Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 13 e il 17 marzo 2023

di Giuseppe Cassano

Le Corti d'Appello, nel corso di questa settimana, si occupano di onere della prova nella simulazione assoluta, di revocatoria fallimentare, degli elementi costitutivi del mutuo di scopo, di actio negatoria servitutis e, infine, di contratto di assicurazione.
I Tribunali, a loro volta, trattano le materie del concorso del fatto colposo del creditore, delle fonti del diritto (avuto particolare riguardo al diritto dell'U.E.), della carta del docente (con riferimento ai soggetti che ne hanno diritto), della mediazione e, infine, della ripartizione delle spese comuni nel condominio.


CONTRATTI
Simulazione assoluta – Onere della prova – Causa simulandi

Afferma in sentenza la Corte d'Appello di Milano che è astrattamente possibile ravvisare una ipotesi di simulazione assoluta nei casi di negozi ricettizi.
Come noto, si ha simulazione assoluta quando in luogo del contratto simulato non si vuole alcun rapporto contrattuale (ad esempio, si simula la vendita del cespite A da Tizio a Caio solo per frodare i creditori di Tizio, non intendendo realizzare alcun trasferimento del bene). Si ha simulazione relativa quando in luogo del contratto simulato si vuole un rapporto contrattuale diverso per il tipo (esempio della vendita che dissimula una donazione), l'oggetto (ad esempio, si finge di vendere a 100 ciò che si vende a 50) o l'identità della parte (interposizione fittizia).
Nella simulazione assoluta – argomenta l'adita Corte - non è necessaria alcuna controdichiarazione (intesa, quest'ultima, nel senso di atto che specifica le reali pattuizioni dei contraenti) in quanto l'intento delle parti non è quello di fare valere un differente negozio, bensì quello di non volerne alcuno, risolvendosi la fattispecie in un caso di apparenza negoziale creata intenzionalmente dalle parti che, in realtà, non vogliono essere legate dal negozio sottoscritto.
Può certamente essere eccepita la simulazione assoluta anche nei confronti di un atto di ricognizione di debito, poiché l'astrazione propria di questo istituto incontra il suo limite nella prova della inesistenza del rapporto sottostante.
Invero, il riconoscimento assume il rilievo di astrazione della causa debendi sul solo piano processuale, consentendo di presumere l'esistenza e la validità del rapporto che ne costituisce il fondamento, e dispensando colui a favore del quale il riconoscimento è rivolto dall'onere di provarlo, ma non ha valenza sul piano sostanziale, potendo l'altra parte fornire la prova dell'inesistenza di tale rapporto.
In conformità ai principi generali, spetta a colui che deduce la simulazione dimostrarne la sua sussistenza, provando l'accordo simulatorio.
Ove si tratti, poi, di azione esercitata al fine di ottenere una declaratoria di simulazione assoluta proposta da una delle parti, valgono le limitazioni previste dal codice civile alle prove testimoniali e per presunzioni.
Con la precisazione, ancora, che la dimostrazione della cosiddetta causa simulandi, cioè della ragione che ha indotto le parti a compiere l'atto simulato, costituisce un importante, ma non sufficiente, elemento presuntivo di convincimento dell'esistenza della simulazione.
Corte di Appello di Milano, sezione I, sentenza 13 marzo 2023, n. 854

