Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 13 e il 17 febbraio 2023

di Giuseppe Cassano

Le Corti d'Appello, nel corso di questa settimana, si occupano di responsabilità civile della Pa. nell'espropriazione per pubblica utilità, di malpractice medica, di responsabilità delle banche per violazione dei sistemi telematici, di mutuo e, infine, di distanze tra pareti finestrate.
A loro volta i Tribunali trattano l'annullamento del contratto, la compravendita immobiliare (rilevanza del certificato di agibilità), la responsabilità dell'hosting provider, la regressione tariffaria nell'accreditamento sanitario e, da ultimo, la disciplina del patrimonio indisponibile.


RESPONSABILITÀ E RISARCIMENTO
Responsabilità civile della Pa – Occupazione sine titulo di fondo privato
La Corte d'Appello di Campobasso muove in sentenza dalla distinzione tra obbligazione indennitaria dell'espropriante, nel sistema dell'espropriazione per pubblica utilità, e obbligazione risarcitoria dell'occupante senza titolo.
L'obbligazione indennitaria dell'espropriante è unica e non frazionabile, e la comunione avente ad oggetto tale indennità permane fino a quando non sia disposto lo svincolo (in quanto unica, essa va determinata nel suo complesso, e l'opposizione di un comproprietario estende i suoi effetti anche agli altri).
Diversamente, in ipotesi di responsabilità della Pa per occupazione illegittima di un fondo appartenente a più comproprietari, ciascuno di questi vanta un autonomo diritto al risarcimento del danno causato al suo patrimonio, potendo quindi dolersi del pregiudizio sofferto in proprio nei limiti della relativa quota, senza che sia configurabile un'ipotesi di solidarietà attiva e, quindi, una situazione di litisconsorzio necessario tra tutti i danneggiati.
L'illecito spossessamento del privato, da parte della Pa, e l'irreversibile trasformazione del suo fondo per la costruzione di un'opera pubblica non danno luogo all'acquisto dell'area da parte della Pa, sicché il privato ha sempre il diritto di chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (e cioè a dire, la perdita della proprietà non avviene, in simili casi, per accessione invertita, bensì per abdicazione, associata alla proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente). Tramontato ormai l'istituto, di origine pretoria, della cosiddetta occupazione appropriativa o acquisitiva (che determinava l'acquisizione della proprietà del fondo a favore della Pa per accessione invertita, allorché si fosse verificata l'irreversibile trasformazione dell'area, e che pure rispondeva, nel silenzio della legge, all'esigenza pratica di definire l'assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato e il conseguente assetto degli interessi), risultando privo di base legale, attualmente, il mero fatto dell'intervenuta realizzazione dell'opera pubblica non assurge a titolo di acquisto, non determina il trasferimento della proprietà e non fa venire meno l'obbligo della Pa di restituire al privato il bene illegittimamente appreso.
Corte di Appello di Campobasso, sentenza 13 febbraio 2023 n. 58

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Malpractice medica – Consenso informato – Mancata acquisizione
(Cc, articolo 2697)
Osserva la Corte d'Appello di Cagliari che, in materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute.
Invero, se nel primo caso l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova – che, ex articolo 2697 c.c., grava sul danneggiato – del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso.
Peraltro, anche in caso di allegata la violazione del diritto alla autodeterminazione, l'onere allegatorio del danneggiato non può ritenersi esaurito, in quanto escluso qualsiasi danno "in re ipsa", è indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito.
Diversamente, sebbene la condotta violativa dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente sia autonomo rispetto a quello inerente al trattamento terapeutico (comportando la violazione dei distinti diritti alla libertà di autodeterminazione e alla salute), in ragione dell'unitarietà del rapporto giuridico tra medico e paziente, non potendo affermarsi un'assoluta autonomia dei due illeciti tale da escludere ogni interferenza tra gli stessi nella produzione del medesimo danno, è possibile che l'inadempimento dell'obbligazione relativa alla corretta informazione sui rischi e benefici della terapia esaurisca la propria funzione lesiva, inserendosi tra i fattori concorrenti della serie causale determinativa del pregiudizio alla salute.
Può e deve, invece, riconoscersi all'omissione del medico un'astratta capacità plurioffensiva, potenzialmente idonea a ledere due diversi interessi sostanziali, entrambi suscettibili di risarcimento, qualora sia fornita la prova che dalla lesione di ciascuno di essi siano derivate specifiche e distinte conseguenze dannose.
Corte di Appello di Cagliari, sentenza 14 febbraio 2023 n. 65

