Casi pratici

La testimonianza scritta e orale tra interrogazioni, valutazioni, percezioni

Nozione e limiti soggettivi e oggettivi

di Laura Biarella

la QUESTIONE
Come si definisce la prova testimoniale? Quali sono le sue ineliminabili caratteristiche? Quale la disciplina processuale dell'assunzione orale e di quella scritta? In che limiti si esercita la facoltà di astensione dal deporre? Quando sussiste l'incapacità a testimoniare? Parenti ed affini possono sostenere la prova?


La testimonianza è la dichiarazione che un soggetto rende in riferimento a uno o più fatti accaduti, dei quali egli è a conoscenza (c.d. dichiarazione di scienza) per averli percepiti attraverso i propri sensi (c.d. testimonianza de visu) o in modo indiretto (testimonianza de auditu). All'interno del processo civile, la testimonianza si caratterizza, e al contempo si differenzia da altri istituti (ad es. interrogatorio, confessione), per la provenienza da un soggetto che, rispetto alle parti in causa, è un terzo disinteressato.
Ciò emerge con chiarezza dall'art. 246 c.p.c., disposizione fondante il nostro istituto, per la quale non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio. Essa è passata indenne al vaglio di costituzionalità: la Consulta, con sentenza n. 248/1974, non la ha infatti ritenuta contrastante con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto fondata sul ragionevole assunto dell'inattendibilità di soggetti il cui interesse nel giudizio li fa naturalmente propendere per una certa versione dei fatti favorevole a una delle parti. Sicché per la Corte l'incompatibilità tra parte e teste rappresenta un principio proprio del nostro ordinamento processuale civile. La Corte ha altresì precisato che tale «antitesi non è stata vista dal Legislatore soltanto con riguardo a colui che sia già parte formale del giudizio ovvero parte in senso sostanziale, cioè quella in nome della quale o contro la quale viene chiesta l'attuazione della legge, ma anche rispetto al titolare o contitolare della situazione giuridica dedotta in giudizio da altro soggetto, il quale ultimo sia legittimato a farla valere in nome proprio, e rispetto al titolare di una situazione giuridica dipendente, sotto il profilo sostanziale, da quella dedotta in giudizio». Con la medesima sentenza, la Consulta ha invece bocciato, sotto il profilo della violazione dell'art. 24 Cost., il successivo art. 247, a mente del quale «non possono deporre il coniuge ancorché separato, i parenti o affini in linea retta e coloro che sono legati a una delle parti da vincoli di affiliazione» (oggi soppressi in virtù della legge n. 184/1983), salvo che la causa verta su questioni di Stato, di separazione personale o relative a rapporti di famiglia. Le ragioni della declaratoria di incostituzionalità si fondano sull'idoneità della norma a minare l'effettività del diritto di difesa. Sicché, a seguito della declaratoria di incostituzionalità della disposizione, oggi questi soggetti possono essere chiamati a testimoniare, ma sarà il giudice a valutarne in concreto l'attendibilità.
La VI Sezione Civile della Corte di Cassazione, nell'ordinanza 02 febbraio 2021, ha statuito che, in tema di prova testimoniale, una volta venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall'articolo 247 cod. proc. civ. per effetto dell'intervento della Consulta (Corte Cost. nr. 248 del 1974) i soggetti che sono legati alle parti processuali da vincoli di parentela od affinità possono (e devono) essere sentiti in qualità di testimoni, restando ovviamente salva, al di là della ricorrenza dell'ipotesi di cui all'articolo 246 codice di rito civile, la successiva valutazione di attendibilità dei testimoni, all'esito del loro esame. Nella stessa occasione è stato precisato che non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone il quale abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, non potendo l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità. Nel caso di specie, relativo ad una controversia in materia giuslavoristica, accogliendo il ricorso, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la pronuncia impugnata nella parte in cui la corte territoriale aveva ridotto la lista testimoniale della ricorrente, escludendo dalla stessa le persone legate a quest'ultima da un vincolo di parentela e solo a motivo di tale vincolo: trattasi, infatti, di espressione, osserva la pronuncia, che denota un pregiudizio ed un aprioristico giudizio di inattendibilità che non trova alcun fondamento nel dettato normativo e nei principi elaborati in sede giurisprudenziale. L'altro limite soggettivo che è caduto sotto la scure della Consulta è quello olim contenuto nell'art. 248 c.p.c., che consentiva l'audizione dei minori degli anni 14 solo in presenza di particolari circostanze che la rendessero necessaria. A seguito dell'intervento demolitorio della Consulta, oggi anche i minori di anni 14 possono sempre essere sentiti, restando al giudice la valutazione in concreto della loro attendibilità . Vi sono infine soggetti che, pur chiamati, hanno facoltà di non testimoniare: si tratta di persone tenute al rispetto del segreto professionale, d'ufficio o di Stato, indicate all'art. 249 c.p.c. (che rimanda all'uopo agli artt. 200, 201, 202 c.p.p.). La possibilità di ricorrere