FALLIMENTO
Revocatoria fallimentare - Dichiarazione di fallimento - Concordato preventivo
(Rd 267/1942, articoli 69 bis, 161, 163, 168; Dl 83/2012, articolo 33)
Rammenta in sentenza l'adita Corte d'Appello di Firenze che, in tema di revocatoria fallimentare, ove la dichiarazione di fallimento sia stata preceduta da un concordato preventivo, il principio di consecuzione tra le procedure è destinato ad operare, con la conseguente retrodatazione del dies a quo del periodo sospetto alla data di pubblicazione della domanda di concordato, anche nell'ipotesi in cui a quest'ultima non abbia fatto seguito il provvedimento di ammissione alla procedura.
Infatti, il riferimento testuale alla data di pubblicazione della domanda di ammissione al concordato, contenuto nell'articolo 69-bis, II, Rd n. 267/1942 (L.F.), ha indotto ad una rimeditazione della tesi che subordinava l'applicazione del predetto principio all'esistenza di un precedente provvedimento di ammissione alla procedura, escludendone l'operatività nel caso di rigetto o abbandono della relativa domanda.
In tal senso, precisa ancora la Corte toscana, sono risultate determinanti, per un verso, l'osservazione che il predetto principio attiene, più che alla formulazione di una domanda ad hoc, all'esistenza di una procedura concorsuale sfociata, anche in modo indiretto ma comunque nel contesto di una unica crisi imprenditoriale, nella dichiarazione di fallimento dell'impresa, per altro verso, l'introduzione del sesto comma dell'articolo 161 Lf (ad opera dell'articolo 33, I, lettera b, n. 4, Dl n. 83/2012) il quale consente la proposizione della domanda di concordato con riserva di presentare la proposta, il piano e la prescritta documentazione entro un termine fissato dal Giudice, e, per altro verso ancora, la considerazione che, anche nell'ipotesi di concordato cosiddetto in bianco, gli effetti della domanda decorrono dalla data di pubblicazione del ricorso, ai sensi dell'articolo 168 Lf.
In proposito, si è evidenziato anche che la presentazione della domanda di concordato risulta di per sé sufficiente a determinare l'acquisto dello status di debitore concordatario, indipendentemente dalla successiva pronuncia del decreto di cui all'articolo 163 Lf, in quanto comporta, oltre alla costituzione del rapporto processuale con il Giudice chiamato a pronunciare su di essa, l'instaurazione di un regime di controllo sull'amministrazione e di relativa insensibilità del patrimonio alle iniziative di terzi.
Corte di Appello di Firenze, sezione II, sentenza 14 marzo 2023 n. 514

CONTRATTI
Mutuo di scopo – Elementi costitutivi (Cc, articolo 1813)
Come rileva la Corte d'Appello di Napoli, nel mutuo di scopo, tanto nella versione cosiddetta legale che in quella cosiddetta convenzionale, la destinazione delle somme mutuate entra nella struttura del negozio, connotandone il profilo causale, sicchè un tale contratto è nullo per mancanza di causa se quella destinazione non è rispettata.
Il mutuo di scopo, dunque, si differenzia dallo schema tipico del contratto di mutuo, sia dal punto di vista strutturale, atteso che il mutuatario si obbliga non solo a restituire la somma mutuata e a corrispondere gli interessi, ma anche a realizzare lo scopo previsto con l'attuazione in concreto dell'attività programmata, sia dal punto di vista funzionale, poiché nel sinallagma assume rilievo essenziale anche quest'ultima prestazione, in termini corrispettivi dell'ottenimento della somma erogata.
Tuttavia, affinchè un contratto di mutuo possa essere qualificato come contratto di mutuo di scopo (contratto parzialmente diverso dal mutuo, ex articolo 1813 c.c.), occorre che esista un interesse (anche) del mutuante alla destinazione delle somme, poiché se la previsione della destinazione delle somme erogate è fatta nell'esclusivo interesse del mutuatario, si realizza semplicemente una esteriorizzazione dei motivi del negozio, di per sé non comportante una modifica del tipo contrattuale. In tal caso, non si può parlare di mutuo di scopo, poiché la mera indicazione dei motivi, non accompagnata da un programma contrattuale teso alla loro realizzazione, non è di per sé idonea a modificare il tipo negoziale.
In definitiva: a) ove manchi un interesse del mutuante alla destinazione delle somme allo scopo indicato nel contratto, sul mutuatario non grava uno specifico obbligo di destinazione delle somme erogate; b) la deviazione dal tipo contrattuale di cui all'articolo 1813 c.c. si può affermare quando vi sia la prova di un obbligo specifico del mutuatario nei confronti del mutuante, in ragione dell'interesse di quest'ultimo – diretto o indiretto - alla specifica modalità di utilizzazione delle somme per un determinato scopo; c) negli altri casi, ove cioè la prova di una tale situazione non sia fornita, l'inosservanza della destinazione indicata nel contratto non rileva ai fini della validità o meno del contratto stesso.
Corte di Appello di Napoli, sezione III, senteNza 14 marzo 2023, n. 1128

