Casi pratici

Risarcibilità del danno non patrimoniale subito da persone giuridiche

Risarcibilità del danno non patrimoniale subito da persone giuridiche

di Tiziana Cantarella

la QUESTIONE
È risarcibile il danno non patrimoniale subito da una persona giuridica? Quali sono, in particolare, le fattispecie di danno ipotizzabili? Qual è l'onere probatorio gravante sul danneggiato e quali i criteri di quantificazione? È ammissibile la cosiddetta "parcellizzazione" del credito unitario e, dunque, l'autonoma azione giudiziaria per la liquidazione del solo danno non patrimoniale?


Ormai da tempo, la Suprema Corte ha ammesso che possa configurarsi un danno non patrimoniale in capo alle persone giuridiche e, più in generale, agli enti collettivi ancorché privi di personalità giuridica.
Si è giunti a tale riconoscimento sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2 della Costituzione che, com'è noto, «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità», e da tale assunto si è affermata la legittimazione per gli enti, dotati o meno di personalità giuridica, di agire in giudizio per ottenere tutela risarcitoria (v. Cassazione civile, sez. I, 10 maggio 2017, 11446).
Naturalmente, nel caso della persona giuridica o ente non si fa riferimento al danno biologico, che attiene alla sfera della persona umana.
Si tratta, quindi, della lesione di situazioni giuridiche equivalenti ai diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti, quali a esempio il diritto al nome, all'identità personale, all'onore e alla reputazione.

Fattispecie di danno
Danno all'immagine

Tra le fattispecie di danno non patrimoniale risarcibile in favore di persone giuridiche va riconosciuta notevole importanza alla figura del danno all'immagine, che può derivare alla società o all'ente sia da condotte penalmente rilevanti, come nel caso di atti diffamatori, sia da illeciti civili e, secondo un'interpretazione ormai pacifica, anche da inadempimenti contrattuali.
Nel concetto di danno all'immagine si fa comunemente rientrare la lesione di una pluralità di diritti, per loro natura legati alla personalità umana (diritto al nome, alla reputazione, all'identità, ecc.), che, tuttavia, grazie all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, sono stati riconosciuti anche in capo alle persone giuridiche.
Nelle sentenze della Suprema Corte viene costantemente ribadito quanto storicamente affermato nella decisione n. 12929/2007, ovvero che: «Anche nei confronti della persona giuridica e in genere dell'ente collettivo è configurabile la risarcibilità del danno non patrimoniale allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica ... che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra l'immagine della persona giuridica o dell'ente; allorquando si verifichi la lesione di tale immagine, è risarcibile, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente che esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell'incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell'agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell'ente e, quindi, nell'agire dell'ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca».
Anche per le persone giuridiche, dunque, vengono distinti i due profili, "personale" – laddove si faccia riferimento alla reputazione degli organi che agiscono in rappresentanza e nell'interesse della persona giuridica, e quello "commerciale" – laddove invece si faccia riferimento alla reputazione della società o ente rispetto alla sua sfera di azione.
Sul tema, si registrano numerose sentenze di condanna al risarcimento del danno alla reputazione commerciale nei confronti di Istituti bancari per illegittima segnalazione di società commerciali alla Centrale dei Rischi presso la Banca d'Italia.
Al riguardo la Suprema Corte ha, precisato che: «la segnalazione di una posizione in sofferenza non può scaturire dal mero ritardo nel pagamento del debito o dal volontario inadempimento, ma deve essere determinata dal riscontro di una situazione patrimoniale deficitaria, caratterizzata da una grave e non transitoria difficoltà economica equiparabile, anche se non coincidente, con la condizione d'insolvenza (Cass. 1° aprile 2009, n. 7958 richiamata in Cass. civ., Sez. I, 9 luglio 2014, n. 15609)». In difetto dei superiori presupposti, la Banca che ha effettuato una segnalazione "affrettata" può essere chiamata a risarcire non solo eventuali danni patrimoniali ma anche il danno non patrimoniale, consistenti consistentie nel discredito che deriva dalla segnalazione illegittima.

