Giustizia

Ridurre sotto i due anni la durata dei processi d’appello non è impossibile

di Gian Luigi Gatta

Due anni per l’appello e un anno per la cassazione, a pena di improcedibilità: è la proposta del governo per apportare un correttivo alla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il primo grado dalla legge Bonafede nel 2019. Quella riforma mirava a ridurre l’incidenza della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, per non impedire l’accertamento di fatti ed eventuali responsabilità quando il processo è in fase avanzata. Un obiettivo condivisibile. La soluzione adottata per conseguirlo ha però posto il problema dell’allungamento dei tempi dei giudizi, venuta meno la prospettiva della prescrizione in appello e in Cassazione e, quindi, la necessità per il giudice di pronunciarsi prima che maturi. Oggi più che mai, il Paese proprio non può permettersi il rischio di allungare i tempi del processo. Nell’interesse di imputati e vittime ne va assicurata la ragionevole durata. Non solo perché lo impone la Costituzione, ma anche perché per garantire la ripresa dell’economia, attraverso riforme strutturali, i tempi del processo penale devono essere ridotti del 25% entro i prossimi cinque anni. È uno degli obiettivi del Pnrr, cui è subordinato lo stanziamento dei fondi europei del Recovery plan (191,5 miliardi). Ecco perché la proposta del governo mantiene l’impianto della riforma Bonafede – blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado – apportando però un correttivo, da più parti sollecitato, che evita il rischio di processi
di durata indeterminata.

Alziamo lo sguardo e guardiamo ai numeri dell’Europa. Solo così possiamo comprendere perché Bruxelles ci chiede di ridurre i tempi del processo penale. Secondo dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia, nell’area del Consiglio d’Europa il processo penale dura in media 4 mesi in primo grado, 3,4 mesi in appello e 3,8 mesi nel giudizio di ultima istanza: meno di un anno per i tre gradi di giudizio. In Italia dura tre volte tanto in primo grado (1 anno); otto volte tanto in appello (2 anni e 4 mesi); solo 42 giorni di più in Cassazione. Numeri alla mano, la fase patologica è quella dell’appello: il nostro Paese ha l’imbarazzante primato europeo per lunghezza media dell’appello penale: 850 giorni contro una media europea di 104. Il non invidiabile podio è condiviso con Cipro (753 giorni) e Malta (534 giorni). La Francia, che pure registra una durata media dell’appello di 309 giorni, tre volte superiore alla media europea, celebra quel giudizio in tempi medi quasi tre volte inferiori ai nostri. Ben sotto il limite dei due anni previsto come deadline nella proposta del governo, con una visione europea. Appelli penali in tempi medi inferiori ai due anni si celebrano infatti oggi in tutta Europa, tranne che in Italia e a Cipro. In Olanda, ad esempio, la media è di 245 giorni, in Svizzera di 137, in Spagna di 54, in Austria e in Slovenia di 43. Quella del governo è una terapia d’urto contro la patologica durata del processo, ma non è una proposta temeraria: anche in Italia, infatti, nella maggior parte delle corti d’appello, da Nord a Sud, i giudizi penali si celebrano già oggi in tempi medi inferiori a due anni. È così a Milano, Brescia, Torino, Genova, Trento, Bolzano, Trieste, Ancona, Perugia, L’Aquila, Campobasso, Salerno, Taranto, Potenza, Catanzaro, Messina, Caltanissetta, Palermo e Cagliari. Sulla media nazionale incidono negativamente i dati di alcune sedi che registrano durate dell’appello superiori. A Napoli è quasi venti volte superiore a quella europea: cinque anni e mezzo. A seguire Reggio Calabria (oltre quattro anni), Roma, Lecce, Sassari e Catania (oltre tre anni), Venezia, Bologna, Firenze e Bari (oltre due anni). Quanto alla Cassazione, grazie all’adozione di ottimali modelli organizzativi la durata media del giudizio penale è di soli cinque mesi e mezzo: ben al di sotto, dunque, della soglia di un anno proposta dal governo. Non è inutile sottolineare che quanto più si riduce la durata del processo quanto più diminuisce l’incidenza tanto della prescrizione del reato (in primo grado), quanto della improcedibilità dell’azione penale (in appello e in Cassazione, secondo la proposta del governo). Se il processo ha una durata ragionevole – questo è il punto – non si verificano e non rappresentano un problema.

