La disciplina del lavoro dei soggetti apicali d'Azienda
Rapporto di lavoro subordinato e rapporto di amministrazione
la QUESTIONE
Come si qualifica il rapporto che lega Società e soggetti apicali? Quali sono i principali doveri e le connesse responsabilità posti in capo ai top manager di una società, siano essi dirigenti e/o consiglieri di amministrazione? Vi è compatibilità tra il rapporto di lavoro subordinato e quello di membro del C.d.a.? Come può reagire la società di fronte ad un inadempimento dei soggetti apicali dei principali obblighi di legge e di contratto?
Il rapporto che lega le società e i soggetti che rivestono posizioni apicali è caratterizzato da una spiccata valenza multiforme, che può di fatto tradursi nella concretizzazione casistica di un classico rapporto di lavoro subordinato (di natura dirigenziale) ex art. 2094 c.c., piuttosto che in un precipuo rapporto di amministrazione, con la possibilità, peraltro, di cumulo di tali rapporti in capo al medesimo soggetto, pur determinando, ognuno di essi, l'insorgenza di specifici obblighi e peculiarità di ampia portata.
Per l'art. 2094 c.c., è lavoratore subordinato «colui che si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro (…) alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore», con conseguente soggezione del dipendente al sostanziale potere gerarchico, di controllo, di direzione e disciplinare del datore di lavoro. E così, anche il dirigente è un lavoratore subordinato, ma il suo rapporto nei confronti del datore di lavoro si connota per un più marcato livello di autonomia e discrezionalità, sicché la eterodirezione ne risulta fortemente affievolita.
Il rapporto di amministrazione, invece, ha tutt'altre caratteristiche: per alcuni rappresenta un profilo di effettiva immedesimazione organica dell'amministratore nella carica ricoperta e, quindi, nella persona giuridica amministrata; per altri, invece, si connota per l'accostamento alla più classica collaborazione autonoma, svolta senza vincoli di subordinazione da parte dello stesso amministratore a favore della società.
Chiarezza, al riguardo, è stata fatta dall'intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno qualificato il rapporto di amministrazione come «un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell'immedesimazione organica che si verifica tra persona fisica ed ente e dell'assenza del requisito della coordinazione, non è compreso tra quelli previsti dall'art. 409 c.p.c., n.3 (…)» (Cass. civile sez. un. 20 gennaio 2017, n. 1545, Cass. 9 gennaio 2019, n. 285).
Sulla base di tale pronuncia, taluni autori hanno concluso che, data la immedesimazione organica, i rapporti tra la società e l'amministratore non possano essere disciplinati mediante un cd. contratto di amministrazione, ma debbano essere regolati unicamente mediante le delibere dei competenti organi della società. Secondo altri commentatori, invece, sarebbe sempre ammissibile la regolamentazione pattizia del rapporto con l'amministratore.
La giurisprudenza ha chiarito che anche se «la fonte dell'obbligazione non è ascrivibile ad un contratto o ad un negozio di amministrazione, in ogni caso si configura, nell'instaurazione di tale rapporto, una relazione obbligatoria interna tra amministratore e società, che non può ritenersi annullata o appiattita dal rapporto di immedesimazione organica» precisando che «l'amministratore, in questo quadro, è tenuto al rispetto dei propri doveri in conformità allo statuto e alla legge. La società, per il suo verso, deve, salvo che sia diversamente pattuito, corrispondere il compenso per il ruolo ricoperto e l'attività prestata, che deve essere correttamente remunerata» (Corte Appello Milano 18 luglio 2017, n. 3375).
La Suprema Corte di Cassazione, inoltre, ha ribadito che l'attività di amministratore ben può essere svolta gratuitamente (vedasi Cass. 9 gennaio 2019, n. 285) chiarendo che, data l'immedesimazione organica, al rapporto «non si applicano né l'art. 36 Cost. né l'art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c..» con la conseguenza che «è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni».
Compatibilità tra rapporto di lavoro subordinato e membro del C.d.a.
Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, avvallato anche dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in linea di principio, le qualità di lavoratore dipendente e di membro del consiglio di amministrazione della medesima società, anche se investito di speciali incarichi, non sono incompatibili.