Danno all'immagine della P.A.
Nell'elaborazione giurisprudenziale sull'argomento, una fattispecie particolare è costituita dal danno all'immagine della pubblica amministrazione, che – purtroppo sempre con maggiore frequenza - scaturisce dalla condotta illecita perpetrata dai dipendenti.
Tali condotte determinano la perdita di credibilità e fiducia da parte dei cittadini, portati a ritenere che simili comportamenti rappresentino il modo in cui ordinariamente agisce l'Ente nel suo complesso.
Già nel lontano 1991, la Cassazione, con sentenza n. 7642, aveva avuto modo di puntualizzare che «... va esclusa l'equazione tra danno non patrimoniale e danno morale, perché il danno non patrimoniale comprende qualsiasi conseguenza pregiudizievole di un illecito che, non prestandosi a una valutazione monetaria basata su criteri di mercato, non possa essere oggetto di risarcimento, sebbene di riparazione, di guisa che, comprendendo il danno non patrimoniale anche gli effetti lesivi che prescindono dalla personalità psicologica del danneggiato, esso è riferibile anche a entità giuridiche prive di fisicità. Pertanto nel caso di accertata responsabilità penale di un amministratore o di un dipendente pubblico è configurabile, e quindi risarcibile da parte dello stesso amministratore o dipendente pubblico, anche il danno morale, o danno all'immagine che la pubblica amministrazione subisce in ragione dei riflessi negativi e del discredito che la diffusione delle notizie derivanti dal procedimento penale e dalla pubblicizzazione da parte degli organi di informazione provoca al prestigio e alla personalità pubblica dell'ente».
Con la normativa di cui al cd. lodo Bernardo il legislatore ha limitato l'esercizio dell'azione di responsabilità erariale per il danno all'immagine, stabilendo che «Le procure della Corte dei Conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97 … Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma … è nullo e la relativa nullità può essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei Conti … » (art. 17, comma 30 ter, D.L. 1° luglio 2009, n. 78, convertito in legge 3 agosto 2009, n. 102 e ss.mm.).
L'interpretazione della portata del citato art. 17, comma 30 ter, tuttavia, è stata a dir poco controversa.
La Corte Costituzionale, con sentenza n. 355 del 2010, ha puntualizzato che il predetto articolo debba essere interpretato nel senso che, al di fuori delle ipotesi dei delitti previsti dal Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale, l'azione risarcitoria per il danno all'immagine dell'amministrazione non possa essere proposta innanzi a un organo giurisdizionale diverso dalla Corte dei Conti, adita in sede di giudizio di responsabilità amministrativa e che, quindi, debba ritenersi che il legislatore non ha inteso prevedere una limitazione della giurisdizione contabile a favore della giurisdizione ordinaria, bensì circoscrivere oggettivamente i casi in cui è possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa.
Nonostante tale procuncia, la sopravvenienza di nuove disposizioni in materia di danno all'immagine, quali l'art. 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001, introdotto nel 2009 per contrastare i casi di assenteismo, (peraltro recentissimamente riformato nel 2016 con il decreto Madia contro i cd. "furbetti del cartellino"), ha fatto sì che siano stati sollevati dubbi circa un'eventuale implicita abrogazione dell'art. 17, comma 30 ter, e ha condotto a una varietà di pronunce contrastanti, al punto da rendere necessario l'intervento delle Sezioni riunite della Corte dei Conti.
Con sentenza n. 8 del 19 marzo 2015, le citate Sezioni riunite, in sede giurisdizionale, hanno fatto chiarezza in ordine alla sfera di intervento della giurisdizione contabile, circoscrivendo l'azione risarcitoria a impulso della procura contabile ai reati cd. propri, quali peculato, corruzione, concussione, abuso d'ufficio e altri di cui al Capo I del Titolo II del Libro II del codice penale; delitti caratterizzati dalla peculiare qualifica dell'autore.
Secondo le Sezioni riunite, la scelta del legislatore è finalizzata a «circoscrivere i reati da cui può derivare il vulnus all'immagine della p.a. in relazione alla percezione esterna che si ha del modello di azione pubblica ispirato ai principi e ai canoni che trovano la loro tutela ultima nell'art. 97 della Costituzione, con la conseguenza che, fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa in rassegna appare arbitraria».
La superiore interpretazione non sembra avere subito modifiche a seguito dell'entrata in vigore della riforma Madia, che ha solo inasprito e accelerato le procedure e fornito criteri per la quantificazione del danno all'immagine.
All'art. 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001, infatti, era stato aggiunto, tra gli altri, il comma 3 quater, a mente del quale «Nei casi di cui al comma 3 bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei Conti avvengono entro quindici giorni dall'avvio del procedimento disciplinare.
La procura della Corte dei Conti, quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno all'immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento.
L'azione di responsabilità è esercitata, con le modalità e nei termini di cui all'art. 5 del D.L. 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19, entro i centoventi giorni successivi alla denuncia, senza possibilità di proroga.
L'ammontare del danno risarcibile è rimesso alla valutazione equitativa del giudice anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione e comunque l'eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell'ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Tale disposizione è stata, tuttavia, di recedente modificata dall'art. 2 del d. lgs. 20 luglio 2017, n. 118, il quale, precisamente, ha previsto un più ampio termine pari a "venti giorni" e abrogato le restanti e successive disposizioni normative.
L'art. 55 quater del D.Lgs. n. 165/2001, pertanto, si limita oggi a prevedere unicamente che «Nei casi di cui al comma 3 bis, la denuncia al pubblico ministero e la segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei Conti avvengono entro venti giorni dall'avvio del procedimento disciplinare».