alla prova testimoniale all'interno del giudizio civile incontra una serie di limiti oggettivi codificati dal Codice civile, in particolare agli artt. 2721 ss. Essi si fondano sulla preferenza accordata dal Legislatore alla documentazione scritta nelle ipotesi in cui ciò è possibile: le prove orali infatti, in quanto affidate alla memoria degli uomini (fallibile e parziale) sono considerate meno attendibili di quelle scritte. Infatti limiti oggettivi sono rinvenibili proprio in materia contrattuale (ma anche per il pagamento e la remissione, cui le disposizioni sulla prova testimoniale dei contratti si applicano ai sensi dell'art. 2726 c.c.). Qui è infatti possibile documentazione dell'esistenza e del contenuto della volontà contrattuale, ed è a tale formalizzazione che il Legislatore accorda la preferenza ponendo un correlato divieto di prova testimoniale dell'esistenza e contenuto del contratto che superi un certo valore (così l'art. 2721 c.c.), salva diversa determinazione del giudice, in ragione della «qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza». Poiché l'originario limite di valore, che nel Codice civile del 1942 era di lire 5.000, è stato convertito in euro (2,58) ma non rivalutato, oggi opera sostanzialmente la parte dell'art. 2721 che contiene l'eccezione al limite, sicché è sempre il giudice che ammette la prova testimoniale valutando le circostanze appena enumerate. Diversa è invece la ratio dei divieti di prova testimoniale codificati dai successivi artt. 2722-2725 c.c., e che riguarda il caso di contratti stipulati per iscritto, ma rispetto ai quali si pretenda provare per testi la presenza di patti aggiunti o contrari antecedenti, contemporanei o successivi. Quanto ai patti antecedenti o contemporanei, il divieto di prova per testi si basa sulla valutazione di inverosimiglianza del fatto che le parti si siano risolte alla documentazione scritta del contratto, tralasciando quella di alcune clausole, anche se già note (art. 2722 c.c.). Se invece tali patti sono successivi alla formazione del documento, la logica che ispira la scelta normativa muta: l'autorità giudiziaria può infatti consentire la prova per testimoni se, valutata la qualità delle parti, la natura del contratto e ogni altra circostanza, appare verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali: così l'art. 2723 c.c. A prescindere dalla valutazione delle peculiarità del caso concreto, la legge pone tuttavia una clausola di salvaguardia generale, stabilendo, all'art. 2724 c.c., che la prova per testi è ammessa in ogni caso:
a) quando vi è un principio di prova per iscritto: questo è costituito, secondo l'indicazione in tal senso dello stesso articolo, da qualsiasi scritto, proveniente dalla persona contro la quale è diretta la domanda o dal suo rappresentante, che faccia apparire verosimile il fatto allegato;
b) quando il contraente è stato nell'impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta, il che accade, di solito, nei rapporti tra parenti;
c) quando il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova.
Occorre infine considerare i casi in cui per il contratto è prescritta la forma scritta ad substantiam o ad probationem. Nel primo di essi la prova per testi deve escludersi perché, essendo la forma un requisito di validità del contratto, si profila in mancanza la nullità e quindi si esula dal problema squisitamente probatorio e si entra in quello dell'esistenza stessa di una volontà contrattuale. Nel secondo invece la forma scritta è prevista proprio ai fini della prova, sicché la testimonianza deve del pari escludersi, ma sono ammissibili altre prove quali confessione e giuramento. In entrambi i casi l'art. 2725 c.c. ammette tuttavia la prova se il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che pure era stato redatto: il che, naturalmente, impone altresì la dimostrazione che l'interessato ha assolto all'onere di diligenza nella custodia del documento stesso.

Prova testimoniale e dinamica del processo civile
La prova testimoniale è prova costituenda: essa si forma cioè all'interno del processo e seguendo i suoi meccanismi. Il Legislatore ha infatti prevalutato che solo dal rispetto delle prescrizioni formali imposte scaturisce la possibilità di utilizzare le dichiarazioni ai fini della decisione. La prova de qua è infatti liberamente valutabile dal giudice, cioè rimessa al suo prudente apprezzamento secondo il congegno descritto dell'art. 116, comma 1, c.p.c., sicché è necessario mettere il giudice, proprio mercè il rispetto delle prescrizioni procedimentali, nelle condizioni di acquisire elementi idonei a tale valutazione. Il procedimento segue una scansione precisa, che è inaugurata dalla fase di ammissione, regolata dall'art. 244, per il quale la prova deve essere dedotta con indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata. Il requisito della specificità è funzionale a consentire il controllo giudiziale della ammissibilità e rilevanza del (fatto sul quale verte) la prova, ed è per questo che la giurisprudenza di legittimità rifugge soluzioni formalistiche (Cass. 31 gennaio 2007, n. 2201), ritenendo sufficiente a soddisfare questo requisito che i fatti risultino nei loro elementi essenziali idonei a identificarli (Cass. 28 agosto 2003, n. 12642).
