Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 6 e il 10 febbraio 2023

di Giuseppe Cassano

Le Corti d'Appello, nel corso di questa settimana, si pronunciano in materia di esclusione del socio nelle società di persone, di obbligazioni pecuniarie, di sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario, di vincoli conformativi gravanti sulla proprietà privata e, infine, di atti di concorrenza sleale.
Da parte loro i Tribunali trattano l'ammortamento nel mutuo, le differenze tra vendita e appalto, le azioni edilizie nella compravendita, il risarcimento danni da perdita di chance e, infine, gli effetti del giudicato sulle prescrizioni brevi.


SOCIETÀ
Società di persone – Doveri sociali – Violazione – Esclusione del socio
(Cc, articoli 1453, 2286, 2287)
Osserva in sentenza l'adita Corte d'Appello di Firenze come quello dell'esclusione sia un istituto tipico delle società di persone e, in genere, di tutte le strutture associative in cui prevale l'elemento personale.
E così, se l'ente si basa sulla collaborazione di più persone queste devono avere la possibilità di escludere coloro che non possono più collaborare secondo gli interessi del gruppo e non già dei singoli soci.
Tale ratio legis trova codificazione e piena espressione nella previsione normativa dell'articolo 2286 c.c.. che calibra l'inadempimento del socio solo rispetto agli obblighi che discendono dalla legge o dal contratto associativo, tanto da non poter assumere autonoma rilevanza ai fini dell'esclusione i dissidi interni tra i soci medesimi.
Solo la violazione dei doveri sociali posti nell'interesse della società assume rilevanza per l'attivazione del potere di esclusione da parte del gruppo.
Con la precisazione che l'ipotesi di esclusione dalla società prevista dal II comma dell'articolo 2286 c.c., per la sopravvenuta inidoneità del socio che ha conferito la propria opera a svolgerla, presuppone la presenza di cause oggettive che precludano in via definitiva la prestazione dell'opera personale del socio e prescinde dalla colposità dell'inadempimento, che invece caratterizza l'ipotesi di esclusione (per gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge o dal contratto sociale) prevista dal comma precedente. Pertanto, al socio che per sua colpa abbia solo temporaneamente omesso la prestazione della propria opera personale nella società, cui sia obbligato in base alle norme statutarie, è applicabile la disposizione del comma primo, e non quella del comma secondo, con la conseguenza che egli può essere escluso dalla società qualora il suo inadempimento, pur sfornito del carattere della definitività, risulti grave.
Peraltro, nelle società di persone le norme sull'esclusione del socio "per gravi inadempienze", di cui agli articoli 2286 e 2287 c.c., hanno carattere speciale e sostitutivo del rimedio della risoluzione per inadempimento prevista dagli articoli 1453 ss. c.c.., inapplicabile al contratto di società per essere quest'ultimo caratterizzato non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo.
Corte di Appello di Firenze, sezione II, sentenza 6 febbraio 2023 n. 261

OBBLIGAZIONI
Obbligazioni pecuniarie - Pregiudizio da svalutazione monetaria – Ristoro
(Cc, articolo 1224)
Nelle obbligazioni pecuniarie, come precisa in sentenza la Corte d'Appello di Napoli, il fenomeno inflattivo non consente un automatico adeguamento dell'ammontare del debito, né costituisce di per sé un danno risarcibile, ma può implicare - in applicazione dell'articolo 1224, II, c.c. - soltanto il riconoscimento in favore del creditore, oltre che degli interessi, del maggior danno che sia derivato dall'impossibilità di disporre della somma durante il periodo della mora, nei limiti in cui - tuttavia - il creditore medesimo deduca e dimostri che un pagamento tempestivo lo avrebbe messo in grado di evitare o ridurre quegli effetti economici depauperativi che l'inflazione produce a carico di tutti i possessori di denaro.
E così il creditore di una obbligazione di valuta, il quale intenda ottenere il ristoro del pregiudizio da svalutazione monetaria, ha l'onere di domandare il risarcimento del "maggior danno" ai sensi dell'articolo 1224, II, c.c. e non può limitarsi a domandare semplicemente la condanna del debitore al pagamento del capitale e della rivalutazione, non essendo quest'ultima una conseguenza automatica del ritardato adempimento delle obbligazioni di valuta.
Con la precisazione che, nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui citata disposizione codicistica può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali, fermo restando l'onere del creditore - che domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato - di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva.
E così l'originaria prestazione pecuniaria del pagamento del corrispettivo ha evidentemente natura di debito di valuta e, come tale, non è soggetto a rivalutazione monetaria, se non nei termini del maggior danno – sempre, da allegarsi e provarsi da parte del creditore - rispetto a quello soddisfatto dagli interessi legali, ai sensi dell'articolo 1224 c.c..
Corte di Appello di Napoli, sezione VII, sentenza 6 febbraio 2023 n. 486