Diritto alla ragionevole durata del processo
Altro danno non patrimoniale ipotizzabile nei confronti delle persone giuridiche è quello relativo alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.
Com'è noto, l'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali statuisce che «Ogni persona ha diritto a un'equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta... ».
Per dare attuazione al citato dettato normativo, la legge 24 marzo 2001, n. 89, nota come legge Pinto, ha regolamentato il procedimento per l'equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo; procedimento azionabile tanto da una persona fisica quanto da una persona giuridica.
Sul punto, la Suprema Corte così si è espressa: «La persona giuridica, se non può per sua natura subire dolori o turbamenti, è portatrice dei diritti della personalità compatibili con l'assenza di fisicità, e quindi del diritto all'esistenza, all'identità, al nome, all'immagine e alla reputazione; pertanto, è configurabile in capo alla stessa un danno non patrimoniale per l'irragionevole durata del processo indennizzabile ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89» (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. I, 2 agosto 2002, n. 11573).
Non va però sottaciuto che, sebbene oggi non vi siano dubbi in astratto circa la risarcibilità (rectius indennizzabilità) del danno da irragionevole durata del processo anche in capo alle persone giuridiche, la Cassazione ne ha sempre escluso l'automatismo.
Già nella citata sentenza del 2002, rilevava che «l'irragionevole durata del processo può produrre un danno non patrimoniale alla persona giuridica a condizione che il tema del dibattito coinvolga, direttamente o indirettamente, gli indicati diritti della personalità, pregiudicandoli per effetto del perdurare della situazione d'incertezza connessa alla pendenza della causa. Ciò comporta, rispetto alle controversie con oggetto esclusivamente economico, che il danno non patrimoniale per irragionevole durata del processo, mentre è configurabile rispetto alla persona fisica anche sulla base della mera tensione o preoccupazione che comunque detta durata sia in grado di provocare, può essere ravvisato per la persona giuridica solo se risulti un effettivo rifluire del fattore tempo a scapito dei menzionati diritti della personalità di cui anch'essa è portatrice».
In pronunce successive, la Suprema Corte, pur consapevole dell'orientamento della Corte di Strasburgo che tende a presumere il danno una volta accertata l'eccessiva durata del processo ha precisato che «in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo ai sensi dell'art. 2 della l. n. 89 del 2001, anche per le persone giuridiche il danno non patrimoniale, inteso come danno morale soggettivo correlato a turbamenti di carattere psicologico, è conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle persone preposte alla gestione dell'ente o ai suoi membri; ne consegue che una volta accertata e determinata l'entità della stessa, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente» (Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 12 marzo 2016, n. 7034).