Tuttavia, soprattutto con riferimento agli amministratori esecutivi, si pone il problema di verificare la effettiva coesistenza e la "genuinità" dei diversi rapporti in capo ai medesimi soggetti, dovendosi procedere ad un'attenta analisi da condurre sulla base di un'indagine puntuale, da eseguire caso per caso ed in concreto.
Tale indagine avrà a oggetto, anzitutto, l'effettiva sussistenza, nella medesima unità di tempo, di due distinti rapporti, con due distinti oggetti, posto che la stessa attività, invero, non può formare oggetto al contempo di due contrapposti rapporti di diversa natura, bensì occorre che ciascun rapporto abbia ad oggetto due prestazioni ontologicamente distinte.
Talune attività dovranno, quindi, essere riconducibili in via esclusiva al rapporto di lavoro subordinato e non anche alla carica di amministratore, che deve avere a oggetto altra e distinta attività; inoltre, occorrerà verificare la effettiva sussistenza, in ciascuno dei rapporti, di tutti i requisiti sia di forma sia di sostanza, propri della relativa fattispecie e disciplina.
Soprattutto con riferimento ai soggetti che rivestano posizioni apicali, infatti, sarà particolarmente rilevante verificare che il rapporto di lavoro subordinato sia effettivamente svolto in regime di subordinazione, ossia mediante la sottoposizione del dipendente, in concreto, all'effettivo potere gerarchico, di controllo, di direzione e disciplinare (c.d. eterodirezione) (ex multis, Cass. 13 marzo 2018, n. 6095, Cass. 30 settembre 2016, n. 19596, Cass. 14 gennaio 2000, n. 381).
Infatti, qualora la natura e l'ampiezza dei poteri conferiti all'amministratore siano tali da pregiudicarne l'effettiva subordinazione, dovrà escludersi la configurazione di un rapporto di lavoro subordinato, anche considerando che la prova della subordinazione deve essere tanto più rigorosa quanto più sia elevato l'incarico nell'ambito del consiglio di amministrazione, ovvero quanto più sia elevata la funzione dirigenziale affidata all'interessato.
Obblighi derivanti dal rapporto di lavoro subordinato
Ogni dipendente, dirigenti inclusi, è anzitutto tenuto al rispetto dell'obbligo di diligenza.
Ai sensi dell'art. 2104 c.c., infatti, ciascun dipendente deve «usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta e dall'interesse dell'impresa» (il c.d. obbligo di diligenza in senso tecnico).
Rientra in tale obbligo il dovere di eseguire la prestazione lavorativa anche in assenza di specifiche direttive del datore di lavoro, secondo la particolare natura di essa, e di porre in essere tutti quei comportamenti accessori che si rendano necessari ai fini di un'utile prestazione (Cass. 17 giugno 2011, n. 13425).
Senonché, proprio con riferimento ai soggetti che rivestono posizioni apicali all'interno della società, l'obbligo di diligenza «diventa più intenso man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente» (Cass. 26 ottobre 2001, n. 13329), non dimenticandosi come la valutazione circa il rispetto, o meno, dell'obbligo di diligenza da parte dei soggetti posti ai vertici della società possa essere fatta anche alla luce del disvalore ambientale che la loro condotta assume, poiché, considerata la loro particolare posizione professionale, essa può assurgere a modello diseducativo e disincentivante dal rispetto di detto obbligo per gli altri dipendenti dell'impresa (Cass. 4 dicembre 2002, n. 17208, Cass. 6 giugno 2014, n. 12806, Cass. 5 gennaio 2015, n. 1313, Cass. 5 aprile 2017, n. 8819).
In giurisprudenza, si è ritenuta sussistente la violazione dell'obbligo di diligenza, ad esempio: nel caso di un dirigente di banca che abbia consentito alla clientela la formazione di un'esposizione debitoria anomala, facendo assumere alla banca stessa rischi eccedenti l'ordinata e corrente gestione dei rapporti di mutuo (Cass. 12 gennaio 2009, n. 394).
Ovvero il caso di un dirigente di banca il quale abbia compiuto rischiose operazioni finanziarie, con comportamenti contrastanti con la legge e con i valori comunemente accettati in quanto connessi ai doveri fondamentali del lavoratore e agli interessi dell'impresa, soprattutto considerato il suo ruolo elevato (Cass. 12 dicembre 2012, n. 22798).