Anche quanto all'identificazione dei testi non appare necessaria l'indicazione delle generalità, risultando sufficiente l'identificazione indiretta tramite riferimento alle funzioni espletate, ad esempio in relazione a cariche direttive o rappresentative di enti o società (Cass. 7 giugno 2003 n. 9150). Neppure occorre necessariamente collegare i testi, ai singoli capitoli di prova, in assenza dovendosene dedurre l'idoneità di ogni teste a essere sentito su tutti i capitoli ammessi. La deduzione della prova per testi soggiace al generale regime previsto dall'art. 183, comma 6, n. 2, mentre l'assunzione avviene ai sensi del successivo comma 7, per il quale a fronte di richieste istruttorie il giudice fissa l'udienza di cui all'art. 184. A molte discussioni ha dato poi luogo l'art. 281 ter, che consente, nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (cui è rimessa la decisione), che sia il giudice a disporre d'ufficio la prova per testi formulandone i capitoli, quanto le parti si siano riferite, nell'esposizione dei fatti, a persone in grado di conoscere la verità. Le discussioni hanno in particolare riguardato due profili. Il primo è se, poiché l'art. 281 ter è nato per regolare il previgente processo pretoriale ove tradizionalmente i poteri istruttori d'ufficio erano riconosciuti con una certa larghezza, la stessa conclusione possa valere ora che, soppresso il pretore, la disposizione regola la maggior parte del contenzioso che si svolge davanti al tribunale (attribuito per regola generale alla decisione monocratica ex art. 50 ter c.p.c.). Infatti si è dubitato che la sola circostanza che la decisione sia rimessa all'organo monocratico piuttosto che al collegio possa giustificare una così importante differenza di poteri istruttori.
L'altro profilo problematico attiene al dubbio se il potere istruttorio de quo possa essere utilizzato anche se le parti sono decadute dal potere di dedurre la prova: a chi risponde negativamente, si fronteggia chi invece vede proprio in tale potere il naturale correttivo alla necessità di decidere, in assenza di prova, applicando il principio dell'onere della prova. La giurisprudenza di legittimità (Cass. 25 novembre 2002, n. 16571) ritiene che il maturare delle preclusioni per le parti osti all'esplicarsi dei poteri istruttori d'ufficio, sicché il giudice non potrebbe ammettere le prove revocando la precedente ordinanza con la quale aveva disposto la precisazione delle conclusioni (nello stesso senso anche Trib. Bari 27 gennaio 2004; Trib. Udine 14 luglio 2003; Trib. Foggia 4 novembre 1999). Nella giurisprudenza di merito si è tuttavia precisato che l'integrazione ufficiosa è ammissibile se intesa a rendere più specifica la prova articolata dalle parti (Trib. Nocera Inferiore 2 luglio 2003; Trib. Reggio Emilia 13 gennaio 2003; Trib. Napoli 30 settembre 2002). È invece testuale il potere di intervento del giudice sotto vari profili. Con l'ordinanza di ammissione il giudice istruttore riduce le liste dei testimoni sovrabbondanti ed elimina quelli che non possono essere sentiti per legge: così l'art. 245 c.p.c., la cui irrazionalità è denunciata dalla dottrina che rileva come la valutazione del giudice sia necessariamente "alla cieca", e possa essere corretta solo attraverso lo ius poenitendi codificato dal c. 2 dell'art. 257 bis c.p.c., a mente del quale il giudice stesso può disporre che siano sentiti i testi la cui audizione aveva ritenuta superflua (o di cui aveva consentito la rinuncia). Si tratta di poteri ampiamente discrezionali (Cass. 17 aprile 2009, n. 9234). È altresì consentito il nuovo esame di testi già interrogati al fine di chiarire la loro deposizione o di correggere irregolarità avveratesi nel precedente esame. Infine. A mente del comma 1 dell'art. 257 bis c.p.c., se alcuno dei testimoni si riferisce, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice ha il potere di disporre che siano chiamate a deporre (si tratta dei c.d. testi di riferimento). Ai testimoni deve essere intimata la comparizione davanti al giudice nel luogo e nella data fissati (tendenzialmente l'udienza, ma anche l'abitazione o l'ufficio del teste nei casi dell'art. 255, comma 2; o con la modalità della rogatoria nei casi dell'art. 203). L'intimazione è compiuta, su richiesta della parte interessata, dall'ufficiale giudiziario in mani proprie del destinatario o a mezzo posta (art. 250, comma 1. Se tali modalità non sono praticabili, esigenze di rispetto della privacy impongono la busta chiusa e sigillata: così il comma 2 dell'art. 250). Solo per i testi ammessi su richiesta delle parti private, l'intimazione a comparire all'udienza può essere effettuata direttamente dal difensore attraverso l'invio di copia dell'atto mediante raccomandata a/r o telefax o posta elettronica nel rispetto della normativa ad hoc (art. 250, comma 3. Il comma 4 prescrive poi il deposito in cancelleria, da parte del difensore, della copia della raccomandata di cui attesta la conformità all'originale, e dell'avviso di ricevimento). È l'ordinanza di ammissione a segnare il confine oltre il quale la testimonianza, in quanto mezzo di prova, smette di essere nella disponibilità esclusiva di chi ne ha richiesta l'ammissione per divenire invece materiale processualmente rilevante per tutte le parti, in applicazione del c.d. principio di acquisizione. È alla luce di quest'ultimo che si spiegano diverse disposizioni: a) l'art. 104 disp. att., comma 1, per il quale se la parte senza giustificato motivo non fa chiamare i testi davanti al giudice, questi la dichiara decaduta dalla prova se, e solo se, l'altra parte non dichiari di avere a sua volta interesse all'audizione; b) l'art. 255, che dà al giudice il potere di rinnovare l'intimazione, disporre l'accompagnamento del teste e, in ipotesi di ulteriore mancata comparizione ingiustificata, di imporre una multa; c) l'art. 256, per il quale a fronte del rifiuto del teste di giurare o di deporre senza giustificato motivo; o di sospetto di reticenza o mendacio, il giudice istruttore lo denuncia al P.M. Si giunge così al momento dell'interrogatorio del teste. Esso è preceduto dalla dichiarazione di impegno prevista dall'art. 251 che, malgrado rechi ancora la rubrica Giuramento dei testimoni, è stato corretto in senso costituzionalmente conforme dalla Consulta (sen. n. 149/1995), sicché oggi esso codifica proprio la dichiarazione di impegno prevista anche dall'art. 497 c.p.p. I testi, previa identificazione personale, sono sentiti separatamente, precauzione intesa a salvaguardare la spontaneità della deposizione e a scongiurare anche reciproche influenze nella ricostruzione dei fatti. I capitoli sono quelli formulati dalle parti e ammessi, ma il giudice può rivolgere ogni domanda utile a chiarire i fatti (mentre sia il P.M. che le parti non possono interloquire direttamente con i testi: così l'art. 253). Se poi si appalesano divergenze tra le dichiarazioni rese da più testi, il giudice ha il potere di disporne d'ufficio il confronto (art. 254). Vi è infine la verbalizzazione delle operazioni (art. 207).