Trattamento dei dati personali
Altra fattispecie configurabile astrattamente anche nei confronti di persone giuridiche, ma di limitato riscontro pratico è quella del danno per illecito trattamento dei dati personali.
In vero, a tale fattispecie non risulta ad oggi applicabile la nuova disciplina sulla privacy, introdotta dal GDPR 2016/679 e recepita integralmente nel nostro ordinamento giuridico dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101.
Più precisamente, in passato, il garante per la protezione dei dati personali con provvedimento n. 262/2012, aveva chiarito che le disposizioni del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, contenente il «Codice in materia di protezione dei dati personali», nonostante le modifiche apportate con D.L. n. 201/2011, trovavano applicazione anche con riferimento alle persone giuridiche.
La giurisprudenza sul punto si era, tuttavia, mostrata rigorosa e ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale causato per violazione del diritto alla riservatezza solo qualora tale diritto venga inciso in maniera rilevante, cagionando un pregiudizio serio, che peraltro va debitamente allegato e, seppur per presunzioni, provato.
Come, tuttavia, sopra accennato, il d. lgs. n. 196/2003 è stato di recente sostituito a seguito dell'entrata in vigore del d. lgs. n. 101/2018, che ha recepito la nuova normativa in materia di privacy introdotta dal regolamento europeo n. 679 del 2016.
Il regolamento europeo, in particolare, nel dettare le norme relative alla protezione dei dati personali, fa espresso riferimento unicamente alle «…persone fisiche…» (art. 1); e ciò, sia nella nozione di "interessato al trattamento dei dati", indentificato per l'appunto, nella persona fisica cui si riferiscono i dati personali oggetto di trattamento, sia in quella di "dato personale", definito come «…qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile…».
Con la conseguenza, quindi, che, dalla tutela dei dati personali, sono escluse le persone giuridiche, nonché gli enti e le associazioni. Né è stato diversamente stabilito dal d. lgs. n. 101/2018, che si è limitato unicamente ad adeguare la normativa nazionale alle disposizioni del GDPR, senza prevedere null'altro.
In tal senso, peraltro, si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa, secondo la quale «…Il G.D.P.R. - "General Data Protection Regulation" - il quale è entrato in vigore il 24 maggio 2016 ed è diventato direttamente applicabile e vincolante in tutti gli Stati membri a partire dal 25 maggio 2018 - non disciplina in alcun modo il trattamento dei dati che riguardano la persona giuridica (salvo con poche eccezioni), atteso che dalla definizione di "dato personale" e di "interessato" di cui agli artt. 1 e 4 rimane escluso qualsiasi riferimento a persone giuridiche, enti o associazioni…» (T.A.R. Sicilia, 1 ottobre 2018, n. 2020).
Di regola, pertanto, nel caso in cui una persona giuridica subisca danni a seguito di un illecito trattamento di dati, non possono applicarsi le disposizioni normative contenute nel GDPR. Tuttavia, sembrano potersi ravvisare talune ipotesi eccezionali, in presenza delle quali sembra potersi riconoscere alle persone giuridiche la possibilità di applicare le disposizioni del regolamento europeo. Si fa, in particolare, riferimento al caso in cui il nome della persona giuridica si identifichi con il nome di una persona fisica ovvero quest'ultimo è nel primo compreso. ovvero al caso in cui i dati – oggetto del trattamento illecito – riguardino una persona fisica.
Si comprende, quindi, perché la casistica sul punto sia estremamente ridotta, dovendosi ritenere, le persone giuridiche, oggi escluse dalla normativa sulla privacy.
Onere della prova e criteri di quantificazione
Com'è noto, la prova del danno non patrimoniale è in tutti i settori particolarmente difficile, stante l'immaterialità del bene oggetto di risarcimento. Ancor più arduo, quindi, appare tale onere rispetto alle persone giuridiche e agli enti in generale, e ciò a causa della loro natura di entità sovraindividuali.
La giurisprudenza ha ormai pressoché abbandonato il paradigma del danno in re ipsa, puntualizzando sempre più spesso la necessità di allegazione di circostanze specifiche idonee a supportare la richiesta risarcitoria, anche se, in questo ambito, è inevitabile ammettere il ricorso allo strumento delle presunzioni e alle massime di esperienza (Cassazione civile, sez. I, 10 maggio 2017, n. 11446).
Alla questione dell'onere probatorio si lega quella relativa all'individuazione dei criteri per la quantificazione del danno non patrimoniale subito dalle persone giuridiche.
Sul punto, dall'analisi dei precedenti giurisprudenziali emerge un solo dato certo, ovvero il ricorso alla liquidazione in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c.
Tuttavia, a fronte di una molteplicità di fattispecie, non si possono individuare parametri univoci.
In tale contesto, limitando la trattazione a una delle fattispecie più diffuse, vale a dire la lesione dell'immagine a seguito di condotte diffamatorie, si possono segnalare i seguenti indici presi in considerazione dai giudici e, precisamente: la gravità del fatto lesivo, la diffusione del mezzo utilizzato, la notorietà della persona offesa ma anche il comportamento post actum dell'autore della condotta.