MATRIMONIO
Matrimonio concordatario - Sentenza del Giudice Ecclesiastico – Delibazione

(Cost., articoli 2, 3, 29, 30, 31; Cedu, articolo. 8; Carta dir. fond. U.E., articolo 7)
La Corte d'Appello di Bari sottolinea in sentenza come la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio concordatario, in tema di invalidità del matrimonio per errore essenziale su una qualità personale del consorte del quale si ignorano malattie (fisiche o psichiche) impeditive della vita coniugale, non trova impedimento nella diversità della disciplina dell'ordinamento canonico rispetto alle disposizioni del codice civile, poiché tale diversità individuata quale limite di ordine pubblico (e cioè quale complesso di regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l'ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all'evoluzione della società) non investe un principio essenziale dell'ordinamento italiano.
In particolare, la convivenza "come coniugi" deve intendersi – secondo la Costituzione (articoli 2, 3, 29, 30 e 31), l'articolo 8, paragrafo l, CEDU, l'articolo 7 Carta dei diritti fondamentali dell'UE e il codice civile – quale elemento essenziale del matrimonio-rapporto, che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza di figli, di aspettative legittime e di legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari.
In tal modo intesa, la convivenza "come coniugi", protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, connotando nell'essenziale l'istituto del matrimonio nell'ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di "ordine pubblico italiano" e, pertanto è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali Ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal Giudice Ecclesiastico nell'ordine canonico.
Corte di Appello di Bari, sezione I, sentenza 7 febbraio 2023 n. 163

EDILIZIA E URBANISTICA
Proprietà privata – Strumento urbanistico – Vincolo conformativo - Vincolo espropriativo

La Corte d'Appello di Milano osserva come la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dallo strumento urbanistico ad aree di proprietà privata, non implica l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione effettuata dallo strumento urbanistico.
In particolare, i vincoli di destinazione per attrezzature e servizi, fra i quali rientra ad esempio il verde pubblico attrezzato, realizzabili anche ad iniziativa privata o promiscua in regime di economia di mercato, hanno carattere particolare, e sfuggono allo schema ablatorio e alle connesse garanzie costituzionali in termini di alternatività tra indennizzo e durata predefinita, non costituendo vincoli espropriativi, bensì soltanto conformativi, funzionali all'interesse pubblico generale.
La distinzione tra vincoli conformativi ed espropriativi cui possono essere assoggettati i suoli non dipende dal fatto che siano imposti mediante una determinata categoria di strumenti urbanistici, piuttosto che di un'altra, ma deve essere operata in relazione alla finalità perseguita in concreto dell'atto di pianificazione: ove mediante lo stesso si provveda ad una zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche, il vincolo ha carattere conformativo, mentre, ove si imponga solo un vincolo particolare, incidente su beni determinati, in funzione della localizzazione di un'opera pubblica, lo stesso deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione e da esso deve, pertanto, prescindersi nella qualificazione dell'area, e ciò in quanto la realizzazione dell'opera è consentita soltanto su suoli cui lo strumento urbanistico ha impresso la correlativa specifica destinazione, cosicché, ove l'area su cui l'opera sia stata in tal modo localizzata abbia destinazione diversa o agricola, se ne impone sempre la preventiva modifica.
Corte di Appello di Milano, sezione I, sentenza 7 febbraio 2023 n. 424