PROPRIETA'
Actio negatoria servitutis – Azione di rivendicazione - Differenze

La Corte d'Appello di Roma è adita in materia di negatoria servitutis ed osserva in sentenza come tale azione tenda alla negazione di qualsiasi diritto, anche dominicale, affermato dal terzo sul bene e, quindi, non già al mero accertamento dell'inesistenza della pretesa servitù, ma al conseguimento della cessazione della dedotta situazione antigiuridica, al fine di ottenere la libertà del fondo.
Si qualifica dunque come negatoria la domanda volta all'eliminazione di una situazione antigiuridica posta in essere dal terzo mediante la rimozione delle opere lesive del diritto di proprietà dal medesimo realizzate, allo scopo di ottenere – come detto - la effettiva libertà del fondo, così da impedire che il potere di fatto del terzo corrispondente all'esercizio di un diritto, protraendosi per il tempo prescritto dalla legge, possa comportare l'acquisto per usucapione di un diritto reale.
Ne consegue che l'azione diretta a conseguire la riduzione in pristino a favore di colui che ha subito danno per effetto della violazione delle distanze legali deve qualificarsi come actio negatoria servitutis, essendo volta non già all'accertamento del diritto di proprietà dell'attore libero da servitù vantate da terzi, bensì a respingere l'imposizione di limitazioni a carico della proprietà suscettibili di dare luogo a servitù.
L'azione in esame si differenzia nettamente dall'azione di rivendicazione, per mezzo della quale l'attore si afferma proprietario della cosa di cui non ha il possesso, agendo contro chi la detiene per ottenerne, previo riconoscimento del suo diritto, la restituzione: pertanto, mentre l'attore in rivendica è tenuto a fornire la piena prova della proprietà, dimostrando il suo titolo di acquisto e quello dei suoi danti causa fino ad un acquisto a titolo originario (cosiddetta probatio diabolica), tale onere probatorio non è richiesto ai fini del valido esperimento dell'actio negatoria servitutis, per cui risulta sufficiente che l'attore dimostri, con ogni mezzo ed anche in via presuntiva, di possedere il fondo in forza di un titolo valido.
Corte di Appello di Roma, sezione VIII, II collegio, sentenza 14 marzo 2023, n. 1820

ASSICURAZIONE
Contratto di assicurazione – Rischi coperti – Caso fortuito
(Cc, articoli 1895, 1900, 1917)
Osserva in sentenza la Corte d'Appello di Catanzaro come, in forza del disposto di cui all'articolo 1900 c.c., l'assicurazione non garantisce ope legis i fatti dolosi costituendo, d'altronde, principio generale del diritto quello secondo cui i fatti dovuti a caso fortuito mai possono far sorgere responsabilità.
Con la conseguenza che un'assicurazione della responsabilità civile che descrivesse il rischio assicurato limitandolo ai casi fortuiti sarebbe un'assicurazione senza rischio, e perciò nulla ex articolo 1895 c.c..
L'assicurazione della responsabilità civile, dunque, se non può concernere fatti meramente accidentali, dovuti cioè a caso fortuito o forza maggiore, dai quali -come detto- non sorge responsabilità, importa necessariamente, per la sua stessa denominazione e natura, l'estensione ai fatti colposi, restando escluso, in mancanza di espresse clausole limitative del rischio, che la garanzia assicurativa non copra alcune forme di colpa.
Ed allora, la clausola di un contratto di assicurazione che preveda la copertura del rischio per danni conseguenti a fatti accidentali è correttamente interpretata – secondo l'adita Corte - nel senso che essa si riferisce semplicemente alla condotta colposa in contrapposizione ai fatti dolosi.
D'altronde, a norma dell'articolo 1917, I, c.c. sono esclusi dalla garanzia assicurativa unicamente i danni derivanti da fatti dolosi dell'assicurato, ma non certamente quelli colposi, anche se dovuti a colpa grave, in quanto l'assicurazione per la responsabilità civile presuppone ontologicamente una colpa dell'assicurato, e cioè un'imputabilità del fatto dannoso a titolo di colpa, come fondamento dell'obbligazione di risarcire il danno.
Infine, l'interpretazione delle clausole di un contratto di assicurazione, in ordine alla portata e all'estensione del rischio assicurato, rientra tra i compiti del Giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed assistita da congrua motivazione.
Corte di Appello di Catanzaro, sezione II, sentenza 15 marzo 2023, n. 335