Il ruolo assunto dalle valutazioni e la c.d. testimonianza tecnica
Si è già detto che la testimonianza è dichiarazione di scienza e verte su fatti. Si è tuttavia rilevato come risulti sommamente difficile discernere ciò che è stato percepito con i sensi da ciò che è invece il risultato di una attività valutativa anche involontaria del teste, sicché anche la giurisprudenza è più volte intervenuta a chiarire quali debbano essere i confini tra gli uni e le altre. In particolare, la Cassazione ha chiarito che la presenza di valutazioni non inficia la testimonianza se gli apprezzamenti appaiono da essa inscindibili, purché però la testimonianza stessa non si riduca a una interpretazione del tutto soggettiva o indiretta dei fatti (Cass. 22 aprile 2009, n. 9526). Vi sono poi ipotesi nelle quali la testimonianza finisce, per l'oggetto sul quale verte, per risolversi quasi del tutto in valutazioni. Si tratta dei casi di c.d. testimonianza tecnica, possibili, ad esempio, quando occorra appurare le condizioni di capacità mentale di un soggetto, o quando occorra effettuare valutazioni che comportano il disimpegno di nozioni tecniche appartenenti a un determinato ambito di competenze professionali. Le valutazioni devono tuttavia pur sempre affondare le radici nell'applicazione di tali nozioni, e non risolversi in impressioni personali prive di qualsivoglia appiglio o giustificazione tecnica.
Nel novembre 2021 (Ordinanza n. 35146), il collegio di legittimità, enunciando espressamente quattro principi di diritto nella medesima Ordinanza, ha rimarcato che la circostanza che un capitolo di prova per testimoni sia formulato sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria, come pure ha precisato che richiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una "valutazione", ed è dunque ammissibile, fermo restando il potere-dovere del Giudice di valutare, "ex post", se la risposta fornita si basi su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni.
É stato chiarito (Cassazione Civ., Sez. VI-3, Ordinanza 28 agosto 2020, n. 17981) che in sede di assunzione della prova testimoniale, il giudice del merito non rappresenta un mero registratore passivo di quanto dichiarato dal testimone, bensì un soggetto attivo partecipe dell'escussione, al quale l'ordinamento attribuisce il potere-dovere, non solo di sondare con zelo l'attendibilità del testimone, ma pure di acquisire dal medesimo tutte le informazioni indispensabili per una giusta decisione, sicché egli non può, senza contraddirsi, dapprima, astenersi dal rivolgere al testimone domande a chiarimento, e, in seguito, ritenerne lacunosa la deposizione perché carente su circostanze non capitolate, sulle quali nessuno ha chiesto al testimone di riferire. In tale ipotesi, per l'effetto, la devalutazione della testimonianza fondata sul rilievo che il teste si è limitato a confermare la rispondenza al vero delle circostanze dedotte nei capitoli di prova senza aggiungere dettagli mai richiestigli, riposa su argomentazioni tra loro logicamente inconciliabili, sì da costituire motivazione solo apparente. Inoltre (Tribunale Milano Civ., Sez. VII, 22 aprile 2020, n. 2515), in riferimento alla capacità di testimoniare, prevista dall'art. 246 c.p.c., è stato osservato che la stessa si verifica solo quando il teste risulta titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire di cui all'art. 100 c.p.c., tale da legittimarlo a partecipare al giudizio ove è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione, non avendo, invece, rilevanza l'interesse di fatto a un determinato esito del processo salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell'attendibilità del teste.

La nullità in quanto resa da incapace: i chiarimenti della Suprema Corte
La Corte di Cassazione(Sez. II Civile, Ordinanza 9 novembre 2020, n. 25021) ha avuto modo di precisare che la nullità della testimonianza resa da persona incapace (in quanto portatrice di un interesse che avrebbe potuto legittimare il suo intervento in giudizio) deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, ai sensi dell'articolo 157, comma 2, c.p.c. (salvo che il difensore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio, nel qual caso la nullità può essere eccepita nell'udienza successiva), sicché, in mancanza di tempestiva eccezione, deve intendersi sanata, senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare, proposta a norma dell'articolo 246 c.p.c., possa ritenersi comprensiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione. Ove poi l'eccezione di nullità della testimonianza resa dall'incapace venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo. Infine, se l'eccezione di nullità della deposizione del teste incapace, ritualmente proposta, non sia stata proprio presa in esame dal giudice davanti al quale la prova venne espletata, la medesima deve essere formulata con apposito motivo di gravame avanti il giudice di appello, ovvero, se sollevata dalla parte vittoriosa in primo grado, da questa riproposta poi nel giudizio di gravame.

