Società

Stabile organizzazione "occulta" della Società estera, per la Cassazione l'esterovestizione non è provata

A fronte di una contestazione originaria per esterovestizione, la stessa non può ritenersi comprovata in virtù della presenza nel territorio nazionale di una stabile organizzazione "occulta" della Società estera in quanto ciò costituirebbe una radicale mutatio del presupposto impositivo, cristallizzato nell'avviso di accertamento (Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 502 dell'11/01/2022)

di Leonardo Maria Galieni*

L'esterovestizione, richiedendo la dimostrazione di elementi ben definiti (primo fra tutti la svolgimento in Italia del c.d. PoEM ovvero la sede di direzione effettiva, così come ritenuto dalla giurisprudenza in base al comb. disp. dell'art. art. 73, c. 3 del TUIR e dell'art. 4 del Modello OCSE), rappresenta un fenomeno del tutto distinto da quello della c.d. stabile organizzazione sia sotto il profilo sostanziale che per gli effetti che ne discendono sul piano impositivo.

Di talché, a fronte di una contestazione originaria per esterovestizione, la stessa non può ritenersi comprovata in virtù della presenza nel territorio nazionale di una stabile organizzazione "occulta" della Società estera in quanto ciò costituirebbe una radicale mutatio del presupposto impositivo, cristallizzato nell'avviso di accertamento.

Ed è proprio questo il dictat imposto dalla Corte di Cassazione, Sez. V, con la recente pronuncia n. 502 dell'11/01/2022 in tema di esterovestizione; pronuncia che, per quanto si dirà nel prosieguo, potrebbe acquisire una portata dirompente a fronte di quella prassi invalsa negli Uffici, e inopinatamente avallata anche da talune Commissioni, come accaduto nel sottoposto all'esame della Suprema Corte.

Orbene, nel valutare la correttezza della statuizione assunta dalla C.T.R. del Veneto sulla presunta fittizietà della residenza fiscale collocata da una Società nella Repubblica Slovacca, i Giudici di legittimità hanno cassato la sentenza impugnata per violazione dell'art. art. 112 c.p.c. (c.d. ultra petita).

Invero, nel condividere la tesi erariale, i Giudici di seconde cure avevano valorizzato elementi fattuali che contraddistinguono il diverso fenomeno della stabile organizzazione; fattispecie che, come noto, riposa su presupposti giuridico-fiscali del tutto avulsi da quelli dell'esterovestizione.

In punto di fatto, la contestazione muove da una verifica fiscale avviata dalla G.di.F. su una Società esercente attività di produzione e posa in opera di strutture in alluminio e vetro nel territorio slovacco, all'esito della quale la stessa veniva ritenuta esterovestita dacché la propria sede effettiva era rinvenibile sul suolo italiano ove disponeva di cantieri navali supervisionati da amministratori residenti in Italia.

La fattispecie, passava dunque al vaglio dei Giudici, sino ad approdare innanzi la C.T.R che confermava la validità della contestazione mossa.

Nello specifico, ad avviso dei Giudici di seconde cure, dal fatto che:
- sul territorio nazionale la Società estera disponesse di cantieri navali;
- che ivi operassero dipendenti slovacchi;
- che gli amministratori della Società estera, peraltro residenti in Italia, esercitassero attività di direzione e/o coordinamento dei lavori,
poteva inferirsi che la stessa avesse istituito una stabile organizzazione sul territorio nazionale e che, di riflesso, la Società slovacca doveva considerarsi esterovestita.

In buona sostanza, la C.T.R. avallava l'assunto erariale sulla mera configurabilità di una stabile organizzazione nel territorio italiano e, non già, in forza di elementi probatori consistenti e qualificanti l'ipotesi di esterovestizione, così come individuati dalla giurisprudenza più autorevole, ma non solo nel corso degli ultimi anni.

Ed è proprio questo il fulcro del decisum assunto dalla Suprema Corte talché la medesima, dopo aver ripercorso la parabola evolutiva del fenomeno in esame e, correlativamente, del concetto di residenza ai fini fiscali oramai accolto dalla giurisprudenza nazionale (rectius, sede amministrativa corrispondente alla definizione "convenzionale" di sede effettiva), si è soffermata sulla valorizzazione operata dai Giudici di secondo grado.

