Responsabilità civile magistrati: scompare il filtro di ammissibilità al giudizio
Con il n. 18 del 27 febbraio 2015 è stata pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” del 4 marzo 2015 n. 52 la “Disciplina della responsabilità civile dei magistrati”, volta a modificare le norme di cui alla legge 13 aprile 1988 n. 117 (cosiddetta legge Vassalli), «al fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei magistrati, anche alla luce dell'appartenenza dell'Italia all'Unione europea» (così l'articolo 1).
Le novità rispetto alla legge cosiddetta Vassalli - La legge è stata salutata, da taluni, con entusiasmo («finalmente i giudici non potranno più fare impunemente ciò che loro aggrada») e, da altri, con lugubre preoccupazione («è un attentato alla democrazia. Si vuole normalizzare la magistratura»). Chi ha ragione? Per cercare di dare una risposta possibilmente obiettiva, è necessario mettere in luce le differenze fra ieri e oggi.
La legge Vassalli limitava il danno non patrimoniale risarcibile a quello derivante da privazione della libertà personale. La nuova legge, invece, stabilisce la risarcibilità dei danni patrimoniali e non patrimoniali comunque cagionati.
La legge Vassalli stabiliva che vi fosse responsabilità, oltre che nel caso di diniego di giustizia, nel caso di grave violazione di legge; non prevedeva il caso del travisamento dei fatti e delle prove; escludeva la responsabilità per l'attività di interpretazione delle norme o di valutazione del fatto, tranne il caso di errore inescusabile. L'attuale legge stabilisce che l'attività di interpretazione delle norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove può dare luogo a responsabilità per colpa grave nel caso di violazione delle leggi e del diritto dell'Unione europea e di travisamento del fatto e delle prove.
Inoltre, la nuova legge allunga i termini previsti per proporre l'azione di risarcimento (da due a tre anni); elimina il “filtro” costituito dalla preventiva valutazione di ammissibilità, obbliga lo Stato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti dei magistrati (nel modificato articolo 7, infatti, si legge «ha l'obbligo di esercitare l'azione di rivalsa», là dove nel previgente articolo 7 si leggeva «esercita l'azione di rivalsa»: il che fa pensare che si fosse interpretata la precedente disposizione come fonte di una facoltà e non di un obbligo di esercizio dell'azione di rivalsa); aumenta la misura della rivalsa (dal terzo alla metà) e delle trattenute sullo stipendio del magistrato (da un quinto a un terzo); nel caso di reato commesso dal magistrato prevede che il mancato esercizio dell'azione di regresso comporta responsabilità contabile.
L'obbligo di adeguarsi al giudice europeo - Uno degli slogan più praticati è che l'Europa e il suo giudice ci obbligavano ad adeguarci. È così? Non proprio.
In primo luogo va detto che il giudice europeo mai è intervenuto sul tema della responsabilità diretta o in via di rivalsa del giudice. Né potrebbe essere diversamente. La Corte di giustizia è un organo giudicante composito i cui componenti appartengono a diverse culture - di civil law e di common law - che, pertanto, hanno sensibilità diverse in ordine al rapporto fra giudice e legge, essendo nell'area di common law la giurisprudenza annoverata fra le fonti del diritto. Di conseguenza, essendo scontata nell'Unione europea la coesistenza di una pluralità di ordinamenti, ogni Stato può legiferare come crede in ordine alla responsabilità dei suoi giudici; e il giudice europeo si occupa esclusivamente del rapporto tra lo Stato - espressione sintetica della collettività - e il cittadino o, comunque, il soggetto danneggiato dal non corretto esercizio della funzione giurisdizionale.
Che cosa ha indotto il giudice europeo a ritenere che l'Italia sia «venuta meno agli obblighi a essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell'Unione da parte dei propri organi giurisdizionali di ultimo grado?» (così il dispositivo di Corte di giustizia, sezione III, 24 novembre 2011, causa C-379/10).
