Penale

Diffamazione su Facebook, furto di identità da provare in concreto

Per la Cassazione, sentenza n. 39805 depositata oggi, il "nome e cognome" nel profilo oltre alla presenza di altri dettagli hanno "un'insuperabile portata individualizzante"

di Francesco Machina Grifeo

Scatta il reato di diffamazione per chi pubblica sul proprio profilo Facebook, e su di una pagina del social: "Il quotidiano di…", un testo che attribuisce ad una persona specifica, identificata per nome e cognome, il danneggiamento della propria moto qualificandola come "schizofrenica certificata". Né per togliersi dai guai è sufficiente appellarsi ad un furto di identità disconoscendo l'account. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 39805 depositata oggi, respingendo il ricorso di un uomo condannato nel 2021 dalla Corte di appello di Caltanissetta.

Nel ricorso di legittimità l'imputato, tra l'altro, ha dedotto la mancanza di prove nell'avergli attribuito la paternità del profilo Facebook ' incriminato'. La Corte di merito infatti avrebbe "ingiustificatamente disatteso la tesi difensiva…atta ad accreditare il furto d'identità". Valorizzando invece il "mero dato onomastico connotativo e assumendo, senza prova alcuna, che il ricorrente non si fosse dissociato ex post dall'abusiva pubblicazione o che lo stesso ne fosse comunque venuto a conoscenza".

Una doglianza che non convince la V Sezione penale. "Il ricorrente – scrive la Cassazione - ribadisce la mancanza di prova della riconducibilità all'imputato dei profili Facebook "Di …" e "Quotidiano di ….", e lo fa "non solo insistendo su un furto di identità digitale" di cui però, come incensurabilmente opinato dalla Corte di merito, "non è stato allegato alcun elemento obiettivo di conforto, ma trascura del tutto il contenuto stesso delle pubblicazioni che, riportando con dovizia di dettagli episodi dei quali lo era stato protagonista ed iniziative giudiziarie dal medesimo intraprese, finiscono per svolgere un'insuperabile portata individualizzante".

Riguardo poi il motivo che lamenta l'affermazione della responsabilità "in via apodittica", in quanto non vi è stata alcuna "rigorosa verifica della effettiva correlazione tra identità fisica dell'imputato e profilo web dell'autore del messaggio"; né tanto meno la prova relativa ai dati dell'indirizzo IP utilizzato o della titolarità della linea telefonica della connessione e infine neppure l'accertamento del luogo fisico di collegamento del dispositivo, la Cassazione afferma che tali prove, di cui sarebbe stata omessa l'assunzione, "non s'appalesano nella specie decisive, indugiando nella prospettazione di un mero dissenso e ponendo la censura nell'alveo della aspecificità".

Infine, la Suprema corte ricorda che rientra nella sua competenza "conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie".

Mentre "anche le valutazioni di contesto riproposte dal ricorrente non si rivelano idonee ad escludere l'attitudine dell'integrale testo alla lesione della reputazione della parte civile". Il ricorrente, conclude la decisione, non può dunque proporre una "soggettiva reinterpretazione postuma del contenuto delle pubblicazioni che - oltre all'espressione "schizofrenica certificata" della cui obiettiva offensività le conformi sentenze di merito hanno dato ampia ed incensurabile giustificazione - contengono un complessivo svilimento della persona offesa".

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