Penale

Revoca della patente: è sanzione amministrativa accessoria "convenzionalmente" penale rivedibile dal giudice dell'esecuzione

La sentenza n. 68/2021 che ha dichiarato l'illegittimità dell'articolo 30, comma 4, della legge 87/1953

di Aldo Natalini

 

È rideterminabile in melius in fase esecutiva, al pari delle statuizioni penali, la sanzione amministrativa della revoca della patente disposta dal giudice penale con sentenza irrevocabile di condanna: gli effetti retroattivi delle sentenze costituzionali si estendono anche alle sanzioni (nominalisticamente) amministrative aventi natura sostanzialmente punitiva, come ritenuto – agli effetti della Convenzione EDU – riguardo al ritiro o alla sospensione della patente o al divieto di condurre veicoli a motore disposti a seguito dell’accertamento di infrazione connesse alla circolazione stradale.

Così la Corte Costituzionale con la sentenza n. 68/2021, depositata oggi, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 30, comma 4, della legge n. 87/1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), il quale prevede testualmente che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali ”.

La norma è incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza – come recita il dispositivo – «in quanto interpretata nel senso che… non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’articolo 222, comma 2, del Codice della Strada».

Nessuna distinzione trattamentale, dunque, tra sanzioni egualmente suscettibili di incidere, in senso afflittivo, sui diritti fondamentali della persona, quale che sia la loro natura giuridica, siccome ritenute tutte “convenzionalmente” penali. D’ora in poi il giudice dell’esecuzione deve poter modificare le statuizioni sulla sanzione accessoria di cui all’articolo 222, comma 2, del Codice della strada – onde adeguarle alla sentenza costituzionale n. 88/2019 (che ha rimosso ogni automatismo applicativo della revoca della patente) – al pari delle altre statuizioni.

 

Le censure del giudice a quo

L’odierna questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal Gip di Milano nell’ambito di un procedimento di esecuzione relativo a condanna definitiva per il delitto di cui all’articolo 589-bis del Cp, cui era seguita de iure l’applicazione della sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente.

A seguito della sentenza costituzionale n. 88/2019 - con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale automatismo sanzionatorio - il condannato aveva chiesto al giudice dell’esecuzione la revoca della suddetta sanzione (formalmente) amministrativa argomentando sulla sua sicura afflittività, con conseguente invocata applicazione della giurisprudenza convenzionale secondo cui dovrebbe valere retroattivamente la lex mitior.

Il remittente milanese, aderendo a questa prospettiva “convenzionalmente orientata”, ha ritenuto costituzionalmente illegittimo l’articolo 30, comma 4, della legge n. 87/1953 – il quale prevede che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali ” - “nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rideterminare [anche] una sanzione amministrativa accessoria oggetto di una declaratoria di illegittimità costituzionale che ne abbia mutato di fatto la disciplina”.

La norma – insuscettibile di interpretazione estensiva stante l’inequivoco tenore letterale – preclude infatti al giudice dell’esecuzione di rideterminare la sanzione amministrativa accessoria nel caso in esame. Di qui la necessità – ad avviso del giudice a quo – di superare la tralatizia distinzione tra sanzioni penali e sanzioni (formalmente) amministrative, atteso che entrambe possono incidere sui diritti fondamentali della persona: il differente trattamento che la norma censurata prevede fonda la violazione del precetto di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione.

L’impossibilità di rimuovere la sanzione amministrativa – pur costituzionalmente illegittima – implicherebbe inoltre per il rimettente lombardo un’indebita limitazione dei diritti costituzionali del ricorrente protetti dagli articoli 35 e 41 della Costituzione (impedendogli, in particolare, di svolgere la professione di autista di autocarri, che esercitava all’epoca del fatto) e, dunque, una violazione della sua libertà di iniziativa economica e del suo diritto al lavoro, seriamente compromessi dalla revoca della patente di guida, considerata pacificamente sanzione “penale” dalla giurisprudenza CEDU, donde la rilevata doglianza circa la violazione, altersì, degli articoli 25 e 117 della Costituzione.

 

Il dictum: un’additiva di incostituzionalità su norma di procedura

La decisione in commento consiste in un’additiva di incostituzionalità avente ad oggetto una norma di procedura così come interpretata dal diritto vivente.