Se si legge la motivazione della decisione appare chiaro che la condanna dell'Italia è stata determinata dal fatto che non ha dato prova che «l'interpretazione dell'art. 2, 1° e 3° comma, di tale legge (ossia della legge Vassalli) accolta dai giudici italiani sia conforme alla giurisprudenza della Corte» (punto 45). Pur essendo consapevole che la responsabilità dello Stato sussiste «nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente» (punto 41), la Corte di giustizia precisa che i criteri di valutazione della responsabilità non possono in nessun caso consistere nello «imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente» (punto 42).
Il giudice europeo si è preoccupato di verificare se il “diritto vivente” italiano sia allineato a questo criterio ineludibile. La verifica ha dato esito negativo in quanto è emersa una scarsa sensibilità per il rispetto del diritto dell'Unione e un'interpretazione da parte della Corte di cassazione dell'articolo 2, commi 1 e 3 della legge 117/88 «in termini tali che finisce per imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di “violazione manifesta del diritto vigente”» (punto 43).
In altre parole, l'Italia non sarebbe stata condannata se la Corte di cassazione avesse letto la legge Vassalli secondo un'interpretazione rispettosa dei principi del diritto comunitario, che il testo della legge non rendeva impossibile.
La natura dell'intervento del legislatore - La vicenda ricorda quella che portò alla riforma dell'articolo 111 della Costituzione. Allora, tutto nacque dalla ostinazione della Consulta che, quanto al processo penale, non volle riconoscere che, secondo il sistema accusatorio introdotto dal nuovo codice di procedura penale, non poteva riconoscersi al pubblico ministero una posizione privilegiata per ciò che riguarda l'acquisizione delle prove. In quel caso come in quello attuale il legislatore ha tratto spunto dalla ostinazione del giudice per un intervento che va ben oltre ciò che sarebbe stato necessario.
Nel 1999 sarebbe stato sufficiente un ritocco, ma si colse l'occasione per un intervento di ben più ampia portata sull'articolo 111 della Costituzione.
Non diversamente, per adeguarsi al giudice europeo sarebbe stato sufficiente ribadire espressamente (ma, come ho detto, ciò sarebbe stato possibile anche prima in via d'interpretazione) che la responsabilità sussiste in caso di colpa grave e che tale colpa può aversi anche per manifesta violazione della legge o del diritto comunitario anche se provocata da grave errore nella valutazione del fatto o delle prove.
La legge n. 18 ha, invece, un contenuto ben più ampio. Va, tuttavia, detto che si tratta di un testo ambiguo. Infatti, continua a fare salvo il principio secondo il quale «l'interpretazione delle norme e la valutazione del fatto non possono essere fonte di responsabilità» (articolo 2, comma 2), ma introduce una salvezza riguardante ciò che è previsto dai successivi commi 3 e 3-bis. Il primo stabilisce che vi è responsabilità per colpa grave e che costituisce colpa grave «la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea, il travisamento del fatto e delle prove...»; là dove il secondo si preoccupa di aggiungere che nel valutare la colpa grave «si tiene conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme nonché dell'inescusabilità dell'errore e della gravità dell'inosservanza».
Sembra di capire che per affermare la responsabilità non sia sufficiente la manifesta violazione del diritto interno o comunitario, ma che la violazione manifesta deve essere frutto di “errore inescusabile”. Ce n'è quanto basta perché la Corte di cassazione, se del caso abbandonando stilemi che avevano irritato il giudice europeo, nella sostanza riproduca la sua precedente giurisprudenza che stabiliva la sostanziale irresponsabilità per errori nella interpretazione e applicazione della legge. Se così fosse, con l'Europa saremmo punto e d'accapo.
Ma il giudice europeo aveva anche rimproverato l'Italia per non avere previsto una responsabilità per colpa grave quando l'errore di diritto fosse dipeso da valutazione dei fatti o delle prove. È evidente che l'Europa non condivide la nostra convinzione di potere separare con un'operazione chirurgica il diritto dal fatto e, probabilmente, avrebbe qualcosa da dire sulle disposizioni che escludono qualsiasi controllo da parte del nostro giudice di vertice sulla ricostruzione del fatto. Ci dovremmo riflettere, ma il tema è complesso e questo non è il luogo appropriato per farlo. Torniamo, allora, alla responsabilità. Il legislatore ha tradotto l'indicazione del giudice europeo con la responsabilità per “travisamento del fatto”.