ISTITUTI DI CREDITO
Istituti di credito - Sistema telematici – Violazioni – Responsabilità

(Dlgs 11/2010; ; Direttiva 13 novembre 2007, n. 64/CE)
Intervenuta in materia di responsabilità degli istituti di credito la Corte d'Appello di Firenze osserva, preliminarmente, come la diligenza esigibile dal professionista o dall'imprenditore, nell'adempimento delle obbligazioni assunte nell'esercizio dell'attività, abbia contenuto tanto maggiore quanto più è specialistica e professionale la prestazione richiesta; pertanto, incorre in responsabilità il soggetto che non adoperi la diligenza dovuta in relazione alle circostanze concrete del caso, con adeguato sforzo tecnico e con impiego delle energie e dei mezzi normalmente ed obiettivamente necessari o utili all'adempimento della prestazione dovuta e al soddisfacimento dell'interesse creditorio, nonché ad evitare possibili effetti dannosi.
In specifico riferimento alla responsabilità della banca, ovvero dell'erogatore del corrispondente servizio, in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, la Corte fiorentina rileva che, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema, è del tutto ragionevole ricondurre nell'area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento – prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente - la possibilità di un'utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo.
Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore del Dlgs n. 11/2010, attuativo della Direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, l'erogatore di servizi, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell'accorto banchiere, è tenuto a fornire la prova della riconducibilità dell'operazione al cliente.
L'istituto creditizio risponde, quale titolare del trattamento di dato, dei danni conseguenti al fatto di non aver impedito a terzi di introdursi illecitamente nel sistema telematico mediante la captazione dei codici d'accesso del correntista, ove non dimostri che l'evento dannoso non gli sia imputabile perché discendente da trascuratezza, errore o frode del correntista o da forza maggiore.
Corte di Appello di Firenze, sezione II, sentenza 14 febbraio 2023 n. 319

CONTRATTI
Contratto di mutuo – Requisiti – Obblighi per le parti
(Cc, articolo 1813)
La Corte d'Appello di Napoli sottolinea in sentenza come il mutuo sia un contratto reale che si perfeziona con la consegna dal mutuante al mutuatario (da intendersi non necessariamente come materiale e fisica traditio, rivelandosi all'uopo sufficiente il conseguimento della disponibilità giuridica da parte dello stesso mutuatario) di una determinata quantità di danaro, o di altre cose fungibili, e che implica l'assunzione, ad opera del secondo, dell'obbligo di restituire al primo altrettante cose della stessa specie e qualità (articolo 1813 c.c.).
L'uscita del denaro dal patrimonio dell'istituto di credito mutuante e l'acquisizione dello stesso al patrimonio del mutuatario costituisce effettiva erogazione dei fondi anche se la somma sia versata dalla banca su un deposito cauzionale infruttifero: il dato rilevante, infatti, è, come detto, che la somma sia messa a disposizione della parte mutuataria ed utilizzata per soddisfare esigenze e obbligazioni ad essa riferibili, che, in assenza di tale messa a disposizione, avrebbero dovuto essere soddisfatte con denaro proveniente dal patrimonio della mutuataria.
Ciò anche in armonia con la progressiva dematerializzazione dei valori mobiliari e la loro sostituzione con annotazioni contabili, tenuto conto che, sia la normativa antiriciclaggio che le misure normative tese a limitare l'uso di contante nelle transazioni commerciali, hanno accentuato l'utilizzo di strumenti alternativi al trasferimento di danaro.
Sul piano probatorio, l'onere della prova dell'erogazione della somma data a mutuo è assolto dall'istituto di credito mutuante mediante la produzione in giudizio dell'atto pubblico notarile di erogazione e quietanza, senza che sia necessario produrre anche gli estratti conto comprovanti l'erogazione delle somme mutuate.
E così la banca mutuante, che chieda l'ammissione del proprio credito nel fallimento del mutuatario, assolve l'onere di provare la consegna del denaro mediante la produzione della quietanza di erogazione del mutuo e della contabile che attesta lo svincolo delle somme, riprodotte in un atto notarile.
Corte di Appello di Napoli, sezione VII, sentenza 14 febbraio 2023, n. 609