Divieto di "parcellizzazione" del credito unitario
In tema di azione risarcitoria, si sono registrati casi in cui, a fronte di un unico fatto asseritamente produttivo di danni patrimoniali e non patrimoniali, il danneggiato abbia promosso distinte azioni giudiziarie, chiedendo, di fatto, l'adempimento frazionato di una prestazione originariamente unica.
La giurisprudenza si è, quindi, interrogata circa l'ammissibilità della "parcellizzazione" del credito risarcitorio in sede giudiziaria, posto che il codice civile disciplina l'adempimento parziale dal lato passivo mentre non regola il caso opposto, in cui sia il creditore a esigere un adempimento frazionato.
Sul tema si è pronunciata la Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 23726/2007, giungendo alla condivisibile tesi secondo cui la parcellizzazione del credito unitario deve ritenersi vietata.
A sostegno di questa soluzione la Suprema Corte ha richiamato i principi di correttezza e buona fede e del "giusto processo", che impongono di non abusare della potestas agendi attraverso un uso distorto ed eccessivo del processo, cui inevitabilmente consegue l'aggravamento della posizione del debitore oltre che il fallimento dell'obiettivo della ragionevole durata del giudizio.
In linea con il superiore orientamento, la Cassazione, con sentenza n. 28286/2011, ha avuto modo di precisare che «In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, non è consentito al danneggiato, in presenza di un danno derivante da un unico fatto illecito, già verificatosi nella sua completezza, di frazionare la tutela giurisdizionale mediante la proposizione di distinte domande ... e ciò neppure mediante riserva di far valere ulteriori e diverse voci di danno in altro procedimento, in quanto tale disarticolazione dell'unitario rapporto sostanziale nascente dallo stesso fatto illecito, oltre a essere lesiva del generale dovere di correttezza e buona fede, per l'aggravamento della posizione del danneggiante-debitore, si risolve anche in un abuso dello strumento processuale» (nello stesso senso v. Cassazione civile, sez. VI, ordinanza 2 maggio 2022, n. 13732; Cassazione civile, sez. III, 6 maggio 2020, n. 8530).
Se, però, la giurisprudenza è uniforme nel condannare la condotta processuale di chi agisce in maniera frazionata a tutela di un proprio credito unitario, non vi è la stessa uniformità in merito a quali conseguenze ricollegare a una simile condotta.
Sul punto, talvolta la Suprema Corte ha sostenuto la tesi dell'inammissibilità o improponibilità della domanda frazionata, secondo la teoria della cd. "minima unità strutturale" che implica una decisione sulla situazione sostanziale nella sua interezza.
In altre pronunce, la Cassazione ha mitigato le conseguenze sanzionatorie del comportamento contrario a buona fede e, pertanto, pur qualificandolo in termini di abuso del processo, ha affermato l'illegittimità non dello strumento adottato bensì della modalità della sua utilizzazione, puntualizzando che «il rimedio agli effetti distorsivi del fenomeno della fittizia proliferazione delle cause autonomamente introdotte deve individuarsi – in applicazione di istituti processuali ordinari – vuoi nella riunione dei medesimi, vuoi sul piano della liquidazione delle spese di lite da riguardarsi come se il procedimento fosse stato unito fin dall'origine» (Cassazione civile, 19 marzo 2015, n. 2015).

Considerazioni conclusive
Alla luce di quanto sin qui evidenziato e della casistica riportata, è emerso come nella giurisprudenza più recente non si siano registrati ripensamenti riguardo alla tutela risarcitoria da riconoscere alle persone giuridiche, che, ferme restando le inevitabili esclusioni legate all'assenza di fisicità, a parità di situazioni, vengono equiparate alle persone fisiche e considerate titolari di diritti inviolabili meritevoli di ristoro.

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Avv. Mario Benedetti - Partner BLB Studio Legale e Dott.ssa Claudia Genuardi - Associate BLB Studio Legale 

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