Abbiamo visto che anche la nuova formulazione per quanto riguarda l'errore di diritto si presta a interpretazioni sostanzialmente riproduttive della situazione precedente. Potrebbe cambiare qualcosa la previsione del “travisamento del fatto”? L'errore di fatto presente nella legge Vassalli era l'errore revocatorio, ossia il lapsus consistente nel dare per esistente (recte: per provato) un fatto inesistente (recte: incontrastabilmente non provato) e viceversa.
Il nuovo testo lascia ferma tale previsione alla quale aggiunge, come abbiamo visto, il “travisamento”.
Il legislatore, dato che il giudice europeo aveva ritenuto la precedente normativa non soddisfacente, ha pensato a qualcosa di diverso dal vizio revocatorio.
Leggo da un dizionario della lingua italiana: «travisamento: alterazione intenzionale dell'aspetto esteriore della persona...; esposizione o interpretazione che altera la verità». Nel linguaggio comune, insomma, il travisamento sottende un'attività intenzionale, ossia un dolo, ossia un reato. Nel linguaggio giuridico, l'aspetto intenzionale sfuma, in quanto, come attestano i dizionari, se ne parla in relazione a un provvedimento comunque fondato su di una situazione di fatto non rispondente alla realtà. Il legislatore ha, si presume, adoperato il termine in questa seconda accezione, volendo estendere le ipotesi di responsabilità, dai casi in cui il divario fra fatto accertato e fatto affermato sia “incontrastabile”, anche ai casi in cui esso nasca da una valutazione manifestamente, anche se non intenzionalmente, erronea.
È evidente che, in sede di applicazione pratica, tutto sarà giocato sulla maniera di valutare la “gravità” dell'errore, che non è -come per il caso dell'errore revocatorio - un errore di “percezione”. C'è il rischio che si cerchi di utilizzare l'azione di responsabilità come una ulteriore impugnazione del provvedimento del giudice da parte di chi è stato soccombente nel processo. E c'è da prevedere che, di fronte al moltiplicarsi di iniziative di questo tipo, la magistratura tenda a opporre che il travisamento deve essere frutto di un errore inescusabile, così da impedire che qualsiasi errore nella valutazione delle prove possa giustificare azioni di responsabilità. Se così fosse, gli esiti ultimi della riforma condurrebbero a una moltiplicazione di controversie strumentali, di cui il nostro asfittico sistema di giustizia non ha di sicuro bisogno, cui corrisponderebbero risultati concreti assai modesti.
Un attentato alla creatività della giurisprudenza? - L'ampliamento delle ipotesi di responsabilità, la soppressione del filtro di inammissibilità e una maggiore incidenza dell'azione di rivalsa rappresentano indubbiamente un tentativo di “normalizzare” il potere giudiziario, che, immaginato dai costituenti come un potere debole e bisognoso di particolare protezione, nel tempo si è affermato come il vero potere “forte” del nostro sistema istituzionale. Ma si tratta di un tentativo evidentemente maldestro, perché di sicuro non è con l'arma della responsabilità civile - oltre tutto affidata proprio a chi si vorrebbe “normalizzare” - che si ricompone l'equilibrio, che si assume alterato, tra i poteri dello Stato.
Si è detto che la nuova legge può indurre il giudice ad appiattirsi sul precedente giudiziario quale è rappresentato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e del giudice europeo. In questo modo, verrebbe meno la linfa vitale dei sistemi di democrazia avanzata, quali sono quelli dell'Europa, rappresentata dalla capacità della giurisprudenza di cogliere le nuove esigenze e di aderire ai nuovi valori che la vita, nella sua evoluzione, di continuo propone.