Ovvero ancora il caso di un vicedirettore di filiale che abbia omesso di avvisare il datore di lavoro delle gravi irregolarità commesse dall'immediato superiore (Cass. 8 giugno 2001, n. 7819), così come il caso di un direttore generale che abbia omesso di verificare e controllare i pagamenti effettuati dalla società ed i costi sostenuti dalla stessa per l'organizzazione di manifestazioni sportive - attività a cui lo stesso era preposto (Trib. Milano 15 gennaio 2015, n. 3463).
Viene poi in rilevo il c.d. obbligo di obbedienza, sancito dal 2 comma dell'articolo 2104 c.c., per cui il prestatore di lavoro (e quindi anche il dirigente) deve altresì osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente dipende.
Occorre, tuttavia, evidenziare sin da subito, come tale obbligo non vada rispettato in modo assoluto ed incondizionato, poiché esso incontra pur sempre il limite della liceità, in quanto «il lavoratore può e deve rifiutare l'obbedienza agli ordini del datore di lavoro quando questi siano illeciti e anzi, in caso di mancato rifiuto, il lavoratore è responsabile per l'esecuzione acritica dell'ordine illegittimo» (Cass. 29 ottobre 2013, n. 24334).
Il dipendente, dunque, e in particolare il dirigente, ha il dovere di valutare il merito delle disposizioni ricevute prima di darvi esecuzione, verificandone la coerenza con il sistema normativo, tanto che, in presenza di ordini illeciti impartiti da un superiore, ha il dovere di astenersi dall'eseguirli.
All'obbligo di diligenza e di obbedienza si affianca, poi, anche l'obbligo di fedeltà, ossia quello di non «trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l'imprenditore» (art. 2105 c.c.) e, più in generale, di tenere «un leale comportamento nei confronti del datore di lavoro che va collegato con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.» (Cass. 19 aprile 2006, n. 9056).
Anche con riferimento a questo obbligo, peraltro, la giurisprudenza ha statuito che esso «diventa più intenso man mano che si sale nella gerarchia del personale dipendente» (Cass. 1 ° giugno 1988, n. 3719).
Ed invero, con riferimento a soggetti rivestenti posizioni apicali, si è ritenuta sussistente la violazione dell'obbligo di fedeltà, ad esempio: nel caso della prestazione di attività di consulenza in favore di altra società concorrente (Cass. 19 settembre 2011, n. 19074); o nel caso della mera preordinazione di un'attività contraria agli interessi del datore di lavoro anche solo potenzialmente produttiva di danno (Cass. 1 ° febbraio 2008, n. 2474); o nel caso della costituzione di una società per lo svolgimento della medesima attività svolta dal datore di lavoro (Cass. 18 luglio 2006, n. 16377); o nel caso del dirigente che svolga attività preparatoria di una futura impresa concorrente che si concreti in atti, sia pure iniziali, di gestione (Cass. 15 dicembre 2003, n. 19132); o nel caso del dirigente che intratteneva rapporti di tipo commerciale con una società che vedeva come direttore commerciale il proprio cognato (Cass. 31 ottobre 2016, n. 21978).
Resta fermo che ciascun lavoratore dipendente (ed a maggior ragione un dirigente) deve, in ogni caso, comportarsi diligentemente e secondo lealtà, correttezza e buona fede nei confronti del datore di lavoro, astenendosi da tutti quei comportamenti che «per la loro natura e per le possibili conseguenze, risultino in contrasto con i doveri connessi all'inserimento del lavoratore nella struttura e nell'organizzazione dell'impresa o creino situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell'impresa stessa o siano, comunque, idonei a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto di lavoro» (Cass. 1° febbraio 2008, n. 2474), Cass. 17 gennaio 2017, n. 996).
Responsabilità del dirigente in caso di inadempimento e recesso datoriale
In caso di inadempimento da parte del dirigente degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro, il datore di lavoro potrà scegliere di reagire sul piano disciplinare e/o sul piano risarcitorio (ex multis Cass. 12 gennaio 2009, n. 394).