La testimonianza scritta
L'art. 257 bis c.p.c. consente, in presenza di accordo tra le parti e previa valutazione discrezionale del giudice in ordine sia alla natura della causa che a ogni altra circostanza, che la deposizione del teste venga acquisita in forma scritta, cioè attraverso risposte a quesiti preventivamente formulati nel c.d. modello di testimonianza, che il teste deve compilare e di cui il giudice, con il provvedimento di ammissione, dispone la confezione da parte del difensore della parte che ha richiesto la testimonianza scritta, e che egli stesso deve far notificare al teste (art. 257 bis, comma 2).
Dopo aver fornito risposta a ogni singolo quesito e/o aver precisato a quale di essi non è in grado di rispondere e perché, il testimone deve apporre la propria firma autenticata (gratuitamente da un segretario comunale o dal cancelliere di un ufficio giudiziario: art. 103 bis disp. att.) su ogni foglio del modello, e spedire il modulo in plico chiuso raccomandato o consegnarlo alla cancelleria del giudice (art. 257 bis, comma 5). La mancata consegna nel termine stabilito dà al giudice il potere discrezionale di condannare il teste alla pena pecuniaria comminata dall'art. 255, comma 1 (espressamente richiamato dall'art. 257 bis, comma 6) al teste che non si presenta a rendere la testimonianza in forma tradizionale.
Si ritiene in via ermeneutica che il giudice debba anche fissare un termine al difensore per la notifica del modulo al teste, il cui mancato rispetto dovrebbe importare decadenza dalla prova ex art. 104 disp. att. Al teste è riconosciuta la facoltà di astensione prevista dall'art. 249 (che a sua volta richiama agli artt. 200-202 c.p.p.), ma la compilazione del modello di testimonianza è comunque richiesta, con l'indi cazione delle generalità e dei motivi dell'astensione. Queste formalità non sono invece imposte se la dichiarazione testimoniale riguarda documenti di spesa già depositati dalle parti, il teste dovendo solo sottoscrivere la dichiarazione e trasmetterla direttamente al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza bisogno del modello di testimonianza previsto dagli artt. 257 bis e 103 bis disp. att. Ovviamente in tali casi troveranno pur sempre applicazione i presupposti di ammissibilità della testimonianza scritta: accordo delle parti e valutazione discrezionale del giudice. Il riferimento del primo comma dell'art. 257 bis all'art. 203 consente l'utilizzo del nuovo quomodo anche in caso di testimonianza da rendere fuori della circoscrizione del giudice adito. L'art. 257 bis contiene una norma di chiusura di grande importanza sistematica e pratica: il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni del teste, può sempre disporre che egli sia chiamato a deporre davanti a lui o al giudice delegato. Il Tribunale di Tivoli (Sentenza 14 maggio 2020) ha chiarito che il rapporto investigativo privato prodotto costituisce scritto proveniente da un terzo, e quindi prova atipica. Tale tipo di prova è ammessa nel nostro ordinamento purché nel rispetto dei divieti e delle preclusioni sostanziali o processuali, ed ha in tal caso valore di presunzione semplice ex art. 2729 c.c. o di argomento di prova. Nel caso di specie, tuttavia, avendo tale documento contenuto di testimonianza, e non essendo ammessa se non nelle forme espressamente disciplinate dall'art. 257 bis c.p.c. la testimonianza scritta, il relativo contenuto può avere ingresso nel processo esclusivamente laddove il terzo sia chiamato a testimoniare, ponendosi altrimenti la prova scritta in contrasto col principio dell'acquisizione davanti al giudice ed in contraddittorio delle prove costituende, previo vaglio di ammissibilità delle stesse.

Profili processuali della testimonianza scritta
L'art. 257 bis subordina l'esperibilità della testimonianza scritta alla contemporanea ricorrenza di due requisiti: l'accordo delle parti e la valutazione discrezionale del giudice. Quanto al primo, esso riguarda tutte le parti processuali, sia originarie che intervenute volontariamente nel processo o chiamate iussu iudicis o su istanza di parte (ex artt. 105, prima parte, 106 e 107). Se ricorre una ipotesi di litisconsorzio facoltativo ex art. 103 (facoltativo sia quanto a instaurazione che quanto a istruttoria e decisione, e quindi esclusi i casi di c.d. litisconsorzio unitario, in cui si ripropone la necessità dell'accordo di tutte le parti) l'accordo riguarda le sole parti della causa nella quale sarà assunta la testimonianza. A problemi ermeneutici dà invece luogo l'ipotesi delle parti contumaci, cui l'art. 257 bis non fa esplicito riferimento. Secondo una prima lettura, la contumacia osta all'ammissione della testimonianza scritta; secondo altra impostazione invece del contumace non è necessario acquisire il consenso, bastando la sola istanza delle parti costituite (e la positiva valutazione del giudice). La soluzione preferibile appare proprio quest'ultima, la testimonianza scritta avendo il medesimo valore probatorio di quella orale per la quale la legge non richiede il coinvolgimento del contumace, come invece accade per l'interrogatorio formale e il giuramento. In caso di parti contumaci dunque non opera il presupposto dell'accordo delle parti, essendo l'ammissione del nuovo quomodo di assunzione subordinata solo alla valutazione discrezionale del giudice. Altro presupposto è, per l'appunto, la valutazione discrezionale del giudice, che ha a oggetto «la natura della causa e ogni altra circostanza». Il riferimento, oltre che alla natura della causa, anche a ogni altra circostanza, denota la chiara voluntas legis di rimettere totalmente alla discrezionalità del giudice (sia pure subordinatamente all'acclarato raggiungimento dell'accordo tra le parti) la scelta tra l'escussione in forma scritta e quella in forma orale.