CONTRATTI
Concorso del fatto colposo del creditore - Omesso uso dell'ordinaria diligenza – Eccezione
(Cc, articoli 1223, 1227, 2056)
Il Tribunale di Cosenza si sofferma in sentenza sulla corretta esegesi della norma dell'articolo 1227 c.c. (operante, ex articolo 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), sotto il profilo dell'accertamento del concorso colposo del danneggiato, valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex articolo 1227, I, c.c.), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l'attore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza (ex articolo 1227, II, c.c.), fatta salva, in questo secondo caso, la necessità di un'espressa eccezione della controparte.
E così rileva l'adito Tribunale come, in tema di concorso del fatto colposo del creditore (II comma appena citato), al Giudice del merito sia consentito svolgere l'indagine in ordine all'omesso uso dell'ordinaria diligenza da parte del creditore solo se sul punto vi sia stata espressa istanza del debitore, la cui richiesta integra gli estremi di una eccezione in senso proprio, dato che il dedotto comportamento che la legge esige dal creditore costituisce autonomo dovere giuridico, espressione dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede.
In ogni caso, si impone al debitore di fornire la prova concreta che il creditore avrebbe potuto evitare i danni, di cui chiede il risarcimento, usando l'ordinaria diligenza.
Il comma 2 del suddetto articolo, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex articolo 1223 c.c., regola la cosiddetta causalità giuridica, relativa al nesso tra danno-evento e conseguenze dannose da esso derivanti; la disposizione introduce un giudizio basato sulla cosiddetta causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza.
Sul piano teleologico, la prescrizione de qua, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici e, in definitiva, l'abuso dello strumento processuale.
Tribunale di Cosenza, sezione I, sentenza 13 marzo 2023 n. 445

FONTI DEL DIRITTO
Fonti del diritto – Diritto dell'U.E. – Diritto nazionale
(TFUE, articolo 288)
In sentenza il Tribunale di Milano afferma il principio di diritto secondo cui l'obbligo per gli Stati membri dell'Ue, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato previsto da quest'ultima, così come il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali, o particolari, atti a garantire l'adempimento di tale obbligo, s'impongono a tutte le Autorità degli Stati membri, comprese, nell'ambito delle loro competenze, quelle giurisdizionali.
Pertanto, nell'applicare il diritto nazionale, i Giudici nazionali sono tenuti a prendere in considerazione l'insieme delle norme di tale diritto e ad applicare i criteri ermeneutici riconosciuti dallo stesso al fine di interpretarlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva di cui trattasi, onde conseguire il risultato fissato da quest'ultima e conformarsi pertanto all'articolo 288, III, TFUE.
Tuttavia, tale principio trova un limite nei principi generali del diritto e non può servire a fondare un'interpretazione contra legem del diritto nazionale; la questione se una disposizione nazionale, ove sia contraria al diritto dell'Ue, debba essere disapplicata, si pone solo se non risulti possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione.
Una Direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti.
Estendere l'applicabilità diretta di una disposizione di una direttiva non trasposta, o trasposta erroneamente, all'ambito dei rapporti tra singoli equivarrebbe a riconoscere all'Ue il potere di istituire con effetto immediato obblighi a carico di questi ultimi, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare Regolamenti.
Ed allora, il Giudice nazionale è tenuto a disapplicare la disposizione nazionale contraria a una Direttiva solo laddove quest'ultima sia invocata nei confronti di uno Stato membro, degli organi della sua amministrazione, ivi comprese autorità decentralizzate, o degli organismi o entità sottoposti all'autorità o al controllo dello Stato o a cui sia stato demandato da uno Stato membro l'assolvimento di un compito di interesse pubblico e che dispongono a tal fine di poteri che eccedono quelli risultanti dalle norme applicabili nei rapporti fra singoli.
Tali limiti trovano, a loro volta, dei limiti nei casi in cui la norma unionale debba essere considerata un principio generale del diritto dell'Ue; in tal caso la norma nazionale cede il passo anche in controversia tra privati.
Tribunale di Milano, sezione XI, sentenza 14 marzo 2023 n. 2063