Abbiamo visto, tuttavia, come un sistema di responsabilità per erronea applicazione del diritto non comporti tale rischio, tanto più che -qualora la riforma fosse stata dettata dalla necessità di adeguarsi al giudice europeo - quest'ultimo, composto da membri di diversa provenienza e di diversa cultura, di sicuro non è incline a identificare il diritto nella legge scritta e a collegarne l'applicazione a una interpretazione formalistica dei testi di legge. Di più. Nel giudice europeo tende a prevalere la tradizione anglosassone, che annovera la giurisprudenza tra le fonti del diritto.
Il vero timore sta nell'abolizione del filtro di ammissibilità che finora ha funzionato da deterrente, posto che l'attore nei giudizi di responsabilità doveva superare il triplice grado dei giudizi di ammissibilità, all'esito (improbabilmente) vittorioso del quale poteva iniziare il giudizio di merito. Non è, perciò, un caso che dal 1988 i giudizi di responsabilità siano stati nell'ordine di una ventina l'anno e che quelli conclusisi positivamente siano stati meno di dieci.
Tutto ciò aveva convinto i giudici che la legge Vassalli era una legge di tipo esornativo. Sul finire degli anni Ottanta ricordo che i magistrati presero ad assicurarsi e soprattutto -nel caso di giudizi collegiali - a verbalizzare il dissenso da conservare in busta chiusa che affidavano alle cancellerie (così creando un problema organizzativo di non facile soluzione). Non so se l'abitudine ad assicurarsi sia rimasta (come forma di ragionevole precauzione a basso costo); di sicuro in brevissimo tempo i giudici accantonarono la prassi di verbalizzare il dissenso, segretandolo. Torneremo al passato? Di sicuro, lo Stato sarà più facilmente esposto ad azioni di responsabilità, anche perché il termine per proporre l'azione è stato allungato (da due a tre anni). È da vedere quali saranno le ricadute sul giudice e ciò richiama la disciplina del giudizio di rivalsa.
Il giudizio di rivalsa - L'ambiguità della legge non mi consente di stabilire con certezza se i presupposti dell'azione di responsabilità contro lo Stato siano gli stessi che sono a base dell'azione di rivalsa. Infatti, se la colpa grave che è presupposto della prima azione dovesse identificarsi con l'inescusabilità dell'inosservanza, il fondamento dell'azione di rivalsa sarebbe il medesimo, giacché in tanto lo Stato potrebbe agire in rivalsa in quanto il comportamento del magistrato sia stato frutto di dolo o di negligenza inescusabile.
C'è differenza tra «inescusabilità dell'inosservanza» e «negligenza inescusabile»? L'unica differenza che riesco a cogliere sta in ciò che la prima riguarda l'atto e la seconda il comportamento. Non so se da ciò si possano ricavare sostanziali differenze quanto ai criteri di giudizio. È tuttavia probabile che, nell'applicazione pratica, il giudice italiano, anche per adeguarsi alle prescrizioni del giudice europeo, nel primo processo valuti l'inescusabilità della violazione della legge, sostanzialmente facendola coincidere con la colpa grave, là dove, nel giudizio di rivalsa, l'inescusabilità del comportamento sarà il criterio assai rigoroso per valutare la responsabilità del giudice, che quindi finirà con l'essere del tutto eccezionale.
In altre parole, sarà possibile che l'azione di rivalsa sia rigettata anche se è stata accolta l'azione di responsabilità. Ed è bene che sia così. Diversamente, l'attuale disciplina potrebbe comportare problemi di costituzionalità, in quanto non prevede che il giudice responsabile del danno sia parte necessaria del processo contro lo Stato (infatti, al giudice è riconosciuta la sola facoltà di intervenire).
Si teme che, venuto meno il filtro di ammissibilità, la parte, soprattutto nel processo penale, possa iniziare pretestuosamente azioni di responsabilità per creare situazioni di incompatibilità con il magistrato del processo e, così, porre impedimenti alla conclusione del medesimo in tempi brevi e, comunque, per liberarsi di un giudice che ritenga a lui non favorevole. È un timore che mi sembra non giustificato.
