231, l’istituto della messa alla prova è applicabile anche alle persone giuridiche
Dopo l’intervento delle Sezioni Unite una recente pronuncia del Tribunale di Perugia riapre il confronto
Il Tribunale di Perugia con un’ordinanza coraggiosa e articolata rimette in discussione l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova agli enti incolpati ai sensi del D.Lgs. 231/2001, tema che sembrava ormai chiuso dopo la pronuncia delle Sezioni Unite del 2023 (n. 14840).
Il Giudice umbro nel provvedimento in esame analizza la giurisprudenza formatasi sul tema, ripercorrendo in particolare l’iter argomentativo della predetta sentenza della Cassazione e riassumendone i punti salienti del ragionamento. La stessa aveva innanzitutto ricordato come la responsabilità ex D.Lgs. 231/2001 costituisca un tertium genus rispetto a quella penale e amministrativa come riconosciuto già dalla nota sentenza delle Sezioni Unite sul caso Thyssen (n. 38343 del 24/04/2014) ed ha pertanto considerato incompatibile con tale natura di responsabilità la messa alla prova di cui all’art. 168 bis c.p., ritendendo che la stessa debba inquadrarsi nell’ambito di un trattamento sanzionatorio penale, come tale non applicabile agli enti anche in ossequio al principio di riserva di legge di cui all’art. 25 co. 2 Cost.
A conferma di ciò le Sezioni Unite hanno evidenziato come la messa alla prova sia disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili, caratteristiche che la rendono insuscettibile di estensione all’ente. E a riprova del fatto che la messa alla prova si traduce in un trattamento sanzionatorio hanno individuato alcuni indici rivelatori: l’obbligo a carico del soggetto sottoposto alla messa alla prova di prestare lavoro di pubblica utilità , la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato e il risarcimento del danno, gli obblighi e le prescrizioni derivanti dal programma trattamentale che incidono sulla libertà personale, il rapporto di proporzionalità tra la gravità del reato e la durata della messa alla prova e la valutazione dell’idoneità del programma i base ai criteri dell’art. 133 c.p., nonché la previsione dell’art. 657 bis c.p.p. a norma del quale, in caso di fallimento della messa alla prova, va scomputato dalla pena ancora da scontare il periodo nel quale il soggetto ha adempiuto alle prescrizione impostegli.
Sulla base di tali considerazioni la Suprema Corte ha quindi ritenuto che la messa alla prova costituisca un esperimento trattamentale che, in presenza di esito positivo e di una prognosi di astensione dell’imputato dalla commissione di ulteriori reati, determina l’estinzione del reato.
Nemmeno può essere invocata l’applicazione analogica in bonam partem o l’interpretazione estensiva (come invece era stato fatto dalle pronunce di merito favorevoli alla possibilità di applicare la messa alla prova egli enti) in quanto il giudice non può applicare fattispecie e sanzioni oltre i casi specificamente indicati dalla legge.
Ribadito che la messa alla prova risulta disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica, le Sezioni Unite hanno poi evidenziato il rischio di immedesimazione rovesciata in cui le colpe dell’ente ricadrebbero sugli organi, i quali sarebbero poi chiamati ad essere rieducati.
Infine hanno ritenuto che l’art. 67 D.Lgs. 231/01 fornisca un ulteriore elemento per escludere l’applicabilità della messa alla prova agli enti in quanto tale norma non prevede tra i casi nei quali il giudice deve pronunciare sentenza di non doversi procedere l’esito positivo della messa alla prova e, pertanto, non essendo espressamente prevista tale ipotesi tra quelle che determinano una causa di estinzione dell’illecito, sarebbe necessario crearne una nuova al di fuori del sistema espressamente disciplinato dal D.Lgs. 231/2001.
A fonte di tali argomenti il Tribunale , prima di spiegare le ragioni del suo dissenso, ritiene preliminarmente che, nel caso di specie, non possa essere applicabile il vincolo derivante dal principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 co. 1 bis c.p.p., in quanto, come affermato in una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 49744 del 7/12/2022), tale vincolo riguarda esclusivamente l’oggetto del contrasto interpretativo rimesso e non si estende a temi accessori o esterni. Nel caso oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite di cui si discute si trattava della legittimazione del procuratore generale ad impugnare provvedimenti in materia di messa alla prova, tema quindi non collegato con quello dell’applicabilità della messa alla prova nel procedimento ex D.Lgs. 231/2001.
E neppure il Giudice reputa possa essere operativo il disposto di cui all’art. 627 co. 3 c.p.p. costituente un’ulteriore ipotesi di vincolatività delle decisioni della Suprema Corte, stante la diversità di situazioni.