LAVORO
Personale docente - Carta del docente – Erogazione – Soggetti beneficiari

(Cc, articolo 2948; legge 107/2015, articolo 1; Dlgs 297/1994 , articolo 514; Dpcm 28 settembre 2016)
Il Tribunale di Udine interviene in tema di erogazione annuale della somma di euro 500 mediante "carta elettronica" che è prevista per i soli docenti di ruolo dall'articolo 1, comma 121, L. n. 107/2015.
In attuazione di quanto previsto da tale norma l'articolo 3 Dpcm 28 settembre 2016 ha disposto che la Carta sia assegnata ai docenti di ruolo a tempo indeterminato delle Istituzioni scolastiche statali, sia a tempo pieno che a tempo parziale, compresi i docenti che sono in periodo di formazione e prova, i docenti dichiarati inidonei per motivi di salute (articolo 514 Dlgs n. 297/1994), i docenti in posizione di comando, distacco, fuori ruolo o altrimenti utilizzati, i docenti nelle scuole all'estero, delle scuole militari.
Alla luce del principio per cui il diritto-dovere di formazione professionale e aggiornamento grava su tutto il personale docente, e non solo su un'aliquota di esso, si addiviene – in sentenza – ad affermare l'insostenibilità dell'assunto per cui la Carta del docente sarebbe uno strumento per compensare la pretesa maggior gravosità dell'obbligo formativo a carico dei soli docenti di ruolo, ciò evincendosi anche dal fatto che la Carta stessa è erogata ai docenti part-time (il cui impegno didattico ben può, in ipotesi, essere più limitato di quello dei docenti a tempo determinato) e persino ai docenti di ruolo in prova, i quali potrebbero non superare il periodo di prova e, così, non conseguire la stabilità del rapporto.
Quanto all'importo di euro 500, esso viene reso disponibile all'inizio di ogni anno scolastico, ossia al primo settembre ed è utilizzabile entro il 31 agosto successivo; la somma eventualmente non utilizzata nel corso dell'anno scolastico di riferimento rimane nella disponibilità della Carta per l'anno scolastico successivo (in ogni caso, ogni anno scolastico la Carta viene ricaricata dell'importo di euro 500).
Ciò significa che l'importo in esame viene pagato periodicamente ai docenti a tempo indeterminato, ad anno, dovendosi, dunque, applicare la prescrizione quinquennale di cui all'articolo 2948 n. 4 c.c., che non richiede che le somme pagate abbiano necessariamente natura retributiva, prevedendo la prescrizione quinquennale per "tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi".
Tribunale di Udine, sentenza 14 marzo 2023 n. 79