Invero, rispetto dell’articolo 30, comma 4, della legge n. 87/1953, per effetto di una terna di pronunce nomofilattiche (sezioni Unite penali, n. 18821/2014; Id., n. 42858/2014; Id., n. 37107/2015), era venuta a consolidarsi, nella giurisprudenza di legittimità, un’interpretazione ampia – ma non sufficientemente ampia da superare il vulnus di incostituzionalità – della norma scrutinata quanto al tipo di declaratoria di illegittimità costituzionale che infrange il giudicato penale. Tale attitudine viene riconosciuta non solo alla pronuncia che rimuova, in tutto o in parte, la norma incriminatrice, producendo un’abolitio criminis, ma anche a quella che si limiti ad incidere (in senso mitigativo) sul trattamento sanzionatorio (ad esempio, eliminando una circostanza aggravante o rimodulando la cornice edittale): ipotesi nella quale il condannato in via definitiva può ottenere la sostituzione della pena inflittagli con quella conforme a Costituzione tramite lo strumento dell’incidente di esecuzione, sempre che la pena stessa non sia già stata interamente eseguita.

Peraltro, il riferimento generico alla «norma dichiarata incostituzionale», contenuto nella disposizione del 1953 si presterebbe a richiamare qualsiasi tipologia di norma penale, comprese, quindi, quelle che incidono sull’entità del trattamento sanzionatorio (sezioni Unite penali, n. 37107/2015; Id., n. 42858/ 2014; Id., n. 18821/2014).

Si tratta di interpretazione che la Corte Costituzionale ha avuto modo di qualificare, in precedenti occasioni, come «non implausibile» (Corte Costituzionale n. n. 43/2017, n. 57/2016 e n. 210/2013) e che è apparso  senz’altro configurabile, allo stato attuale, in termini di diritto vivente.

Muovendo da questo diritto vivente, la Consulta – con la decisione additiva in esame, che ne allarga la portata – ha affrontato l’ulteriore e distinto problema dell’estensione del campo applicativo della norma censurata con riguardo al tipo di sanzione attinta dalla declaratoria di illegittimità costituzionale: non solo la sanzione penale, ma anche la sanzione amministrativa qualificabile come penale ai sensi della CEDU. Ciò, evidentemente, sul presupposto che tale ulteriore risultato non fosse viceversa conseguibile in via di interpretazione.

 

La giurisprudenza CEDU sulla natura delle sanzioni connesse alla circolazione stradale

Come rammenta la stessa sentenza in esame, la Corte EDU ha preso più volte posizione sulla natura penale, agli effetti della Convenzione, di misure quali il ritiro e la sospensione della patente, o il divieto di condurre veicoli a motore, disposte a seguito dell’accertamento di infrazioni connesse alla circolazione stradale.

Da tali pronunce emerge un orientamento sostanzialmente univoco, alla luce del quale – ancorché le misure in discorso siano configurate nel diritto interno come misure amministrative finalizzate a preservare la sicurezza stradale – esse si connotano come di natura convenzionalmente penale quando l’inibizione alla guida si protragga per un lasso di tempo significativo, tanto più, poi, ove la loro applicazione consegua a una condanna penale (Corte EDU, sentenza 4 gennaio 2017, Rivard contro Svizzera; Id., sentenza 17 febbraio 2015, Boman contro Finlandia; Id., decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): venendo, in tal caso, le misure stesse ad assumere, per il loro grado di severità, un carattere punitivo e dissuasivo (Corte EDU, sentenza 21 settembre 2006, Maszni contro Romania).

In quest’ottica, i giudici della Convenzione hanno fatto rientrare nella «materia penale» il ritiro della patente per la durata di diciotto mesi (Corte EDU, decisione 13 dicembre 2005, Nilsson contro Svezia): lasso di tempo ben più breve – come opportunamente rileva la sentenza odierna – dei cinque anni per i quali si protrae, nella più favorevole delle ipotesi, la revoca della patente disposta ai sensi dell’articolo 222 del Codice della Strada.