Particolare rilevanza assume, in tale ottica, il profilo del recesso datoriale nel rapporto di lavoro dirigenziale, distinguendosi tale forma da quella dettata dal legislatore con rifermento agli altri rapporti di lavoro.
Nel nostro ordinamento, invero, la disciplina sancita dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, impone l'obbligo di motivazione datoriale in caso di licenziamento dei propri dipendenti, tanto da operare una generale distinzione tra le stesse tipologie di risoluzioni, tipizzate, per l'appunto, sulla base della differente motivazione posta a fondamento delle stesse, con creazione delle ipotesi alternative di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, licenziamento per giustificato motivo soggettivo, licenziamento per giusta causa.
Il recesso datoriale dal rapporto di lavoro dirigenziale, invece, si caratterizza per l'operatività della recedibilità c.d. ad nutum, ovvero non gravata dall'obbligo di motivazione, giustificandosi tale scelta di politica legislativa, in ragione della peculiarità della figura dirigenziale rispetto a tutti gli altri lavoratori subordinati.
L'intensità del vincolo fiduciario che lega i dirigenti apicali al datore di lavoro, invero, si traduce nella costruzione di un vero e proprio rapporto di vicinanza quasi sostitutiva del vertice aziendale, la cui valutazione così stringente, siccome dipendente da una serie di fattori di difficile ponderabilità esogena, ne giustifica l'attribuzione di una sfera di libertà decisionale di natura prettamente imprenditoriale, che ne determina la sottrazione a qualsiasi obbligazione giustificatoria delle ragioni del recesso dal rapporto di lavoro dirigenziale.
Nondimeno la lesione del particolare vincolo fiduciario tra il datore di lavoro e il dirigente può rivestire vari gradi di intensità, tanto da far emergere, in tale ambito operativo, una distinzione fondamentale e foriere di conseguenze tutt'altro che irrilevanti tra giustificatezza e giusta causa del licenziamento.
Giusta causa
Come è noto, per giusta causa di licenziamento, ai sensi dell'art. 2119 c.c., si intende quella causa così grave da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro e, come tale, idonea a consentire l'immediata cessazione della vicenda lavorativa tra le parti, senza oneri ulteriori per il datore di lavoro rispetto al pagamento delle competenze e spettanze di fine rapporto.
La giurisprudenza identifica la giusta causa con la «grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro» e, in particolare, del vincolo fiduciario (Cass. 26 aprile 2012, n. 6498, Cass. 25 marzo 2016, n. 6015, da ultimo, Cass. 31 ottobre 2018, n. 27971), fermo restando che la perdita di fiducia del datore di lavoro non può collegarsi ad un apprezzamento meramente soggettivo, poiché il licenziamento deve essere «motivatamente determinato dal fatto addebitato ai dipendenti e dimostrato nella sua esistenza» (Cass. 26 giugno 1984, n. 3744).
La valutazione della gravità del comportamento del lavoratore, invero, deve essere condotta in concreto, con specifico riferimento «alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente» nonché «anche nella sua portata soggettiva, e, quindi, con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è stato posto in essere, ai modi, agli effetti e all'intensità dell'elemento volitivo dell'agente» (Cass. 23 febbraio 2012, n. 2720).
Inoltre, nella valutazione della condotta, si deve effettuare un giudizio prognostico circa i futuri adempimenti, posto che, ai fini dell'accertamento del licenziamento per giusta causa, ciò che rileva, infatti, «è la ripercussione sul rapporto di una condotta suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto agli obblighi assunti» (Cass. 19 agosto 2004, n. 16291, Cass. 5 aprile 2017 n. 8816).
Con riferimento alle figure dirigenziali, il particolare «investimento di fiducia fatto dal datore di lavoro con l'attribuzione al dirigente di compiti di volta in volta strategici o comunque di impulso, direzione e di orientamento» comporta «l'esigenza di tenere conto della maggiore gravità delle conseguenze» quando tale fiducia sia tradita (Cass. 11 giugno 2008, n. 15496, Cass. 28 maggio 2015, n. 11067, Trib. Milano 3 febbraio 2017).