Invero, a fronte della sede legale sita nel territorio slovacco, gli Ermellini hanno acclarato come l'apprezzamento operato non avesse affatto riguardato i fattori che invece connotano la sede effettiva rilevante ai fini dell'esterovestizione.

Più precisamente, senza che fosse stata dava valenza né tantomeno fosse stata compiuta un'indagine sul luogo:
-di svolgimento delle attività propriamente amministrative;
-in cui era tenuta la documentazione societaria, anche contabile;
-di celebrazione delle riunioni tra dirigenti e delle assemblee dei soci;
-di adozione delle decisioni essenziali di politica generale della società
e, quindi, su quelle stesse circostanze individuate dal Commentario al Modello OCSE in tema di dual residence,
l'ipotesi erariale veniva corroborata per il sol fatto che fosse riscontrabile in Italia una stabile organizzazione "occulta" della Società estera.

Una tal statuizione, oltre a evidenziare un evidente sconfinamento da parte dei Giudici, e prontamente censurato in sede di legittimità, evidenzia la contradictio in terminis in cui gli stessi sono incorsi.

A ben vedere, il sol fatto che potesse riscontrarsi una stabile organizzazione, avrebbe dovuto condurre la C.T.R. ad escludere ex sé la tesi di esterovestizione.

Non di certo il contrario.

Difatti, se la stabile organizzazione postula la sussistenza sul territorio italiano di una sede operativa appartenente ad una Società di diritto estero, l'esistenza della prima avrebbe dovuto escludere la fittizietà della sede estera, salvo che l'A.F. non avesse contestato e, special modo, dimostrato sin dall'inizio la natura fittizia della medesima, alla stregua di un vero e proprio simulacro (rectius, wholly artificial arrangement).

Come noto, detta locuzione è stata inaugurata dalla C..G.U.E. in tema di libertà di stabilimento e, successivamente, fatta propria dalla giurisprudenza nazionale con il noto caso Dolce&Gabbana (cfr., Cass., Sez. V, Sent., n. 33234 del 21.12.2018; in sede di merito: cfr. C.T.R., Piemonte Torino, Sez. IV, Sent., n. 563 del 16.09.2020; C.T.R. Lombardia Milano, Sez. IX, Sent., n. 4458 del 12.11.2019; C.T.R, Campania Napoli, Sez. XLVII, Sent. n. 10249 del 18.11.2015).

Peraltro, al di là della differente disciplina riservata a tali istituti rispettivamente all'art. 73, c. 3 e all'art. 162 del T.U.I.R., la Suprema Corte ha acutamente evidenziato come l'incompatibilità degli stessi sia manifesta, ancor più, sul piano degli effetti fiscali che ne discendono in capo al soggetto passivo.

Invero, se nell'ipotesi di esterovestizione la società, a seguito della riqualificazione in soggetto di diritto interno, è tenuta a dichiarare tutto il reddito di cui dispone indipendentemente dal luogo in cui esso è stato prodotto (c.d. worldwide principle), ove ricorra invece una stabile organizzazione la medesima, quale soggetto di diritto estero, deve assoggettare a tassazione solo il reddito derivante dalle attività esercitate in loco (suolo italiano) anche ai sensi dell'art. 23, c. 1, lett. e), del T.U.IR. (c.d. source-based principle).

Non è dunque un caso come, nella decisione in commento, sia ben rintracciabile la censura mossa alla statuizione impugnata nella parte in cui si statuisce a chiare lettere che "la Corte territoriale ha ritenuto la legittimità della pretesa esercitata dall'Amministrazione sulla scorta di presupposti radicalmente divergenti da quelli posti a fondamento dell'atto impositivo impugnato: invero, della società l'esterovestizione postula l'effettiva e reale residenza italiana, la stabile organizzazione, all'inverso, postula l'effettiva e reale residenza estera".

Non meno rilevante e decisiva, è la una sottile argomentazione giuridica spesa dal Collegio di legittimità.