La Corte di Strasburgo ha ripetutamente qualificato come di natura penale, agli effetti della Convenzione, persino la misura della decurtazione dei punti della patente, in quanto idonea a determinare, alla fine, la perdita del titolo abilitativo alla guida. Al riguardo, i giudici europei hanno posto in evidenza come sia «incontestabile che il diritto di condurre un veicolo a motore si rivela di grande utilità per la vita corrente e l’esercizio di una attività professionale»: di modo che, «anche se la misura è considerata dal diritto interno comune come una misura amministrativa preventiva non appartenente alla materia penale, è giocoforza constatare il suo carattere punitivo e dissuasivo» (Corte EDU, sentenza 5 ottobre 2017, Varadinov contro Bulgaria; Id., sentenza 23 settembre 1998, Malige contro Francia; Id., sentenza 6 ottobre 2011, Wagner contro Lussemburgo).

 

La giurisprudenza di legittimità in materia

Anche la Corte di Cassazione si era ripetutamente sul problema dello stabilire se la revoca della patente – di là dalla qualificazione nominalistica di «sanzione amministrativa accessoria» – possa essere fatta rientrare, o no, nel novero degli « effetti penali » della condanna, di cui la norma censurata impone la cessazione al metro dei “criteri europei”.

A tal fine, la Corte di cassazione ha ritenuto utilizzabili i noti parametri Engel, tratti dalla sedimentata giurisprudenza di Strasburgo, per cui «la sanzione può essere definita penale – al di là del nomen attribuito dal legislatore interno – in rapporto all’analisi concreta delle finalità perseguite e del grado di afflittività, nel senso che lì dove risulti prevalente la finalità punitiva (rispetto a quella preventiva) o lì dove risulti particolarmente elevato il grado di afflittività, la misura in questione va attratta nel cono delle garanzie penalistiche» (cosi Cassazione, sezione I penale, n. 1804/2020; Id., n. 17834/2020; Id., n. 17508/2020; Id., n. 17506/2020; Id., n. 13451/2020; sezione feriale penale, n. 24023/2020).

Senonché, con specifico riguardo alla revoca della patente, la Corte di cassazione ha poi risposto in senso negativo alla domanda che essa stessa si era posta: contrariamente agli odierni esiti di incostituzionalità ha negato, cioè, che la revoca della patente, avendo finalità preventiva (e non già repressiva), possa ritenersi sanzione di natura sostanzialmente penale sulla base dei criteri europei, traendo da ciò la conseguenza che il giudice dell’esecuzione non sarebbe abilitato a sostituirla con la sospensione a modifica del giudicato (Id., n. 1804/2020).

Rinnegando queste premesse interpretative del giudice di legittimità, la Consulta è invece dell’avviso che non sia possibile, in realtà, negare che la revoca della patente, disposta dal giudice penale con la sentenza di condanna o di patteggiamento della pena per i reati di cui agli articoli 589-bis e 590-bis del Cp, abbia connotazioni sostanzialmente punitive «sia pur non disgiunte da finalità di tutela degli interessi coinvolti dalla circolazione dei veicoli a motore, secondo uno schema tipico delle misure sanzionatorie consistenti nell’interdizione di una determinata attività».

 

Lo statuto costituzionale delle sanzioni amministrative convenzionalmente penali

La decisione odierna – condivisibile in quanto adesiva ai dicta della CEDU – si inscrive in quel recente indirizzo giurisprudenziale che estende alle sanzioni amministrative a carattere punitivo – in quanto tali (indipendentemente, cioè, dalla caratura dei beni incisi) – larga parte dello “statuto costituzionale” sostanziale delle sanzioni penali:

- sia quello basato ex articolo 25, comma 2, della Costituzione sull’irretroattività della norma sfavorevole (Corte costituzionale n. 96/2020, n. 112/2019, n. 223/2018, n. 121/2018 e n. 68/2017), determinatezza dell’illecito e delle sanzioni (sentenze n. 134 del 2019 e n. 121 del 2018);

- sia quello basato sull’articolo 3 della Costituzione, sub specie della retroattività della lex mitior (Corte Costituzionale n. 63/2019) e proporzionalità della sanzione alla gravità del fatto (Corte Costituzionale n. 112/2019).

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