IMMOBILI
Fabbricati – Distanza tra pareti finestrate – Modalità di calcolo
(Dm 2 aprile 1968, n. 1444, articolo 9)
Evidenzia la Corte d'Appello di Roma come il Dm 1444/1968, all' articolo9 prescrive la distanza minima di dieci metri lineari tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti.
In particolare, le disposizioni di tale normativa, riguardo alla densità, all'altezza e alla distanza tra i fabbricati, prevalgono sulle eventuali previsioni contrastanti contenute nei regolamenti locali.
E, quanto alle modalità di misurazione delle distanze, si richiama in sentenza l'insegnamento che esclude si debba procedere a "misurazioni radiali", ritenendo un tale accertamento doversi eseguire con misurazioni lineari in linea perpendicolare o ortogonale.
Quella ex articolo 9 de quo è una disposizione che (diversamente dalle norme del codice civile sulle distanze) persegue obiettivi di interesse pubblico e, precisamente, quello di preservare l'ordinato sviluppo dell'attività edilizia, nonché quello di preservare la salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane.
La norma stabilisce in modo inequivoco l'obbligo di osservare la distanza prevista quando anche una sola delle pareti fronteggiantisi sia finestrata e non vi è alcun vuoto normativo che possa lasciar spazio a un'integrazione da parte della normazione locale: e cioè a dire, l'esistenza di una finestra (id est, veduta) è un dato di fatto, che non può essere sovvertito da alcuna diversa previsione di un regolamento edilizio.
La medesima disposizione riguarda, poi, i nuovi edifici, intendendosi per tali gli edifici o parti e/o sopraelevazioni di essi costruiti per la prima volta e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse.
Quanto alla nozione di costruzione, rilevante ai fini qui in esame, essa non coincide con quella di edificio ma si estenda a qualsiasi manufatto non completamente interrato che presenti i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell'opera.
Né rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell'opera, riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente.
Corte di Appello di Roma, sezione VIII, sentenza 15 febbraio 2023 n. 1152

CONTRATTI
Annullamento del contratto - Vizi della volontà – Violenza
(Cc, articoli 1427, 1434, 1435)
Afferma in sentenza il Tribunale di Cosenza che, in materia di annullamento del contratto per vizi della volontà, si verifica l'ipotesi della violenza, invalidante il negozio giuridico, qualora uno dei contraenti subisca una minaccia specificamente finalizzata ad estorcere il consenso alla conclusione del contratto, proveniente dalla controparte o da un terzo e di natura tale da incidere, con efficienza causale, sul determinismo del soggetto passivo, che in assenza della minaccia non avrebbe concluso il negozio.
Ne consegue che il contratto non può essere annullato ex articolo 1434 c.c. ove la determinazione della parte sia stata indotta da timori meramente interni ovvero da personali valutazioni di convenienza, senza cioè che l'oggettività del pregiudizio risalti quale idonea a condizionare un libero processo determinativo delle proprie scelte.
La coercizione per poter invalidare il consenso si concretizza nel timore di un male notevole e ingiusto (artiocoli 1434-1435 c.c.) o comunque nella minaccia dell'esercizio di un diritto, purché teso al raggiungimento di obiettivi ingiusti, dovendo fare impressione sopra una persona sensata e farle temere di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole.
In tema di violenza morale, quale vizio invalidante del consenso, i requisiti previsti dall'articolo 1435 c.c., possono variamente atteggiarsi, a seconda che la coazione si eserciti in modo esplicito, manifesto e diretto, o, viceversa, mediante un comportamento intimidatorio, oggettivamente ingiusto, anche ad opera di un terzo; è in ogni caso necessario che la minaccia sia stata specificamente diretta ad estorcere la dichiarazione negoziale della quale si deduce l'annullabilità e risulti di natura tale da incidere, con efficacia causale concreta, sulla libertà di autodeterminazione dell'autore di essa.
In definitiva, il metus dettato dalla violenza, ai fini dell'annullamento, dev'essere indotto da circostanze che, per profili oggettivi o per fatti umani, comprimano la libertà di autodeterminazione.
In particolare, osserva ancora l'adito Giudice, l'emissione di un assegno bancario non può ritenersi annullabile qualora non sia concretamente provata l'esistenza di una minaccia al momento dell'emissione del titolo, requisito indispensabile per l'applicabilità del vizio del consenso ex articoli 1427 e ss. c.c..
Tribunale di Cosenza, sezione I, sentenza 13 febbraio 2023 n. 256

IMMOBILI
Compravendita immobiliare – Certificato di agibilità – Assenza - Conseguenze