La testimonianza scritta quale species del genus testimonianza
L'art. 257 bis (e l'art. 103 bis disp. att. che ne completa le prescrizioni di forma in riferimento al modello di testimonianza) codifica una nuova modalità di escussione dei testi, in particolare sotto il profilo del quomodo di ingresso della prova nel processo civile, e non una nuova prova. Ne consegue che nulla può ritenersi mutato né in ordine ai presupposti generali di ammissibilità della prova testimoniale (artt. 2721-2726 c.c.); né alla natura e consistenza delle valutazioni di rilevanza dei facta probanda; né infine ai criteri di valutazione della prova stessa, che restano quelli previsti dall'art. 116, comma 1.
Il riferimento dell'art. 257 bis, comma 5 alla facoltà di astensione (riferimento ripreso anche dall'art. 103 bis, disp. att. comma 1), e quelli dell'art. 103 bis disp. att., comma 1, all'ammonimento ai sensi dell'art. 251 e alla formula del giuramento (rectius, dichiarazione di impegno: v. amplius supra), oltre che ai quesiti, fanno propendere per l'applicabilità alla testimonianza scritta degli artt. 244 (Modo di deduzione); 245 (Ordinanza di ammissione); 246 (Incapacità a testimoniare); 249 (Facoltà di astensione); 251 (Giuramento dei testimoni). L'art. 255 (Mancata comparizione dei testimoni) è invece applicabile nei limiti individuati dallo stesso art. 257 bis. Il quomodo dell'escussione scritta è invece regolato direttamente dalla lex specialis degli artt. 257 bis e 103 bis disp. att. In particolare, i profili relativi all'identificazione dei testi (art. 252, comma 1) sono autonomamente regolati dall'art. 257 bis, commi 2, 3 e 4, nonché dall'art. 103 bis disp. att. Stessa conclusione vale: a) per l'art. 250, commi 1 e 2, disciplinante l'intimazione dell'ufficiale giudiziario ai testi da escutere oralmente, inoperante in virtù della speciale previsione dell'art. 257 bis, comma 2, per il quale è al difensore che compete far notificare al teste il modello di testimonianza da lui stesso apprestato; b) per il secondo comma dell'art. 252, a mente del quale le parti possono fare osservazioni sull'attendibilità del testimone, cui quest'ultimo deve rispondere fornendo i chiarimenti necessari, inoperante salvo che il giudice si avvalga del potere generale di sentire nuovamente il teste all'udienza; c) per l'art. 253, comma 1, per il quale il giudice interroga il teste e può rivolgergli, d'ufficio o su istanza di parte, le domande che ritiene utili a chiarire i fatti medesimi; per l'art. 253, c. 3, per il quale, in virtù del richiamo all'art. 231, la parte interrogata deve rispondere personalmente e non può, se non in ipotesi specifiche, servirsi di scritti preparati. Sic stantibus, enorme appare il divario tra testimonianza scritta e testimonianza orale, regina delle prove costituende che si plasma all'interno del processo avvalendosi del contributo dialettico delle parti in contraddittorio davanti al giudice (di cui è traccia nell'art. 252, comma 2, sulle osservazioni delle parti sull'attendibilità del teste; nell'art. 253, comma 1, sulle domande che il giudice gli rivolge per chiarire i fatti; nell'art. 254, che in caso di divergenze tra le deposizioni di due o più testimoni, consente al giudice di disporne il confronto). E se anche nella realtà i testi sono di fatto sentiti direttamente dagli avvocati e compaiono al cospetto del giudice solo per l'identificazione e la formale conferma di quanto già detto, il contraddittorio è comunque salvaguardato proprio dalla presenza degli avvocati di tutte le parti, cui è in definitiva rimesso il controllo sul contenuto e il quomodo delle dichiarazioni dei testi citati dalle controparti, così preservando il carattere orale e immediato della prova. Non così, invece, nel modello a escussione scritta. Qui il teste non compare in udienza ma si limita a compilare un modello previa assunzione dell'impegno di dire il vero, in uno stato di solipsismo. Difetta ogni controllo del giudice e della controparte sul grado di attendibilità del teste e su quello della sua conoscenza diretta degli eventi narrati. È pur vero che nel modulo di testimonianza il teste stesso deve «precisare se ha avuto conoscenza dei fatti oggetto della testimonianza in modo diretto o indiretto» (art. 103 bis disp. att.); ma è altrettanto vero che l'assenza di controllo preventivo del rispetto di tali prescrizioni moltiplica il margine di rischio che il teste, imbeccato dal legale della parte che ne ha chiesto l'escussione, venga "addomesticato" in senso favorevole a quest'ultima. Ciò è tanto più vero in considerazione della circostanza che l'art. 257 bis dedica attenzione al profilo del controllo sulla provenienza della dichiarazione, all'uopo optando per l'autenticazione della firma, ma non prescrive che il giuramento e la dichiarazione siano rese davanti a un pubblico ufficiale, secondo la modalità tipica della testimonianza scritta nei modelli di riferimento. Il giuramento (rectius dichiarazione di impegno) "solitario" e la sola presenza della parte /o del difensore nel cui interesse la prova è assunta segnano dunque, nel modello di casa nostra, l'abbandono del corredo di garanzie e di responsabilità operanti nei modelli già consolidati in altri ordinamenti. D'altra parte, la testimonianza scritta, pur avendo tutte le caratteristiche dello scritto autenticato proveniente da terzi ex art. 2703 c.c., ha il medesimo valore di quella orale.
