Lavoro

Consulta: l’irretroattività della norma peggiorativa si estende anche ai contratti pubblici

La Corte costituzionale, sentenza n. 4 del 2024, ha affermato che il principio è “generale” e non vale solo per il diritto penale. Ed ha bocciato la Finanziaria 2001 nella parte in cui - retroattivamente - escludeva l’operatività delle maggiorazioni Ria dei dipendenti pubblici per il triennio 1991-1993

11/01/2011 Roma, sede della Corte Costituzionale

di Francesco Machina Grifeo

Il principio di non retroattività della legge costituisce un fondamentale valore di civiltà giuridica, anche al di là della materia penale. È questo l’importante approdo teorico cui giunge la Corte costituzionale, con la sentenza n. 4 del 2024 (redattore Marco D’Alberti) affrontando il caso di una norma peggiorativa rispetto al precedente regime economico in materia di anzianità dei dipendenti pubblici.

La Consulta ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 51, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, che era intervenuto, in via retroattiva, per escludere l’operatività di maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione al triennio 1991-1993, a fronte di un orientamento giurisprudenziale che stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.

Il Consiglio di Stato, che ha poi rimesso la questione alla Consulta, doveva infatti decidere sull’appello contro la sentenza del Tar Lazio (n. 9255/2014), che aveva respinto il ricorso proposto da seicentocinquantotto dipendenti del Ministero della difesa per il riconoscimento di maggiorazioni della retribuzione individuale di anzianità (RIA), ai sensi dell’articolo 9, commi 4 e 5, del Dpr 17 gennaio 1990, n. 44 maturate nel 1991, 1992 e 1993, facendo valere la proroga al 31 dicembre 1993 disposta dalla legge 14 novembre 1992, n. 438.

Il Tar Lazio (sentenza n. 9255 del 2014) aveva rigettato le pretese dando atto della sopravvenienza, nelle more del giudizio, della legge n. 388 del 2000 che ha espressamente escluso che la proroga al 31 dicembre 1993 dell’intera disciplina contenuta nel d.P.R. n. 44 del 1990 potesse estendere anche il termine per la maturazione dell’anzianità di servizio ai fini dell’ottenimento della maggiorazione della RIA.

La sentenza odierna ha innanzitutto chiarito che il controllo di costituzionalità delle leggi retroattive diviene “ancor più stringente” qualora l’intervento legislativo “incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica”, essendo precluso al legislatore “di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti coinvolte nel giudizio”.

Al fine di verificare se l’intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l’esito di giudizi pendenti, la Corte costituzionale è chiamata a svolgere – in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU – uno scrutinio che assicuri una “particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo”, tenendo conto delle concrete tempistiche e modalità dell’intervento del legislatore.

Inoltre, nelle motivazioni si è chiarito che “solo imperative ragioni di interesse generale possono consentire un’interferenza del legislatore su giudizi in corso” e che “i principi dello stato di diritto e del giusto processo impongono che tali ragioni siano trattate con il massimo grado di circospezione possibile”.

E, prosegue la decisione, “nel caso in esame non emerge, né dai lavori preparatori, né dalle relazioni tecnica e illustrativa, alcuna ulteriore ragione giustificatrice dell’intervento legislativo retroattivo rispetto all’esigenza di assicurare un risparmio della spesa pubblica, in considerazione di orientamenti giurisprudenziali che stavano riconoscendo tutela alle pretese economiche dei dipendenti nei confronti delle amministrazioni pubbliche di appartenenza”. Di qui la sua illegittimità costituzionale per violazione – tra l’altro – dei principi della certezza del diritto e dell’equo processo, di cui agli artt. 3, 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU.

La sentenza ribadisce e rafforza la costruzione di una “solida sinergia fra principi costituzionali interni e principi contenuti nella CEDU” e fra la Corte costituzionale e la Corte di Strasburgo, nell’ottica di un rapporto di “integrazione reciproca”.

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