(Dpr 6 giugno 2001, n. 380, articolo 24)
Adito in tema di compravendita immobiliare sottolinea in sentenza il Tribunale di Catanzaro come il mancato rilascio del certificato abitabilità/agibilità non integri la nullità del contratto, che resta valido, ma un inadempimento del venditore a meno che il compratore non vi abbia espressamente rinunciato, consentendo l'acquisto anche in assenza.
L'articolo 24, I, Dpr n. 380/2001 definisce la funzione ed il contenuto dell'agibilità quale atto volto ad attestare <<la sussistenza delle condizioni di sicurezza, igiene, salubrità, risparmio energetico degli edifici e degli impianti negli stessi installati, e, ove previsto, di rispetto degli obblighi di infrastrutturazione digitale valutate secondo quanto dispone la normativa vigente (…)>>.
Un profilo di particolare rilievo è quello del rapporto tra permesso di costruire, da un lato, e certificato di agibilità, dall'altro: essi sono collegati a presupposti tra loro diversi e danno vita a conseguenze non sovrapponibili.
Invero, se il certificato di agibilità ha la funzione cui si è detto, il rispetto delle norme edilizie ed urbanistiche è l'oggetto della funzione tipica del titolo abilitativo.
Il che comporta che i diversi piani ben possono convivere sia nella forma fisiologica della conformità dell'edificio ad entrambe le tipologie normative, sia in quella patologica di una loro divergenza.
Resta fermo, in ogni caso, che il provvedimento ex articolo 24 cit. è strettamente vincolato nei sui presupposti per cui non può contenere clausole estranee al disposto normativo pena una deviazione rispetto allo schema tipico del provvedimento voluto dal Legislatore.
Va, dunque, negato il rilascio del detto certificato nel caso di opera abusiva o difforme dal titolo abilitativo edilizio rilasciato e conseguentemente va anche ritenuto che la validità e l'efficacia del permesso di costruire possano condizionare quelle del certificato di agibilità.
Ed allora, il rapporto che intercorre tra permesso di costruire, da un lato, e certificato di agibilità (o abitabilità), dall'altro lato, è nel senso che trattasi di provvedimenti tra loro non sovrapponibili ragion per cui il secondo non preclude alla Pa l'accertamento e la contestazione di difformità edilizie.
Tribunale di Catanzaro, sezione I, sentenza 15 febbraio 2023 n. 253

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Hosting provider – Responsabilità – Ipotesi e limiti
(Dlgs 70/2003 articolo 16; Direttiva 8 giugno 2000 n. 31/CE )
Osserva il Tribunale di Milano che il regime di responsabilità dell'hosting provider per le attività illecite perpetrate nell'uso dei servizi messi a disposizione è delineato dall'articolo 16 Dlgs n. 70/2003 ("Responsabilità nell'attività di memorizzazione di informazioni hosting") alla luce delle cui disposizioni emergono gli elementi costitutivi di tale fattispecie.
Il Legislatore (sulla scorta di indicazioni euro unitarie Dir. n. 31/2000/CE) ha scelto di enunciare il generale principio di irresponsabilità dell'internet service provider e, quindi, di delimitarlo al ricorrere di talune condizioni. Ne deriva che l'hosting provider non è, in generale, soggetto né ad un obbligo diffuso di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite presso le piattaforme che gestisce.
La disciplina positiva induce, pertanto, ad escludere ogni obbligo di attivazione del prestatore (pur non "attivo") con riguardo alla diretta ricerca degli altrui illeciti, nel momento in cui essi vengono immessi e diffusi nella rete; obbligo che sorge, però, nel momento successivo alla conoscenza dei fatti illeciti da parte del prestatore.
Al contempo, l'articolo 16 cit., quanto al profilo oggettivo, contempla una fattispecie di responsabilità civile di natura omissiva che si configura qualora l'hosting provider ometta di rimuovere i contenuti di cui conosce la manifesta illiceità. Tale norma fonda una cosiddetta posizione di garanzia dell'hosting provider che, se per definizione è estraneo alla originaria perpetrazione dell'illecito del destinatario del servizio, ne diviene giuridicamente responsabile dal momento in cui gli possa essere rimproverata l'inerzia nell'impedirne la protrazione (condotta commissiva mediante omissione).
Quanto al profilo soggettivo dell'illecito in questione, invece, si rileva che non si tratta di una responsabilità oggettiva o per fatto altrui, ma di un'ipotesi di responsabilità per fatto proprio colpevole, come è suggerito dal fatto che essa è subordinata alla conoscenza della manifesta illiceità dell'altrui condotta di cui non si impedisce la prosecuzione.
Tribunale di Milano, sezione I, sentenza 15 febbraio 2023 n. 1208

SANITA'
Sistema sanitario - Prestazioni sanitarie – Tetti di spesa – Regressione tariffaria

