Responsabilità

Contraffazione industriale, più facile la retroversione degli utili a favore del danneggiato

Il punto della Cassazione con le sentenze nn. 24635 e 21832 del 2021

di Anna Maria Stein *

Con due recenti decisioni la Corte di Cassazione ha chiarito l’interpretazione dell’art. 125, 2° e 3° comma, del Codice della Proprietà Industriale (CPI). L’art 125 CPI è la norma che si occupa del risarcimento del danno nell’ambito dei diritti di proprietà industriale. Si tratta di una norma rilevante e la sua interpretazione è stata oggetto di approfondita discussione in dottrina e giurisprudenza. L’art. 125 CPI così dispone:

1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall'autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione.
2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso.

3. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento.

Per quanto attiene alle regole di liquidazione del danno l’art. 125 CPI richiama i principi generali di cui all’art. 1223, 1226 e 1227 del Codice Civile e dunque le componenti del danno emergente e del lucro cessante o mancato guadagno del titolare del diritto violato. Quest’ultimo criterio ricomprende in sintesi: il decremento del fatturato del soggetto leso, la retroversione degli utili realizzati dal contraffattore e il c.d. giusto prezzo del consenso (la royalty che il contraffattore avrebbe corrisposto se avesse chiesto ed ottenuto una licenza o meglio la c.d reasonable royalty cioè una royalty giudiziale e non consensuale). L’interpretazione e l’applicazione di queste varie voci risarcitorie, anche in ragione della prova e del nesso causale tra fatto illecito e danno, sono state fonte di discussione in dottrina e giurisprudenza. 

La questione è di recente approdata avanti la Suprema Corte che con le due decisioni qui in commento ha analizzato ed approfondito diverse questioni interpretative ed applicative, fra cui due temi controversi in tema di prova del danno (con particolare riferimento al c.d. prezzo del consenso) e di elemento psicologico del contraffattore (elemento soggettivo doloso e colposo e responsabilità oggettiva per i casi buona fede del contraffattore) in relazione alla c.d. retroversione degli utili.

Con la decisione n.  24635 del 13 settembre 2021 la Suprema Corte ha affrontato la questione del c.d. prezzo del consenso che trova applicazione in assenza della domanda di retroversione degli utili del contraffattore e in assenza di prova di contrazione delle vendite del soggetto titolare diritto violato. La questione sottoposta alla Corte riguardava il quesito se l’art. 125. n. 2 CPI ponesse o meno una deroga ai principi generali della responsabilità risarcitoria in tema di illecito, attraverso una tecnica di semplificazione probatoria e imponendo così al soggetto leso di provare la violazione, ma di non dover provare le conseguenze economiche della violazione stessa (c.d danno in re ipsa).

La Corte ha così ribadito l’orientamento precedente sulla base del quale il giudice può liquidare il danno in una somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano e dunque anche solo sulla base di elementi indiziari offerti dal soggetto leso. Nel contempo la Corte ha precisato che la norma in esame non costituisce una deroga in senso stretto, ma consiste in una semplificazione della regola ordinaria sul risarcimento danni e del conseguente onere probatorio. Se da un lato dunque la prova del nesso causale resta inalterata, sotto il profilo prettamente risarcitorio l’onere probatorio non viene eliminato ma solo attenuato, richiedendo quantomeno la prova del danno attraverso indizi o presunzioni aprendo così ad una semplificazione probatoria. Nel caso oggetto della decisione era stato ritenuto insussistente il lucro cessante sulla base dei documenti in atti, con ciò precludendo ogni possibile soluzione probatoria anche solo presuntiva o indiziaria. Nel caso opposto, invece si sarebbe dato luogo ad una valutazione equitativa.

Con la seconda decisione n. 21832 del 29 luglio 2021 la Suprema Corte ha affrontato il tema relativo alla interpretazione dell’art. 125 n. 3 CPI, anche in relazione all’onere e alle allegazioni probatorie ai fini del risarcimento.

Il primo dei due principi enucleati dalla Corte dispone che il titolare del diritto leso ha la facoltà di chiedere in luogo del risarcimento del lucro cessante la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che rispetto agli utili realizzati dal contraffattore sia corrisposto un suo mancato guadagno. Dunque ai fini della valutazione della retroversione degli utili del contraffattore è possibile prescindere dalla prova, secondo le regole ordinarie, di aver subito un pregiudizio sotto forma di lucro cessante. Infatti l’art. 125 n. 3 prevede che “in ogni caso” il titolare del diritto leso possa chiedere, previa proposizione di specifica domanda, la restituzione degli utili realizzati dal contraffattore in alternativa al lucro cessante, qualora essi lo eccedano. La prima conclusione della Corte è che questa voce di danno può cumularsi con la voce relativa al danno emergente. La Corte analizza le varie posizioni di dottrina e giurisprudenza, considerando sia l’esigenza di impedire che il contraffattore tragga comunque profitti dalla violazione (arricchimento senza causa) e così avvicinandosi ad una funzione preventiva e dissuasiva dell’illecito stesso (funzione deterrente) e comunque osserva che non ammettere il cumulo consentirebbe al contraffattore di trarre profitto dall’illecito e porterebbe ad una sanzione meno severa della violazione dolosa o colposa, rispetto a quella inconsapevole.

Il secondo principio enucleato dalla Corte dispone che il titolare del diritto di privativa violato ha facoltà di chiedere in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante la restituzione degli utili del contraffattore senza che sia necessario allegare e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa e con dolo. Il tema affrontato è quello dell’atteggiamento psicologico dell’autore della violazione. Secondo le regole generali di diritto i requisiti necessari ai fini risarcitori sono il dolo o la colpa. Nell’ambito dei diritti di proprietà industriale in vigenza di un sistema di pubblicità legale dei diritti titolati vige anche una presunzione di colpa (ad esempio conoscenza della esistenza di un brevetto, di un marchio registrato, di un design/modello registrato). La Corte richiamando le fonti internazionali che hanno portato alla revisione del testo dell’art. 125 CPI (si vedano art. 45 degli accordi TRIPS e l’art. 13 della Direttiva c.d. Enforcement), ha così chiarito che anche nei casi violazione incolpevole che abbia comunque condotto ad un arricchimento dell’autore della violazione (che così ha goduto di profitti per cui non aveva diritto) attraverso una violazione oggettiva della privativa del terzo e con un vantaggio anti competitivo, debba essere riconosciuta la retroversione degli utili.

Sarà quindi interessante vedere l’applicazione nelle cause di merito dei principi esaminati.

* Avvocato in Milano – Eversheds Sutherland

 

 

 

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