IMPRESE
Atti di concorrenza sleale - Sviamento di clientela – Configurabilità
(Cc, articolo 2598)
Secondo la Corte d'Appello di Venezia, in tema di atti di concorrenza sleale, l'articolo 2598 n. 3 c.c., costituisce una disposizione aperta che spetta al Giudice riempire di contenuti, avuto riguardo alla naturale atipicità del mercato ed alla rottura della regola della correttezza commerciale, sì che in tale previsione rientrano tutte quelle condotte che, coerentemente con la suddetta ratio, ancorché non tipizzate, abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato dell'impresa concorrente.
Con particolare riguardo allo sviamento di clientela, che venga posto in essere utilizzando notizie sui rapporti con i clienti di altro imprenditore, acquisite nel corso di pregressa attività lavorativa svolta alle sue dipendenze, la configurabilità della concorrenza sleale, ai sensi richiamata disposizione codicistica, deve essere riconosciuta ove quelle notizie, ancorché normalmente accessibili ai dipendenti, siano per loro natura riservate, in quanto non destinate ad essere divulgate al di fuori dell'azienda.
Consiste quindi nello sfruttare informazioni riservate, contatti e rapporti creati durante l'appartenenza alla compagine societaria da parte di un ex dipendente per accaparrarsi i clienti del suo ex datore di lavoro, con evidenti danni procurato a quest'ultimo.
E così l'illecito sviamento di clientela è concetto estremamente vago e non tipizzato, dovendosi precisare che il tentativo di sviare la clientela di per sé rientra nel gioco della concorrenza, sicché per ritenere illecito lo sviamento occorre che esso sia provocato, direttamente o indirettamente, con un mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale (intesa come il complesso di regole desunte dalla coscienza collettiva imprenditoriale di una certa epoca, socialmente condivise dalla categoria).
È evidente, quindi, come non sia sufficiente il tentativo di accaparrarsi la clientela del concorrente sul mercato nelle sue componenti oggettive e soggettive, ma è imprescindibile il ricorso a un mezzo illecito secondo lo statuto deontologico degli imprenditori.
Corte di Appello di Venezia, Sez. Spec. Impr., sentenza 7 febbraio 2023 n. 290

BANCHE
Contratto di mutuo – Piano di ammortamento – Ammortamento alla francese
(c.c., articoli 1194, 1283)
Osserva il Tribunale di Napoli che, ove previsto nel contratto di mutuo, il piano di ammortamento "alla francese" è caratterizzato dalla predisposizione di un piano di pagamento a rata costante, all'interno delle quali la quota di capitale e la quota di interessi non sono identiche: gli interessi da corrispondersi sono maggiori nelle prime rate e diminuiscono progressivamente.
Nel mutuo cosiddetto "all'italiana", invece, il pagamento di ogni rata abbatte il capitale in misura uguale e mantenendosi il capitale costante, la rata è per forza di cose crescente con il passare del tempo.
E cioè a dire, nel metodo francese, poiché vengono pagati prima soprattutto gli interessi allora la quota capitale si mantiene alta nel primo periodo di tempo (viene abbattuta lentamente, in quanto inizialmente si abbattono soprattutto gli interessi), il che non può che aver per conseguenza che gli interessi che si calcolano sulla residua quota di capitale alta siano complessivamente maggiori rispetto al mutuo all'italiana.
Ma questo è il prezzo da pagare se si vuole avere una rata costante ed unica nel tempo.
Se il piano di ammortamento alla francese può ritenersi più costoso rispetto al metodo italiano, comunque ciò non può ritenersi di per sé indice della sua illiceità, essendo vantaggioso sotto un altro profilo per il debitore, nel senso che consente di avere rate (ad interessi costanti) uguali e dunque di gestire meglio i flussi di cassa.
Questo meccanismo, peraltro, non implica la produzione di interessi ulteriori sugli interessi già scaduti: il piano di ammortamento non presenta profili di illiceità perché stabilito con il consenso dei contraenti nel rispetto dell'articolo 1194 c.c. che, disciplinando l'imputazione dei pagamenti tra capitale e interessi, consente questa opzione, a condizione che vi sia appunto il consenso delle parti. La concorde volontà dei contraenti consente di avere già chiaro dall'inizio del rapporto il suo sviluppo concreto e, se da un lato consente alla banca di conseguire una più rapida restituzione degli interessi, dall'altro non presenta profili di illiceità.
Né il piano di ammortamento alla francese comporta una violazione dell'articolo 1283 c.c., poiché gli interessi di periodo vengono calcolati sul solo capitale residuo e, alla scadenza della rata, gli interessi maturati non vengono capitalizzati, ma sono pagati come quota interessi della rata di rimborso.
Tribunale di Napoli, sezione II, sentenza 7 febbraio 2023 n. 1376

