Civile

Avvocati interni, nessun diritto all'onorario professionale se nell'ente manca la regolamentazione

Se le parti contraenti avessero inteso vincolare gli enti in tal senso, la stessa lettera della normativa avrebbe avuto forma e sostanza con connotazioni in termini di discrezionalità molto meno ampia per l'ente; con correlati pochi dubbi interpretativi

di Pietro Alessio Palumbo

La disciplina dei contratti collettivi conferisce molto potere agli enti pubblici di governo e amministrazione territoriale con riguardo alla facoltà, in seguito a cause con esito positivo, di prevedere e regolamentare compensi ad hoc per i propri dipendenti che esercitino il ruolo e le delicate funzioni di Avvocati interni dell'ente. Ciò nonostante – ha chiarito la Corte di Cassazione con la recente ordinanza n.15597/2022 - se l'ente manca di apposita regolazione ed organizzazione, il funzionario impegnato nella difesa in giudizio dell'ente non ha diritto agli onorari professionali per l'attività specialistica in argomento.
A ben vedere infatti – mette in risalto la Suprema Corte - se le parti contraenti avessero inteso vincolare gli enti in tal senso, la stessa lettera della normativa avrebbe avuto forma e sostanza con connotazioni in termini di discrezionalità molto meno ampia per l'ente; con correlati pochi dubbi interpretativi.

Nella particolare vicenda, i ricorrenti, tutti avvocati interni dell'ente, avevano denunciato la violazione e la falsa applicazione della disciplina di contrattazione collettiva in relazione ai principi sull'ordinamento professionale in tema di onorari degli avvocati, nonché al fondamentale principio di autonomia e indipendenza degli avvocati pubblici con particolare riguardo alla insussistenza di un potere dei singoli enti di determinazione della misura dei compensi e rinvio del contratto collettivo alle tariffe forensi. Per i ricorrenti non vi era nessuna possibilità di riscontro di una discrezionalità per l'ente coinvolto; né in ordine al riconoscimento del diritto al compenso in parola; né in ordine alla sua stessa commisurazione.
In altre parole l'ente avrebbe avuto unicamente la facoltà di decidere il "come", in sede attuativa, della doverosa erogazione dei compensi professionali in argomento. Di conseguenza omettere ogni riferimento alla correlazione tra la disciplina della corresponsione dei compensi e i princìpi della legge forense si manifestava violativo degli stessi canoni generali di interpretazione sistematica e di conservazione. E nondimeno – secondo i professionisti ricorrenti - una eventuale determinazione unilaterale della misura dei compensi da parte dell'ente, dove e per cui, prestavano servizio con le funzioni di avvocati interni, avrebbe integrato anche una palese violazione dei cardini di libertà dell'avvocatura pubblica.

La normativa di contrattazione collettiva di lavoro prevede che gli enti provvisti di avvocatura costituita secondo i rispettivi ordinamenti "disciplinano" la corresponsione dei compensi professionali, dovuti a seguito di sentenza favorevole all'ente; e "disciplinano" in sede di contrattazione decentrata integrativa la correlazione tra tali compensi professionali e la retribuzione di risultato. All'evidenza dunque la normativa si limita a demandare alle autonome determinazioni degli enti l'adozione di una regolazione "dedicata" in materia di compensi professionali da corrispondere agli avvocati degli uffici formalmente costituiti presso gli stessi.

Secondo la Suprema Corte si tratta di una disciplina unilaterale dell'ente; e l'intervento della contrattazione integrativa è volta solamente a determinare l'eventuale correlazione tra tali compensi e la retribuzione di risultato nel caso si tratti di avvocati non dirigenti ma titolari di posizione organizzativa. Con riferimento ai compensi e alla correlazione tra questi e la retribuzione di risultato, la normativa pattizia non costituisce alcun obbligo a carico dell'ente coinvolto. E allora non può dubitarsi della natura meramente "programmatica" della normativa in parola: non ne discendono né immediati vincoli a carico dell'ente, né tantomeno aspettative legittime e garantite per l'avvocato dipendente.
Non è configurabile l'esistenza di un diritto al compenso per effetto diretto della previsione normativa, che fissa una mera linea direttiva, che richiede, necessariamente, di essere integrata da atti successivi, e che non ha ricadute immediate sul rapporto di lavoro.

Da tutto ciò deriva che la predisposizione del servizio di avvocatura interna non basta di per sé a soddisfare tutti i presupposti previsti dalla normativa per ottenere il compenso professionale in parola. Nel caso in esame nessuna regolamentazione dei compensi professionali spettanti ai dipendenti era stata adottata dall'ente coinvolto; ente che si era limitato a stabilire che i compensi recuperati a seguito di condanna della parte avversa soccombente dovevano confluire in un unico capitolo di bilancio per poi essere ripartiti in parti eguali tra gli avvocati con cadenza trimestrale. Tutto ciò mentre era rimasta riservata a ulteriori e separate determinazioni – tuttavia non intervenute - la rimanente disciplina; e cioè quella relativa, più in generale, alla corresponsione dei compensi professionali in relazione alle cause concluse in modo favorevole per l'ente; il che osta al riconoscimento delle spettanze rivendicate a titolo di compenso.

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