilevante entità), sia sanzioni interdittive, in aggiunta alla confisca del profitto, anche "per equivalente", e cioè tale da poter riguardare tutti gli asset dell'impresa di valore equivalente – appunto – alle imposte evase: la riforma supera così molte questioni interpretative sorte in epoca in cui a commettere il reato era la persona fisica (ad esempio l'amministratore), unica punibile penalmente, ma con effetti che si riverberavano sul patrimonio della società.

L'estensione della responsabilità dell'ente ai reati tributari pone oggi molti profili problematici. Almeno tre i principali.

• Il primo è che la presenza di questi reati aumenta in maniera esponenziale il rischio per l'impresa di trovarsi quantomeno indagata ai sensi del D.lgs. 231/2001 e la ragione principale è che non è infrequente che all'esito di un controllo relativo all'accertamento della regolarità fiscale, il soggetto accertatore ritenga di trasmettere copia degli esiti anche alla Procura della Repubblica, spesso sulla base di interpretazioni alquanto ardite.

• Il secondo è che il legislatore, nella pur comprensibile necessità di dare risposta alle istanze comunitarie che reclamavano da tempo una adeguata punizione anche delle imprese in caso di reati tributari, non si è in alcun modo fatto carico di gestire il rischio – immediatamente colto da tutti i commentatori – di una moltiplicazione di procedimenti per gli stessi fatti (penali, amministrativi, 231). Il rischio infatti è che queste moltiplicazioni di procedimenti per gli stessi fatti finiscano per generare anche una moltiplicazione di sanzioni, con buona pace del principio del ne bis in idem. Sul punto, del resto, si è autorevolmente sostenuto che questo rischio potrebbe essere disinnescato se il giudice penale chiamato a sanzionare l'ente terrà conto della sanzione già inflitta in sede amministrativa al fine di applicare una sanzione "proporzionata", secondo i più recenti orientamenti della Corte EDU: ma è evidente che affidare il compito di mitigare il furore punitivo del legislatore alla discrezionalità del giudice – di ciascun giudice – è una scelta quantomeno discutibile.

• Il terzo profilo problematico attiene al fatto che il legislatore, con la riforma del 2019, ha introdotto all'art. 13 D.lgs. 74/2000 una specifica causa di non punibilità per la persona fisica che, dopo aver commesso anche una grave dichiarazione fraudolenta, si "ravveda", ed entro il termine per la presentazione della dichiarazione del periodo d'imposta successivo, e prima che abbia formale conoscenza di un procedimento a suo carico o di accertamenti fiscali in corso, estingua integralmente il debito tributario. Questa misura, finalizzata ad offrire il premio dell'impunità all'evasore che spontaneamente si penta, non è stata coordinata con la responsabilità della società ai sensi del D.lgs. 231/2001, con il risultato che – ad esempio – in caso di auto-denuncia dell'amministratore autore di reati tributari, quest'ultimo non verrebbe punito, ma la società sì, ancorché quest'ultima potrebbe comunque far valere l'integrale pagamento del debito tributario come misura riparatoria idonea a ridurre le sanzioni pecuniarie e ad evitare sanzioni interdittive.

Sul punto, resta dunque da considerare che sarebbe stato certamente preferibile immaginare una esclusione della punibilità anche della società in caso di "self reporting", che avrebbe rappresentato un potente incentivo ad aprire un fronte di collaborazione con le istituzioni, ed evitare che la scoperta e la denuncia spontanea di fatti illeciti si risolva in un possibile danno per l'impresa, anche solo per l'apertura di un procedimento 231 a suo carico.

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* partner Dentons

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