APPALTI
Contratto di appalto - Contratto di compravendita - Differenze
(Cc, articolo 1655)
È controversa, innanzi all'adito Tribunale di Pisa, la natura giuridica dell'accordo concluso tra le parti: secondo l'attore una compravendita, per il convenuto un appalto.
L'interpretazione di un atto negoziale, come noto, è un accertamento in fatto riservato al Giudice di merito e deve essere volta a far sì che il contratto, o le singole clausole, possano avere qualche effetto, anzichè non averne alcuno.
A tal fine, in mancanza di una norma di legge che stabilisca in che modo deve essere identificato o reso identificabile l'oggetto del contratto, ogni mezzo può essere utilizzato dal Giudice, non essendo escluso che l'identificazione possa avvenire mediante elementi acquisiti aliunde, con riferimento ad altri atti e documenti collegati a quello oggetto di valutazione, ovvero con i criteri che il contratto stesso e la pratica delle cose possono suggerire.
Orbene, precisa il Tribunale toscano come la distinzione tra appalto e compravendita vada operata facendo riferimento alla volontà delle parti e alla prevalenza, o meno, del lavoro sulla materia, ovvero alla prevalenza, o meno, della prestazione di fare su quella di dare.
Laddove, in particolare, il contratto affianchi la prestazione di dare a quella di fare, può configurarsi una compravendita quando le attività necessarie a produrre il bene costituiscano solo l'ordinario ciclo produttivo ma sia la consegna del bene stesso l'effettiva obbligazione del produttore-venditore, con ciò sostanziandosi la prevalenza dell'obbligazione di dare.
Al contrario, si è presenza di un contratto di appalto laddove l'oggetto effettivo e prevalente dell'obbligazione assunta da uno dei contraenti sia la realizzazione d'un opus unicum, che soddisfi le esigenze del committente e rispetti le sue indicazioni: la fornitura della materia è un semplice elemento concorrente nel complesso della realizzazione dell'opera e di tutte le attività a tal fine intese, con ciò, appunto, realizzandosi la prevalenza dell'obbligazione di fare.
Sono quindi ravvisabili tutti gli elementi richiesti dall'articolo 1655 c.c. ai fini della configurazione del contratto di appalto quando una parte (appaltatore) abbia assunto un'obbligazione di risultato, con organizzazione dei propri mezzi, al fine di realizzare un'opera a fronte di un corrispettivo da parte del committente.
Tribunale di Pisa, sentenza 7 febbraio 2023 n. 200

COMPRAVENDITA
Compravendita - Actio redhibitoria - Actio quanti minoris

Puntualizza in sentenza il Tribunale di Torino come, in tema di compravendita, la scelta tra actio redhibitoria ed actio quanti minoris non è neutra ai fini della quantificazione del danno subito.
L'azione redibitoria ha natura risolutoria, al cui accoglimento consegue lo scioglimento del negozio con efficacia ex tunc e l'obbligo in capo al venditore di restituire al compratore il prezzo e di rimborsargli le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita e il corrispondente obbligo in capo al compratore di restituire il bene.
L'azione estimatoria non comporta lo scioglimento del rapporto contrattuale e i conseguenti effetti restitutori, ma soltanto una modificazione in via giudiziaria del contratto, sicché chi la propone accetta di trattenere il bene difettoso, pretendendo soltanto di essere ristorato per il minor valore del bene.
Ove venga optata la strada della risoluzione del contratto la parte ha diritto, a titolo di spese e pagamento fatto per la vendita, alla corresponsione di quanto speso per la conclusione della vendita e, sulla base dell'autonoma e parallela azione risarcitoria, al pagamento di tutti i costi che dovrà sostenere per restituire il bene, ivi compresi quelli di rimozione e restituzione.
Ove si opti per l'azione estimatoria, e quindi si manifesti l'interesse a mantenere comunque il bene viziato, si ha diritto unicamente ad una somma pari al minor valore del bene acquistato, senza poter ottenere alcunché, nemmeno in virtù dell'autonoma azione di risarcimento del danno, per i costi di rimozione e restituzione, poiché tali voci di danni risultano ontologicamente incompatibili con l'actio quanti minoris.
Sia che si agisca in redibitoria che in estimatoria, peraltro, il compratore non ha diritto ai costi di ripristino del bene, postulando gli stessi la percorribilità di un'azione di esatto adempimento e non potendo certo gli stessi filtrare all'interno dell'azione risarcitoria, poiché, consentendo di cumulare una delle due azioni edilizie con il risarcimento del danno volto ad ottenere i costi di ripristino, si darebbe al compratore la possibilità di conseguire, sostanzialmente, un'indebita locupletazione: in caso di risoluzione del contratto, la restituzione dell'intero prezzo e la corresponsione di una somma di danaro utile per l'acquisto degli stessi beni; in caso di azione di riduzione del prezzo, il minor valore dei beni acquistati, che verrebbero comunque trattenuti, oltre la corresponsione di una somma di denaro per l'acquisto degli stessi beni.
Tribunale di Torino, sezione II, sentenza 7 febbraio 2023 n. 575

REAPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Perdita di chance - Risarcimento – Onere della prova
(Cc, articoli 1223, 2056)
Il Tribunale di Catanzaro si sofferma in sentenza sul profilo del risarcimento del danno da perdita di chance a carattere patrimoniale chiarendo così che la chance è una situazione soggettiva autonomamente rilevante, cioè emancipata dal risultato finale non conseguito, consistente nella possibilità, per il soggetto che si assume danneggiato, di conseguire il risultato utile, la quale ove perduta per un comportamento illecito altrui, implica, in astratto, il diritto al risarcimento del danno, la cui quantificazione è diversa.
Precisamente, la chance patrimoniale presenta le stimmate dell'interesse pretensivo e postula cioè la preesistenza di una situazione positiva, un quid su cui andrà ad incidere sfavorevolmente la condotta colpevole del danneggiante impedendone la possibile evoluzione migliorativa, poiché la chance deve essere valutata non in relazione alla concreta possibilità di essere selezionato ma in relazione alla perdita della possibilità di conseguire il risultato utile.
Invero, oggetto della pretesa risarcitoria non è il risultato perduto, ma la perdita della possibilità di realizzarlo.
Quanto poi all'onere probatorio, se è vero che esso - per l'ipotesi di perdita di chance - si attenui rispetto all'ipotesi in cui venga chiesto il risarcimento del danno da perdita del bene della vita, detta attenuazione, tuttavia, osserva ancora l'adito Tribunale, non può significare evanescenza degli elementi costitutivi della fattispecie.
Secondo i principi generali, poi, anche per risarcire la perdita di una chance è necessario sussista il nesso causale fra la perdita stessa ed il fatto dannoso.
Per il nostro ordinamento, se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal Giudice con valutazione equitativa (regola desumibile dal combinato disposto degli articolo 2056 e 1223 c.c.), valutazione equitativa cui sovente si ricorre per liquidare il danno da perdita di chance in alternativa alla regola per cui il valore della chance dovrebbe rapportarsi in termini percentuali al valore astratto del bene finale.
Tribunale di Catanzaro, sezione II, sentenza 8 febbraio 2023 n. 205

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Risarcimento danni – Sentenza penale di condanna – Prescrizione
(Cc, articoli 1310, 2947, 2953)
Il Tribunale di Roma muove il suo argomentare richiamando il principio di diritto per cui la sentenza del Giudice penale che, accertando l'esistenza del reato, abbia altresì pronunciato condanna definitiva dell'imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega, in sede civile, effetto vincolante in ordine all'affermata responsabilità dell'imputato, che non può più contestarne i presupposti (quali, in particolare, l'accertamento della sussistenza del fatto reato), nonché alla declaratoria iuris di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni.
Con la precisazione secondo la quale, nel caso in cui la sentenza penale di condanna generica al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, sia passata in giudicato, la successiva azione volta alla quantificazione del danno non è soggetta al termine di prescrizione breve ex articolo 2947 c.c., ma a quello decennale ex articolo 2953 c.c. decorrente dalla data in cui la sentenza stessa è divenuta irrevocabile.
Ciò in quanto la pronuncia di condanna generica, pur difettando dell'attitudine all'esecuzione forzata, costituisce una statuizione autonoma contenente l'accertamento dell'obbligo risarcitorio in via strumentale rispetto alla successiva determinazione del quantum.
La conversione del termine di prescrizione, da breve a decennale, per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, è invocabile anche nei confronti di un soggetto rimasto estraneo al processo nel quale è stata pronunciata la stessa sentenza (come può essere il coobbligato in solido), a meno che non si tratti di diritti che non siano stati oggetto di valutazione o di decisione.
Ed allora, la condanna generica (in sede penale) dell'imputato al risarcimento del danno in favore del danneggiato costituitosi parte civile spiega effetti pure nei confronti del responsabile civile, indipendentemente dalla partecipazione di quest'ultimo al processo penale, poiché la sua qualità di condebitore solidale (anche ai fini dell'applicabilità dell'articolo 1310 c.c.) non dipende dal previo riconoscimento della responsabilità risarcitoria in sede penale, stante la natura di accertamento della esistente situazione di diritto sostanziale insita nella pronuncia giurisdizionale; ne consegue l'applicabilità, nei confronti del responsabile civile, dell'articolo 2953 c.c. in tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
Tribunale di Roma, sezione XVIII, sentenza 8 febbraio 2023 n. 2099

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