Solo che il giudice, per le ragioni già viste, non ha a disposizione i medesimi elementi ricavabili da una testimonianza orale per valutare tutti i complessi profili legati alla credibilità/attendibilità del teste.
Va inoltre considerata la circostanza che la legge rimette direttamente al difensore che ha richiesto la testimonianza scritta l'onere di predisporre il relativo modulo, «in conformità agli articoli ammessi»: quid allora se la trascrizione non è fedele? Infine, l'art. 257 bis consente al giudice, esaminate le risposte scritte, di disporre sempre che il teste sia sentito all'udienza. Non specificando i presupposti della rinnovazione dell'escussione, la norma finisce con l'affidare al giudice un enorme potere discrezionale in tal senso, sia pure occasionato dall'esame delle risposte scritte. Tale potere potrebbe essere utilizzato, ad esempio, se egli ritenga necessario rivolgere al teste domande a chiarimento dei fatti o relative alla sua attendibilità, o addirittura disporre il confronto tra più testi ai sensi dell'art. 254; o in caso di verifica della divergenza tra i quesiti ammessi e quelli trasfusi nel modello di testimonianza; o ancora se dalle risposte scritte emergano incongruenze o ambiguità tali da consigliare la rinnovazione dell'esame, stavolta nella più controllabile forma orale. Occorre inoltre fare i conti con l'art. 257: se infatti il teste che ha deposto per iscritto si è riferito, per la conoscenza dei fatti, ad altre persone, il giudice può d'ufficio non solo chiamare queste ultime a deporre, ma anche il teste che ha già deposto per iscritto, e persino metterli a confronto, il tutto in forma orale. Neppure può escludersi, infine, un generale ius poenitendi del giudice a favore dell'esame del teste in forma orale ogni volta in cui egli ritenga, per le circostanze del caso concreto, di poter più efficacemente valutarne l'attendibilità e/o la serietà. Da questo punto di vista, la disposizione potrebbe anzi ritenersi applicazione, all'ipotesi della testimonianza scritta, del generale potere di rinnovare l'esame orale dei testi previsto dall'art. 257, comma 2. Tutto ciò finisce però per privare l'escussione scritta di concreta utilità e di quelle potenzialità deflattive del carico di lavoro dell'ufficio alle quali il Legislatore aveva affidato l'ennesima (vana) speranza di porre rimedio ai tempi biblici del processo civile.

L'esenzione dal dovere di rendere testimonianza
La Corte di Cassazione, decidendo tramite l'Ordinanza n. 27703 del 2020, ha affrontato una fattispecie dove due avvocati hanno esercitato la facoltà di non testimoniare, prendendo le mosse dalla pronuncia della Consulta n. 87 del 1997. Anzitutto, è stato ribadito che la testimonianza rappresenta un dovere per il cittadino, da cui deriva l'obbligo di presentarsi dinanzi al giudice e di prestare giuramento ai sensi dell'articolo 251 del codice di rito civile. Nella stessa occasione la Corte ha rammentato che, ove il teste rifiuti di giurare o di deporre senza giustificato motivo, ovvero in ipotesi in cui risulti essere stato reticente o menzognero, il giudice può denunciarlo al pubblico ministero, in virtù dell'articolo 256 c.p.c., per il delitto di cui all'articolo 372 del codice penale. Ad ogni buon conto, taluni soggetti, per l'ufficio che ricoprono o per la professione che esercitano, come gli avvocati, non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto in ragione del proprio ufficio o professione, potendo, per l'effetto, essere esentati dall'obbligo di deporre. L'articolo 249 del codice di rito civile riconosce all'avvocato la facoltà di astenersi dal rendere testimonianza, in virtù del richiamo effettuato all'articolo 200 del codice di procedura penale. In ordine alla tematica, tramite la sentenza n. 87/1997, la Corte costituzionale aveva chiarito che la disciplina positiva sul segreto di chi esercita la professione forense, risultava dettata dall'esigenza di assicurare la difesa tecnica, di modo che a un difensore tecnico possano essere resi noti fatti e circostanze che sono necessari, ovvero utili, al fine dell'esercizio di un efficace ministero difensivo. In altre parole, la facoltà di astensione dell'avvocato non è un'eccezione alla regola che prevede l'obbligo di rendere testimonianza, bensì costituisce espressione del principio di tutela del segreto professionale. La Consulta, nella stessa occasione, ritenne che, ai fini dell'esercizio della succitata facoltà, occorre la sussistenza di due requisiti: il primo, di carattere soggettivo, è riferito alla condizione di avvocato da parte di chi è chiamato a testimoniare, e cioè di essere professionalmente abilitato ad assumere la difesa della parte in giudizio, mentre il secondo requisito, di natura oggettiva, afferisce all'oggetto della deposizione, e cioè deve concernere circostanze conosciute dall'avvocato in ragione della propria attività professionale. L'esenzione dal tale dovere non vuole assicurare una condizione di privilegio a chi esercita una certa professione, bensì è preordinato a tutelare la