I dati, europei e nazionali, mettono a nudo le criticità del nostro sistema. Ci dicono al tempo stesso che contenere i tempi dei giudizi di impugnazione entro i limiti proposti dal governo non solo si deve, ma si può. L’obiettivo è perseguibile anzitutto attraverso riforme strutturali del processo in tutte le sue fasi, volte a ridurne in vario modo i tempi: riforme che sono oggetto di numerosi emendamenti governativi al d.d.l. 2435, all’esame della Camera, approvati giovedì scorso dal Consiglio dei ministri, su proposta della ministra Cartabia.

La sfida cui siamo chiamati non può però essere vinta senza uno sforzo condiviso di tutti gli attori del sistema-giustizia.

In prima linea sono i magistrati e i dirigenti amministrativi, chiamati a individuare e adottare migliori modelli organizzativi, valorizzando e mettendo in comune le best practices diffuse negli uffici giudiziari. Se del caso anche modificando alcune abitudini di lavoro. Notevole è la responsabilità cui sarebbero chiamati, in un sistema che, come nella proposta governativa, prevedesse l’improcedibilità per superamento della durata massima dei giudizi d’impugnazione.

In prima linea non può che essere anche il governo, che dovrà continuare a fare ogni sforzo per investire sulla Giustizia, quale servizio pubblico che reclama maggiori standard di efficienza: un tema che da sempre ha troppo poco spazio nel dibattito pubblico.

Non si tratta solo di organizzare meglio le risorse esistenti; si tratta anche di immettere nel sistema risorse nuove, umane (magistrati e personale tecnico-amministrativo) e materiali (es., per l’edilizia l’informatizzazione del processo). Non va infatti taciuto, sempre guardando ai dati europei, che in Italia il numero medio dei magistrati ogni 100mila abitanti è inferiore alla media europea (11,6 contro 17,7); quello dei loro ausiliari è ancor più inferiore (37,1 contro 60,9). Sforzi per il reclutamento ordinario sono stati compiuti dal precedente come dall’attuale governo, e dovranno proseguire (si svolge questa settimana il concorso per 310 magistrati, bandito nel 2019 e rinviato a causa della pandemia). Grazie poi al Pnrr, un investimento straordinario di 2,3 miliardi di euro è stato effettuato, prevedendo l’assunzione a tempo determinato, nei prossimi cinque anni, di 5.410 unità di personale tecnico-amministrativo e di 16.500 laureati che affiancheranno i magistrati in strutture organizzative denominate “ufficio per il processo”, con l’obiettivo di smaltire l’arretrato: nel complesso saranno assunte 21.910 persone, pari ai due terzi dell’attuale organico degli ausiliari dei magistrati oggi in servizio. È un’occasione imperdibile per migliorare l’efficienza della giustizia, la cui importanza strategica è sottolineata dal viaggio negli uffici giudiziari italiani che sta compiendo in queste settimane la ministra della Giustizia Marta Cartabia per presentare la novità, ascoltare esperienze e prendere nota di esigenze e criticità.

Sono in arrivo (il primo bando è imminente) energie intellettuali giovani, fresche di studio e piene di entusiasmo, che potranno costituire l’equipe del giudice, sul modello dei l aw clerk statunitensi. Anche e proprio nelle corti d’appello ingolfate dall’arretrato e più lente a celebrare i giudizi penali, dove si tratta di aprire gli armadi e mettere mano ai fascicoli.

È in questa prospettiva di ampio respiro, rivolta alla Costituzione, all’Europa e al Pnrr, che deve essere contestualizzata la riforma del processo penale e della prescrizione del reato proposta dal governo.

È una sfida notevole, per la civiltà giuridica e per il bene del Paese, che richiede l’impegno e la collaborazione di tutti: anche del Parlamento, che nei prossimi giorni riprenderà l’esame del disegno di legge per la riforma del processo penale, presentato alla Camera ormai quasi un anno e mezzo fa.

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