Invero, appurando come di fatto la pretesa impositiva originaria fosse stata modificata (con ciò riecheggiando quell'orientamento sempre più canalizzato tra i Collegi Giudicanti in virtù del quale il giudizio tributario assumerebbe natura di giudizio-merito e, come tale, da consentire di entrare nel merito del rapporto d'imposta), tale passaggio è stato debitamente censurato.

Non può sottacersi come il Giudice, pur essendo l'ultimo nodo della sequenza che dalla dichiarazione fiscale, passa all'accertamento, per poi giungere all'eventuale fase giurisdizionale, sia comunque chiamato a statuire nei limiti del c.d. petitum e della causa petendi avanzata in giudizio.

Esemplificando, se è vero:
-che il Giudice può affrontare la questione di causa secondo il brocardo del iura novit curia
è altrettanto vero
-che tale facoltà deve essere indissolubilmente coordinata con il principio dispositivo ex art. 115 c.p.c. che governa il processo civile-tributario nonché con l'insormontabile perimetro dato sia dalla motivazione dell'atto impositivo che dai motivi sollevati in seno al ricorso dal contribuente (salvo l'ipotesi di integrazione ex art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992).

Di lì, la Suprema Corte, rievocando un orientamento già assunto dalla Sez. tributaria (cfr. Cass., n. 5929 dell'11/03/2010; Cass., n. 2531 del 22/02/2002), ha statuito che, pena il c.d. vizio di ultrapetizione ex art. 112 c.p.c., i Giudici di merito non potevano operare una immutazione della fattispecie sottoposta al loro esame, essendo precluso al Giudicante il potere sostanziale spettante all'A.F. di individuare il presupposto giuridico-tributario a fondamento della pretesa impositiva.

La portata di tale sentenza non può rimanere in sordina.

Tutt'altro, essa assurge a un vero e proprio reviroment rispetto al modus operandi impiegato negli ultimi tempi dall'A.F. in ipotesi di esterovestizione.

L'argomentazione impiegata nella sentenza in commento recide in toto – e ci si permette di sottolinearlo con enfasi - quell'impostazione che invece era stata accolta dalla Corte di Cassazione, Sez. III, con la sentenza n. 10098 del 16.03.2020 e che aveva destato non poche perplessità.

In tale occasione la Corte, Sez, Penale, nel giudicare sulla legittimità di un provvedimento cautelare adottato nei riguardi di una società con sede legale a Malta – e di riflesso sul suo amministratore - affrontava incidentalmente la tematica dell'esterovestizione.

Orbene, bypassando l'eccezione sollevata dalla difesa in ordine alla necessario riscontro da parte dell'Ufficio sulla costruzione artificiosa ad hoc, aveva ritenuto che l'ipotesi di esterovestizione fosse comunque riscontrabile:
- sia nel caso in cui la società estera assurgesse a mera "casella postale",
sia, per aggiunta,
- quandanche la predetta società avesse una propria consistenza giuridica ed economica, ma con una stabile organizzazione "occulta" sul suolo italiano.

L'equivoco in cui è incappata la sentenza penale - che si pone sulla scia di un risalente orientamento per cui la presenza di una stabile organizzazione "occulta" avrebbe rappresentato un criterio-guida a sostegno dell'esterovestizione - aveva dunque contribuito, ma in negativo, a offuscare quella linea di demarcazione che invece è ben netta e deve sempre tenersi a mente: un conto è l'esterovestizione, ben altro rappresenta invece la stabile organizzazione (personale ovvero materiale).

A fronte di un quadro senza dubbio penalizzante per i contribuenti, la pronuncia evocata rappresenta un'inversione di tendenza di cui si auspica un'attenta considerazione da parte delle Commissioni tributarie ogniqualvolta l'Ufficio tenti di sostenere la tesi dell'esterovestizione in base a circostanze che attengono di contro a ben altro fenomeno, quale la presenza sul territorio nazionale di una stabile organizzazione della società estera.

_____

*A cura dell' Avv. Leonardo Maria Galieni, contenzioso tributario, foro di Ascoli Piceno

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©