MEDIATORE
Mediatore – Autonomia – Conclusione dell'affare
(Cc, articolo 1754)
Secondo il Tribunale di Catanzaro la circostanza che colui il quale si assuma mediatore non si sia interposto autonomamente tra le parti, ma abbia ricevuto da una sola di esse l'incarico di reperire un contraente per un determinato affare, non muta la natura mediatoria dell'attività svolta ove riconosciuta, od oggettivamente riconoscibile, come tale dall'altra parte.
La mediazione, invero, non dipende dalla perfetta equidistanza, sia originaria che successiva, del mediatore da entrambe le parti, né il requisito di terzietà del mediatore è frutto d'un giudizio di valore formulabile ex post sulla condotta da lui tenuta.
Il Giudice sottolinea come, al fine di marcare l'autonomia del mediatore dall'una e dall'altra parte, il requisito di terzietà è espresso da alcuni orientamenti interpretativi con il richiamo a concetti quali l'imparzialità o la neutralità rispetto ai soggetti posti in relazione tra loro in vista dalla conclusione dell'affare. Ciò, si precisa, rischia di tradire il senso dell'articolo 1754 c.c., che definisce il requisito in parola per via di mera negazione come assenza di un rapporto di collaborazione, dipendenza o rappresentanza con una delle parti. Non anche - si osserva - come assenza di mandato.
Mentre il mandatario ha l'obbligo di eseguire l'incarico ricevuto ed ha diritto a ricevere il compenso pattuito indipendentemente dal risultato raggiunto, il mediatore ha la mera facoltà di attivarsi per mettere in relazione le parti ed ha diritto alla provvigione solo se provoca la "conclusione dell'affare".
E, per "conclusione dell'affare", deve intendersi il compimento di un atto in virtù del quale sia costituito un vincolo che dia diritto al compratore di agire per l'adempimento dei patti stipulati o, in difetto, per il risarcimento del danno.
Ed allora, la prestazione del mediatore può esaurirsi nel ritrovamento, e nella indicazione, di uno dei contraenti, indipendentemente dal suo intervento nelle varie fasi delle trattative sino alla stipulazione del contratto, sempre che questo possa ritenersi conseguenza prossima o remota dell'opera dell'intermediario tale che senza di essa, secondo il principio della causalità adeguata, il contratto stesso non si sarebbe concluso.
Tribunale di Catanzaro, sezione II, sentenza 15 marzo 2023, n. 413

CONDOMINIO
Condominio negli edifici - Delibere assembleari - Ripartizione spese comuni
(Cc, articoli 1123, 1135, 1137)
Il Tribunale di Teramo è chiamato a pronunciarsi in tema di ripartizione delle spese condominiali.
I relativi criteri sono stabiliti dall'articolo 1123 c.c. i cui commi 2 e 3 prevedono che le spese dei beni o degli impianti destinati a servire i condomini in misura diversa, ovvero solo una parte dell'intero fabbricato, siano addossati ai soli condomini che ne facciano uso o ne traggano utilità.
Il comma 1 della medesima disposizione stabilisce, invece, che le spese necessarie per la conservazione ed il godimento delle parti e dei servizi comuni debbano essere distribuite tra tutti i partecipanti in proporzione al valore economico delle rispettive unità abitative.
Tali criteri possono essere derogati, come prevede la stessa norma, e la relativa convenzione modificatrice della disciplina legale di ripartizione può essere contenuta sia nel regolamento condominiale (che perciò si definisce "di natura contrattuale"), che in una deliberazione dell'assemblea che venga approvata all'unanimità, o con il consenso di tutti i condomini.
Orbene, con riguardo alle delibere dell'assemblea di condominio aventi ad oggetto la ripartizione delle spese comuni, l'adito Tribunale di Teramo distingue quelle con le quali sono stabiliti i criteri di ripartizione ai sensi dell'articolo 1123 c.c., ovvero sono modificati i criteri fissati in precedenza, per le quali è necessario, a pena di radicale nullità, (come detto) il consenso unanime dei condomini, da quelle con le quali, nell'esercizio delle attribuzioni assembleari previste dall'articolo 1135 c.c., nn. 2 e 3, vengono in concreto ripartite le spese medesime.
In particolare, soltanto queste ultime, ove adottate in violazione dei criteri già stabiliti, devono considerarsi annullabili e la relativa impugnazione va proposta nel termine di decadenza, di trenta giorni, previsto dall'articolo 1137, II, c.c..
In conclusione, in mancanza di una convenzione adottata all'unanimità, espressione dell'autonomia contrattuale, la ripartizione delle spese condominiali generali deve necessariamente avvenire secondo il criterio di proporzionalità fissato dall'articolo 1123, I, c.c., ovvero secondo il criterio fissato dal regolamento contrattuale e, pertanto, l'assemblea condominiale non può, deliberando a maggioranza, ripartire con criterio capitario le spese necessarie per la prestazione di servizi nell'interesse comune.
Tribunale di Teramo, sentenza 15 marzo 2023 n. 230

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