piena esplicazione del diritto di difesa, avendo la disciplina realizzato un bilanciamento tra il dovere di rendere testimonianza e quello di mantenere il segreto su quanto appreso nello svolgimento dell'attività professionale. L'avvocato può, quindi, avvalersi di tale facoltà riguardo alle conoscenze apprese in ogni fase dell'attività professionale, sia contenziosa che stragiudiziale, poiché il presupposto oggettivo non può essere limitato alla sola ipotesi in cui lo stesso abbia assunto la veste di difensore nel processo. Nella fase processuale il soggetto che intende avvalersi della facoltà di non deporre deve esplicitarlo in sede di udienza di assunzione della prova. Il giudice provvede con ordinanza revocabile. Il controllo riservato al giudice circa il corretto esercizio della facoltà di astensione risulta limitato, in senso esclusivo, all'accertamento della ricorrenza dei due presupposti, soggettivo e oggettivo, senza che la scelta posta in essere dall'avvocato, chiamato a testimoniare, possa essere sindacabile sotto il profilo dell'interesse del soggetto che ha articolato la prova. La Cassazione, sulla base della richiamata presa di posizione della Consulta, ha ribadito che la protezione del segreto professionale presenta carattere oggettivo e riguarda la tutela delle attività inerenti la difesa e non l'interesse soggettivo del professionista. Al riguardo, la facoltà di astensione dalla testimonianza viene accordata dalla legge pure ad ulteriori esercenti le professioni, quali medici, commercialisti, giornalisti. Finanche in tali ipotesi, la facoltà di astensione non si manifesta quale privilegio, bensì come esigenza di tutela del segreto professionale cui sono tenuti. Nonostante l'ordinamento civile ritenga tali soggetti capaci di testimoniare, tuttavia, in riferimento al ruolo soggettivo e oggettivo che rivestono, gli stessi vengono dispensati dal dovere di rendere testimonianza. In definitiva, la facoltà di astensione dalla testimonianza in giudizio, riconosciuta all'esercente la professione forense, si inquadra nella tutela del diritto di difesa per cui il professionista può avvalersene riguardo alle conoscenze acquisite in ogni fase dell'attività professionale, sia contenziosa che non, e il presupposto oggettivo connesso allo svolgimento dell'attività svolta non e circoscritto alla sola ipotesi in cui lo stesso abbia assunto la veste di difensore nel processo.

Considerazioni conclusive
La prova testimoniale consiste nella dichiarazione che un soggetto rende in riferimento a uno o più fatti accaduti, dei quali lo stesso risulti a conoscenza (c.d. dichiarazione di scienza) per averli percepiti attraverso i propri sensi (c.d. testimonianza de visu) o in modo indiretto (testimonianza de auditu). All'interno del procedimento civile, la testimonianza si caratterizza, e al contempo si diversifica da ulteriori istituti probatori (ad es. interrogatorio, confessione), per la provenienza da un soggetto che, rispetto alle parti in causa, è un terzo disinteressato. Ad ogni buon conto è stato di recente chiarito che una volta venuto meno il divieto di testimoniare previsto dall'articolo 247 c.p.c. per effetto dell'intervento della Consulta (n. 248 del 1974) i soggetti che sono legati alle parti processuali da vincoli di parentela od affinità possono (e devono) essere sentiti in qualità di testimoni, restando ovviamente salva, al di là della ricorrenza dell'ipotesi di cui all'art. 246 c.p.c., la successiva valutazione di attendibilità dei testimoni, all'esito del loro esame. Infatti, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone il quale abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, non potendo l'attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità. Ulteriormente (Cassazione Civ., Sez. I, Ordinanza 3 dicembre 2020, n. 27703) la facoltà di astensione dalla testimonianza in giudizio, riconosciuta all'avvocato, si inquadra nella tutela del diritto di difesa per cui il professionista può avvalersene riguardo alle conoscenze acquisite in ogni fase dell'attività professionale, sia contenziosa che non, e il presupposto oggettivo connesso allo svolgimento dell'attività svolta non e circoscritto alla sola ipotesi in cui egli abbia assunto la veste di difensore nel processo.
Infine, notevoli precisazioni sono provenute dal collegio della VI Sezione Civile della Cassazione (n. 35146/2021) che, enunciando espressamente quattro principi di diritto sull'argomento in parola, ha rimarcato che la circostanza che un capitolo di prova per testimoni sia formulato sotto forma di interrogazione negativa non costituisce, di per sé, causa di inammissibilità della richiesta istruttoria, e che richiedere ad un testimone se una cosa reale fosse visibile o non visibile è una domanda che non ha ad oggetto una "valutazione", ed è dunque ammissibile, fermo restando il potere-dovere del Giudice di valutare, "ex post", se la risposta fornita si basi su percezioni sensoriali oggettive o su mere supposizioni.

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