Secondo il Tribunale di Napoli il sistema di regressione tariffaria delle prestazioni sanitarie che eccedono il tetto massimo prefissato, nel regime dell'accreditamento, è espressione del potere autoritativo di fissazione dei tetti di spesa e di controllo pubblicistico della spesa sanitaria, in funzione di tutela della finanza pubblica affidato alle Regioni.
Esso trova una concorrente giustificazione nella possibilità che le imprese fruiscano di economie di scala nonché effettuino opportune programmazioni della rispettiva attività; ove, invero, venisse consentito lo sforamento dei tetti complessivi di spesa, fissati dalla Regione, il potere di programmazione regionale ne risulterebbe vanificato.
Dalle stesse linee fondamentali del sistema sanitario nel nostro ordinamento emerge l'importanza del collegamento tra responsabilità e spesa: l'autonomia dei vari soggetti ed organi operanti nel settore non può che essere correlata alle disponibilità finanziarie e non può prescindere dalla limitatezza delle risorse e dalle esigenze di risanamento del bilancio nazionale.
Il principio di diritto che si fa valere è dunque quello per cui non è pensabile poter spendere senza limite, avendo riguardo soltanto ai bisogni quale ne sia la gravità e l'urgenza.
E così il necessario raccordo tra tutela del diritto alla salute ed esigenze di razionalizzazione delle spesa sanitaria trova applicazione anche con riferimento a meccanismi di riequilibrio che intervengono a consuntivo ed in via eventuale rispetto alla Asl, in base alle norme pubbliche, a contenere la spesa nei limiti imposti dalla Regione, obbligo che va osservato sempre, anche tardivamente, con la conseguenza che il ritardo non ha influenza, non rende l'atto dovuto un atto nullo o annullabile, o altrimenti inefficace.
Ed allora, la fissazione dei limiti di spesa e l'applicazione delle regressioni tariffarie volte a garantire l'effettività di tali limiti, anche se tardive e con sostanziale portata retroattiva, rappresentano comunque l'adempimento di un preciso ed ineludibile obbligo, che influisce sulla possibilità stessa di attingere le risorse necessarie per remunerare le prestazioni erogate.
Tribunale di Napoli, sezione X, sentenza 15 febbraio 2023 n. 1643

PATRIMONIO INDISPONIBILE
Patrimonio indisponibile – Atto amministrativo di destinazione – Utilizzo del bene
(Cc, articoli 822, 824, 826)
È affermazione in punto di diritto del Tribunale di Roma quella secondo cui i beni del demanio pubblico sono tassativamente elencati negli articoli 822 e 824 c.c., mentre quelli del patrimonio indisponibile nell'articolo 826 c.c..
Sebbene quest'ultimo articolo, nell'ultimo comma, inserisca nel patrimonio indisponibile "gli altri beni destinati a un pubblico servizio", non è sufficiente la sola proprietà pubblica per attribuire ai beni tale connotazione (non essendo prevista una presunzione di demanialità), ma è necessario, innanzitutto, un provvedimento amministrativo da cui risulti la volontà dell'ente titolare del diritto reale di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio e, poi, che ad esso segua un'effettiva destinazione a pubblico servizio.
È così, l'appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile di un ente territoriale:
- si stabilisce in relazione alle caratteristiche funzionali ed oggettive del bene stesso (tanto presupponendo non solo che il bene sia di proprietà del Comune ma anche una concreta destinazione dello stesso ad un pubblico servizio);
- discende, non solo, dall'esistenza di un atto amministrativo che lo destini ad uso pubblico, ma anche dalla concreta utilizzazione dello stesso a tale fine, la cui mancanza deve essere desunta dalla decorrenza, rispetto all'adozione dell'atto amministrativo, di un periodo di tempo tale da non essere compatibile con l'utilizzazione in concreto del bene a fini di pubblica utilità.
In base all'articolo 826, III, c.c., dunque, fanno parte del patrimonio indisponibile pubblico quei beni che siano comunque destinati a consentire lo svolgimento di un pubblico servizio.
I beni del patrimonio indisponibile devono essere tenuti distinti da quello del demanio in senso proprio in quanto questi ultimi debbono rivestire i caratteri di stretta analogia con beni enumerati nell'articolo 822 c.c., e sono destinati a soddisfare una pubblica utilità in modo diretto e immediato, mentre appartengono alla categoria del patrimonio indisponibile tutti quegli altri beni che sono sottoposti a un uso pubblico soltanto mediato e meramente strumentale, in connessione alle esigenze del pubblico servizio a cui sono destinati.
Tribunale di Roma, sezione V, sentenza 15 febbraio 2023 n. 2633

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