Civile

Occupazione abusiva, no alla liquidazione equitativa del danno senza prova del pregiudizio

Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 21607 depositata oggi affermando che “non è una liquidazione ‘a senso’, ma esige che il giudice esponga nella motivazione il valore monetario”

di Francesco Machina Grifeo

La Cassazione, ordinanza n. 21607 depositata oggi, torna sulla questione del danno da occupazione abusiva di un immobile per bocciare la liquidazione equitativa, da parte del giudice, in assenza della prova delle perdite subite dalla proprietà. La questione che si trascina dai primi anni ’90 riguarda la richiesta di risarcimento presentata da due società immobiliari nei confronti del Ministero dell’Interno per l’occupazione da parte di esponenti del “Movimento per la casa” di decine di appartamenti di loro proprietà. Le società in particolare lamentavano la colpevole e prolungata inerzia dell’amministrazione nel dare esecuzione all’ordine di sgombero della Procura della Repubblica.

Al termine di una serie di rimpalli, giunti già una prima volta in Corte di cassazione, la Corte d’appello di Firenze, in sede di rinvio, aveva condannato, nel 2021, il Ministero a pagare in via equitativa 625mila euro di risarcimento. Gli Interni hanno però proposto ricorso sostenendo che la liquidazione equitativa del danno ha due presupposti: a) che il danno sia certo nella sua esistenza; b) che sia impossibile a dimostrarsi con gli ordinari mezzi di prova e nel caso di specie sarebbero mancati entrambi i requisiti.

La Terza sezione civile gli ha dato ragione affermando sul punto b. Con il prima la Cassazione stabilisce che “la liquidazione equitativa del danno, ex art. 2056 c.c., presuppone che l’impossibilità di determinarne l’esatto ammontare non dipenda dalla renitenza del danneggiato a descrivere l’entità del danno e fornirne almeno i relativi indizi”. Con il secondo che “la liquidazione equitativa del danno non è una liquidazione ‘a senso’, ma esige che il giudice esponga nella motivazione il valore monetario di base da cui il ragionamento ha preso le mosse ed il criterio con cui quel valore è stato elaborato per pervenire alla stima equitativa del danno”.

Dunque, in tanto è consentito al giudice il ricorso alla liquidazione equitativa, in quanto sia stata previamente dimostrata l’esistenza certa, ovvero altamente verosimile, d’un effettivo pregiudizio.

Con specifico riferimento al danno da abusiva occupazione d’un immobile del resto le S.U. (n. 33645/2022) hanno affermato che: il “danno” in senso giuridico non consiste solo nella lesione d’un diritto, ma esige che da quella lesione sia derivato un concreto pregiudizio. La lesione del diritto di proprietà, quando sia consistita non in una lesione diretta del bene, ma nella perduta possibilità di goderne, può costituire un danno risarcibile soltanto ove il proprietario alleghi e dimostri che la perdita del frutto del godimento sia stata “specifica” e “concreta”.

Nel caso specifico invece la Corte di appello ha affermato 1) di non potere stabilire se, qualora fosse mancato il fatto illecito della P.A., le due società attrici avrebbero destinato gli immobili abusivamente occupati alla vendita od alla locazione ; 2) se quegli immobili furono mai locati, prima o dopo l’occupazione; 3) di non avere a disposizione le scritture contabili delle società. Per i giudici di legittimità l’articolo 1226 c.c. è stato dunque falsamente applicato dalla Corte territoriale, per non avere rilevato che l’impossibilità d’una esatta stima del danno fu dovuta alle “carenze assertive e probatorie delle due danneggiate”. Limitandosi ad un “simulacro di motivazione” che non consente di stabilire quale sia stato l’importo pecuniario da cui è stato sviluppato il calcolo; quale sia stato (e se vi sia stato) il calcolo; né consente di ripercorrere il ragionamento del giudicante.

Non solo, la Corte d’appello, liquidando il danno ventisei anni dopo il fatto, ha conglobato capitale, rivalutazione ed interessi compensativi, senza indicare alcun criterio per risalire dal risultato finale al capitale puro: non il saggio degli interessi, non il criterio di rivalutazione, non la decorrenza.

A 30 anni dal primo ricorso la questione torna dunque alla Corte di Appello di Firenze.

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