In primo luogo, come ho detto la condanna dello Stato non comporta un'altrettanto automatica condanna in via di rivalsa del magistrato. Di conseguenza, non c'è una situazione che comporterebbe un dovere di astensione del giudice e, quindi, una possibilità di ricusazione; né mi risultano altre situazioni di incompatibilità.
In secondo luogo, non è cambiato il comma 2 dell'articolo 4 della legge Vassalli, per il quale l'azione è proponibile soltanto «quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione e gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno».
Insomma, le preoccupazioni della magistratura associata, che mi erano sembrate da condividere prima che leggessi la legge, oggi mi appaiono residuali e riguardano, se non sbaglio, soltanto il caso previsto dal comma 3 dell'articolo 4, secondo il quale l'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si è verificato.
Un intruso: il pubblico ministero - Come ho detto la legge è ambigua. Lo è già nel titolo che parla di «responsabilità civile dei magistrati», là dove essa tratta della «responsabilità civile dello Stato per gli errori giudiziari»; la responsabilità dei magistrati essendo soltanto secondaria, eventuale e in via di rivalsa. È ambigua, perché parla di magistrati, e non di giudici.
Le decisioni del giudice europeo riguardano la responsabilità (dello Stato) per errori dei giudici, là dove la nostra legge parla degli errori dei magistrati. La differenza ha radici nella Costituzione che ha raccolto in un unico corpo - la magistratura - soggetti che svolgono funzioni diverse - giudici e pubblici ministeri - accomunati in un termine onnicomprensivo: magistrati. Ne è seguita una omologazione delle due funzioni, anche se l'articolo 107, ultimo comma, della Costituzione, avvertendone la sostanziale diversità, ebbe a stabilire che «il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario», che (tranne quelle, insopprimibili, riguardanti l'autonomia e l'indipendenza dagli altri poteri, la nomina per concorso e la dipendenza esclusiva dal Csm) possono essere regolate diversamente da ciò che è previsto per i giudici.
Rileggo la legge Vassalli così come modificata, chiedendomi quale può essere una negligenza inescusabile del pubblico ministero nell'interpretare la legge o nel valutare il fatto, che possa costituire, di per sé, causa di un giudizio di responsabilità nei confronti dello Stato. Non è facile trovarne, dal momento che di regola le iniziative del pubblico ministero sono sottoposte al controllo del giudice. Invece, il comportamento del pubblico ministero sembra essere rilevante soltanto nelle ipotesi regolate dall'articolo 3 (diniego di giustizia), che descrivono comportamenti tipizzati idonei a sostanziare azioni di responsabilità.
Sono, queste ultime, ipotesi assai diverse, nelle quali emerge il rifiuto di provvedere o il colpevole ritardo nel provvedere e che, quindi, implicano da un lato la responsabilità dello Stato per cattiva organizzazione dei servizi e, dall'altro lato, la succedanea responsabilità del magistrato (giudice o pubblico ministero) per negligente svolgimento della sua attività. Niente a che vedere con gli errori di interpretazione o di valutazione.
L'avere raccolto impropriamente in un unico contesto ipotesi assai diverse; l'averle accomunate in un unico testo di legge, malamente intitolato con riferimento alla «responsabilità civile dei magistrati»; l'averle disciplinate congiuntamente, annullando le differenze, comporta che si sia eluso il vero problema, che è quello a cui forse il legislatore pensava nell'approvare la legge. Infatti, oggi la vera responsabilità, che non trova alcuna risposta, è quella che nasce dalle iniziative, troppo spesso eccessive e non giustificate, dei pubblici ministeri, in un sistema nel quale è sempre più evidente il danno che deriva dal processo e anche dalla stessa indagine preprocessuale, là dove la stessa viene resa pubblica (nonostante qualsiasi divieto).
In conclusione, la presenza del pubblico ministero nello stesso testo di legge, che ha come protagonista principale, se non esclusivo il giudice (e le sue decisioni), offre, forse di là dalle intenzioni del legislatore, al pubblico ministero uno scudo protettivo, quale deriva dall'avere assimilato totalmente la sua attività, che è l'agire in giudizio, a quella del giudice, che è il giudicare.