A questo punto, liberato il campo dalla necessità di uniformarsi alla pronuncia delle Sezioni Unite, il Tribunale chiarisce perché intende discostarsi da tale indirizzo, prendendo posizione sui punti fondanti il ragionamento della Cassazione.
Innanzitutto - e questo è forse il punto centrale della pronuncia - ritiene che l’istituto della messa alla prova non possa essere equiparato sic et simpliciter a un trattamento sanzionatorio e ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, richiede necessariamente la volontà dell’imputato.
Inoltre l’esito positivo della messa alla prova costituisce una causa estintiva del reato, e quindi amplia le possibili scelte difensive dell’ente, senza allargare la tipologia di sanzioni.
Pertanto, in assenza di effetti sfavorevoli per l’ente, che potrà essere chiamato a svolgere i lavori di pubblica utilità solo a seguito di un suo espresso consenso, l’applicazione dell’istituto in parola risulta compatibile con il sistema della responsabilità da reato ex D.Lgs. 231/2001, ”dovendo escludersi la violazione dei principi di tassatività e riserva di legge, tenuto conto che il divieto di analogia opera soltanto quando genera effetti sfavorevoli per l’imputato”.
Secondo il Tribunale di Perugia, diversamente da quanto affermato dalla Suprema Corte, l’analogia è ammessa se, come in questo caso, in bonam partem, come peraltro riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità. Non si è infatti in presenza di una disposizione eccezionale che impedirebbe l’applicazione analogica, tale non è la causa estintiva del reato derivante dall’esito positivo della messa alla prova, che non introduce una deroga ai principi generali e, pertanto, può essere oggetto di applicazione analogica “ proprio perché espressione incontestata di principi generali ”
Il giudice umbro ritiene poi che il richiamo operato dagli artt. 34 e 35 D.Lgs. 231/01 alle norme del codice penale e di quello di procedura penale in quanto compatibili costituiscano un “ espresso richiamo analogico operato dallo stesso legislatore ”, con il limite della compatibilità.
Tale limite era stato evidenziato anche dalle Sezioni Unite, le quali, però, come si è detto, avevano considerato che la disciplina della messa alla prova sia disegnata e modulata specificamente sull’imputato persona fisica, come emergerebbe dalla lettura dell’art. 168 bis c.p.
Il Tribunale di Perugia non ritiene condivisibili tali assunti in quanto considera centrali nell’istituto della messa alla prova il risarcimento del danno e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose. E nel caso di specie entrambi gli adempimenti risultavano essere stati rispettati: la società incolpata aveva infatti tempestivamente risarcito il danno alla persona offesa e ai prossimi congiunti, mentre quali attività volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato vengono valorizzate l’avvenuta adozione di un modello di organizzazione e gestione, con la correlativa nomina di un organismo di vigilanza, nonché il rispetto delle regole contenute nel codice etico.
L’ordinanza esamina poi il programma di trattamento elaborato dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna ex art. 464bis c.p.p. che si sostanzia in prescrizioni e attività che prevedono un coinvolgimento diretto della società, quali il finanziamento di un corso di formazione in materia di primo soccorso e sicurezza e salute sui luoghi di lavoro da svolgere presso un istituto tecnico, nonché nel versamento di somme di denaro in favore della Croce Rossa per l’acquisto di dispositivi di protezione individuale e di un’auto medica.
Il Tribunale all’esito di tale approfondito ragionamento ritiene quindi superate le perplessità manifestate dalla Cassazione in quanto, come si è visto, il programma elaborato risulta calibrato sulla società, senza la paventata immedesimazione rovesciata per cui le colpe dell’ente ricadrebbero sugli organi.
Risulta anche soddisfatto il criterio di cui all’art. 464 quater co. 3 c.p.p. in quanto l’essersi la società dotata di un Modello Organizzativo porta il giudice a ritenere che la stessa si asterrà dal commettere ulteriori illeciti.
Infine non viene ritenuto dirimente il fatto (valorizzato invece dalle Sezioni Unite) che l’art. 67 D.Lgs. 231/01 nel prevedere le ipotesi in cui il Giudice deve emettere sentenza di non doversi procedere non contempla l’esito positivo della messa alla prova. Ciò infatti non comporta alcuna creazione normativa in presenza del richiamo di cui agli artt.34 e 35 D.Lgs. 231/01 alle norme del codice di procedura penale.
La pronuncia merita sicuramente attenzione, anche per la duplice valorizzazione del Modello Organizzativo, sia sotto il profilo della eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, sia quale elemento utile per fondare una prognosi negativa in ordine alla commissione di ulteriori illeciti da parte della società.
Occorrerà vedere quanti proseliti potrà fare e quanti Tribunali riterranno di discostarsi da quanto affermato dalle Sezioni Unite nella più volte menzionata sentenza.
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*A cura dell’Avv. Umberto Caldarera, consigliere AODV231