Civile

Cambiamenti climatici, Cassazione e Corte dell’Aja accelerano sulla “giustiziabilità”

Un parere della Corte della Corte Internazionale di Giustizia e un’ordinanza delle Sezioni unite civili allargano il quadro dei ricorsi giurisdizionali nei confronti degli Stati firmatari degli Accordi di Parigi e degli headquarters delle multinazionali

di Francesco Bruno *

Con il nuovo parere della Corte Internazionale di Giustizia di alcuni giorni fa e la recente ordinanza sul regolamento di giurisdizione delle Sezioni Unite Civili della Cassazione n. 20381/2025, depositata lo scorso 21 luglio, la lotta ai cambiamenti climatici assume nuovi connotati sotto il profilo giuridico, anche spinta da considerazioni geopolitiche e innovativi indirizzi di politica del diritto.

Per comprendere la reale portata della posta in gioco è necessario accennare alle conseguenze socioeconomiche del veloce e repentino innalzamento della temperatura del globo, nonché richiamare le norme (e i vincoli) internazionali che dovrebbero limitare tali conseguenze nei prossimi anni.

Sul primo punto, la comunità scientifica (più o meno unanime) ritiene che il riscaldamento globale, determinato dall’accumulo nell’atmosfera di alcuni gas che hanno la capacità di trattenere parte della radiazione infrarossa emanata dalla Terra, avranno (ma già stanno avendo) impatti sulla produzione industriale, che dovrà essere ridotta e delocalizzata in molte aree che non saranno più adatte come territori e climi di riferimento. Gli organismi internazionali stimano una diminuzione di prodotto interno lordo annuale per i maggiori paesi industrializzati (tra i quali l’Italia) tra il 5 e il 10 per cento a partire dal 2030. Inoltre, vi sono delle conseguenze a livello globale (e, in particolare, sui Paesi in via di sviluppo e gli Stati più poveri) sulla produzione di cibo e la sicurezza alimentare: i cambiamenti climatici inaspriranno l’insicurezza alimentare nelle aree in cui già attualmente fame e malnutrizione sono frequenti.

Venendo alle regole internazionali della lotta ai cambiamenti climatici, va innanzitutto sottolineato quanto sia articolato ed intricato il sistema adottato dalla comunità internazionale, a riprova della complessità e di quanto sia divisivo il tema, che contrappone i paesi del G7 (occidente e Giappone) e le nazioni che negli ultimi 20 anni hanno raggiunto dimensioni economiche paragonabili ad Usa e Ue e che sono attualmente i maggiori inquinatori del pianeta. Tutto nasce dall’Accordo quadro del 1992 (c.d. Accordo di Rio o UNFCCC) che - per valutare i passi in avanti fatti dai vari Stati – ha previsto che ogni anno siano organizzati degli incontri formali, chiamati Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNCCC) o anche Conferenza ONU sul cambiamento climatico (COP). Oggi le regole sulla lotta ai cambiamenti climatici sono contenute nell’Accordo di Parigi, concluso nel dicembre 2015, entrato in vigore dell’Accordo il 4 novembre 2016. Esso rappresenta un importante momento di passaggio e di evoluzione rispetto al suo predecessore, il Protocollo di Kyoto, caratterizzato da un impianto concettuale e normativo rigido, che, a quasi venti anni dalla sua adozione, avvenuta a Kyoto nel 1997, non rispecchiava più le esigenze della comunità internazionale.

L’Accordo di Parigi si propone quindi di superare le rigidità manifestate dal Protocollo di Kyoto e decretarne il graduale superamento, nell’ambito delle iniziative della comunità internazionale nella lotta contro i cambiamenti climatici, realizzate in attuazione degli obiettivi e dei principi sanciti dalla Convenzione-quadro sui cambiamenti climatici del 1992, che ancora oggi costituisce la base dell’azione internazionale in materia.

Se questo è il quadro di riferimento, quali sono le novità di questi ultimi giorni che tanto eco hanno avuto nei mass media? Iniziamo dall’ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione sul regolamento di giurisdizione. È stato individuato (anche) il giudice civile italiano per riconoscimenti di eventuali risarcimenti dei danni da emissioni climalteranti in capo alle associazioni portatrici di interessi diffusi, in quanto l’origine nella strategia industriale e commerciale dell’impresa, “la cui elaborazione, spettante in definitiva agli organi di governo della società, che operano nel luogo in cui la stessa ha la sua sede legale ed operativa, consentono di collocare la condotta dannosa nel territorio nazionale, con la conseguenza che, anche sotto tale profilo, la competenza giurisdizionale dev’essere assegnata all’Autorità giudiziaria italiana” (così espressamente la Suprema Corte italiana a pag. 23 dell’ordinanza). Si tratta di un passaggio rilevante, in quanto in realtà la maggior parte delle emissioni climalteranti sono prodotte in territorio esterno alla Repubblica Italiana e probabilmente aprirà la strada ad un incremento delle azioni proposte contro le multinazionali che hanno gli headquarter in Italia (e in Europa) e che producono nei paesi in via di sviluppo.

In riferimento invece al parere della Corte Internazionale, esso era stato richiesto dallo Stato insulare di Vanuatu due anni fa dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il parere, che ricordiamo non è vincolate ma assume il ruolo di una (autorevole) soft law, prende posizione sulla natura cogente o meno degli accordi sui cambiamenti climatici e in particolare del citato Accordo di Parigi. Avevamo già scritto in merito che “rispetto alla natura giuridica di tale Accordo, si può senz’altro sostenere che sia un trattato internazionale di natura vincolante ai sensi dell’art. 2, par. 1, lett. a), della Convenzione di Vienna. Infatti, esso rientra senza dubbio nella definizione di accordo internazionale concluso tra Stati in forma scritta e regolato dal diritto internazionale, a prescindere dalla sua esatta denominazione” (così nel nostro, Il diritto alimentare, Cap. VI dal titolo “Cambiamenti Climatici e produzione alimentare”, Cedam WKI, 2022), ma non tutti erano (e sono) d’accordo con tale impostazione.

La Corte Internazionale oggi prende invece una chiara posizione affermando che “[i]s of the opinion that a breach by a State of any obligations identified in response to question (a) [i.e. the international climate change regulation] constitutes an internationally wrongful act entailing the responsibility of that State. The responsible State is under a continuing duty to perform the obligation breached”. In altre parole, nel caso in cui gli Stati non dovessero recepire il diritto internazionale dei cambiamenti climatici o non dovessero farlo rispettare dalle “proprie” imprese (come il caso italiano), saranno responsabili nei confronti degli altri Stati firmatari degli accordi.

Il diritto internazionale recentemente non ha più quel rilievo centrale nelle dispute geopolitiche e socioeconomiche che aveva in precedenza negli ultimi decenni, ma sicuramente siamo dinanzi ad una accelerazione in un posizionamento chiaro della Corte Internazionale a favore della lotta ai cambiamenti climatici. Presa di posizione che si accompagna ai percorsi aperti in seno all’Unione Europea sulla sostenibilità, in particolare con la direttiva UE 2024/1760 CSDD (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità, che quando entrerà in vigore (il termine è stato più volte posticipato) obbligherà le imprese che hanno sede in Europa ad attuare i Trattati internazionali a preservazione dell’ambiente e degli ecosistemi.

* Ordinario di diritto ambientale, Università Campus Bio-medico di Roma

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