Penale

Domiciliari, legittimo impedimento a partecipare al pari della carcerazione

Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 7635) prendono le distanze dalla giurisprudenza, nettamente prevalente, che nel tempo ha fatto una netta distinzione - in caso di persone ristrette per altra causa - tra gli imputati che sono in carcere e quelli che stanno ai domiciliari

di Patrizia Maciocchi

La detenzione ai domiciliari - per altra causa - comunicata al giudice che procede o comunque documentata, é un legittimo impedimento a comparire al pari della carcerazione. Il giudice ha dunque l’obbligo di rinviare ad una nuova udienza e disporre la traduzione dell’imputato. Se non lo fa l’udienza si tiene illegittimamente, a meno che non ci sia un’espressa rinuncia a partecipare da parte dell’imputato. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 7635) prendono le distanze dalla giurisprudenza, nettamente prevalente, che nel tempo ha fatto una netta distinzione - in caso di persone ristrette per altra causa - tra gli imputati che sono in carcere e quelli che stanno ai domiciliari. Un distinguo basato sulla possibilità, per questi ultimi, di chiedere all’autorità competente il permesso per recarsi, in autonomia, nei distretti giudiziari. Non ci sarebbe dunque, secondo questa tesi, un impedimento assoluto a comparire, come nell’ipotesi della detenzione intramuraria.

Per le Sezioni unite, il principio disatteso addossa all’imputato un onere non previsto dalla legge. Ed entra in rotta di collisione, oltre che con la Carta, con i principi convenzionali sul giusto processo. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo, l’autodifesa si esercita anche con il diritto a farsi interrogare, prerogativa che non può prescindere dalla partecipazione al processo.

Il Supremo collegio ricorda che i giudici di Strasburgo, hanno più volte censurato l’Italia per i processi celebrati in contumacia, senza che ci fossero gli estremi per farlo.

La Cassazione traccia dunque delle linee di condotta per evitare che accada ancora, in casi come quello esaminato, nel quale la traduzione non era stata disposta, malgrado il difensore dell’imputato avesse avvertito il giudice, nel corso dell’udienza che il suo cliente, citato quando era in stato di libertà, era finito ai domiciliari per un’imputazione relativa ad un reato diverso rispetto a quello per il quale si stava procedendo.

Ipotesi in cui l’imputato aveva, invece, il pieno diritto «di vedere assicurata la propria presenza al processo mediante la disposizione della traduzione senza ulteriori oneri a suo carico». L’unica condizione è che il giudice che procede venga informato della detenzione - in qualunque modo e in qualunque tempo - mentre nessuna norma impone all’imputato, di dare manifestazioni di interesse e di attivarsi presso il giudice della cautela o il magistrato di sorveglianza competente sulla restrizione in atto.

La legittimità del giudizio in assenza è sottoposta , oltre che ai rigorosi accertamenti iniziali, a verifiche costanti sull’effettiva volontà dell’interessato di non partecipare, sia in primo grado sia in appello. In sede di appello, nel caso in cui sia provata l’instaurazione irrituale del giudizio in assenza, gli atti vanno restituiti al giudice di primo grado.

La piena consapevolezza dell’imputato va garantita - conclude il collegio - senza un limite di tempo. Anche quando la sentenza è passata in giudicato è prevista un’ulteriore verifica della correttezza del giudizio di merito, con la possibilità di attivare, in caso contrario, il rimedio straordinario della rescissione. Solo con un diritto illimitato alla partecipazione ci si muove, infatti, nel rispetto della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.

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