Alla luce di tali principi, secondo la giurisprudenza, integra una giusta causa di licenziamento, ad esempio:
il dirigente che non abbia segnalato ai vertici aziendali l'esistenza di attività irregolari (Cass. 7 dicembre 2012, n. 22221);
o il dirigente di banca che abbia compiuto rischiose operazioni finanziarie ponendo in essere «comportamenti contrastanti con la legge e con i valori comunemente accettati in quanto connessi ai doveri fondamentali del lavoratore e agli interessi dell'impresa», con «grave violazione del dovere fondamentale di svolgere la propria attività con diligenza, buona fede e correttezza», soprattutto considerato «l'elevato ruolo e inquadramento» del dirigente (Cass. 12 dicembre 2012, n. 22798);
o il responsabile di una filiale di banca, il quale abbia compiuto operazioni sul mercato finanziario senza copertura, utilizzato irregolarmente il conto di alcuni clienti al fine di favorirli, aumentato i fidi in assenza di adeguate garanzie e, più in generale, violato il regolamento Consob (Cass. 31 gennaio 2012, n. 1403);
o il dirigente di una banca in liquidazione che abbia compiuto diverse operazioni di gestione del credito senza l'autorizzazione del commissario (Cass. 1 ° giugno 2005, n. 11674);
o il CFO il quale abbia fornito una errata stima dell'indebitamento, e che abbia omesso di stimare le imposte ed effettuare il relativo accantonamento per il pagamento, e che abbia omesso di pagare alcune fatture di un fornitore strategico (Tribunale di Milano 10 marzo 2011, n. 702);
o il dirigente avente funzioni di carattere strategico al quale siano addebitate una serie di operazioni fraudolente, tra cui la mancata vigilanza su anomalie operative, procedurali e organizzative, fonte di rilevante pregiudizio economico per il datore di lavoro (Tribunale di Genova 14 ottobre 2010);
o il Direttore generale il quale abbia ottenuto risultati di gestione negativi che hanno inciso negativamente sull'affidamento fiduciario riposto dal datore di lavoro, in considerazione, anche, dell'apicalità delle mansioni e l'ampiezza delle deleghe (Tribunale di Milano 9 settembre 2010);
o il direttore generale che abbia falsificato i dati di bilancio e presentato un bilancio falso al Consiglio di Amministrazione per l'approvazione poi effettivamente avvenuta (Tribunale di Bologna 11 novembre 2014, n. 826);
o il dirigente apicale che abbia fatto un uso distorto della viacard e del telepass, presentando, per il rimborso, note spese non dovute inframmezzate da altre regolari, così integrando una condotta contrastante «con i doveri basilari del lavoratore» (Cass. 31 ottobre 2018, n. 27971).
Solo la giusta causa legittima il c.d. licenziamento in tronco, senza obbligo di preavviso a carico del datore di lavoro, in quanto "la giusta causa, che esonera il datore di lavoro dall'obbligo di concedere il preavviso o di pagare l'indennità sostitutiva, non coincide con la giustificatezza, che esonera il datore di lavoro soltanto dall'obbligo di pagare l'indennità supplementare prevista dalla contrattazione collettiva, in quanto la giusta causa consiste in un fatto che, valutato in concreto, determina una tale lesione del rapporto fiduciario da non consentire neppure la prosecuzione temporanea del rapporto" (ex multis Cass. n. 6110 del 17.3.2014, Cass. n. 34736 del 30.12.2019).
Giustificatezza
Ed infatti, il licenziamento che non trovi, invece, la propria origine in circostanze così gravi da costituire una giusta causa ex art. 2119 c.c., deve essere intimato nel rispetto del preavviso, nella misura prevista dalla contrattazione collettiva.
Ove tale licenziamento risulti "giustificato", il datore di lavoro non ha oneri risarcitori; in caso contrario, invece, egli soggiace all'obbligo di corrispondere al dirigente ingiustamente licenziato, ferma la validità del licenziamento, anche la c.d. indennità supplementare previste dalla contrattazione collettiva.
Va però tenuto ben presente come la nozione di "giustificatezza" non coincida con le nozioni legali di "giustificato motivo oggettivo" o "soggettivo", individuate per i lavoratori non dirigenti dalla legge 15 luglio 1966, n. 604.
Si è osservato che «poiché il lavoro del dirigente è fondato sul legame di fiducia con il datore, la giustificatezza è in ogni fatto che sia idoneo a turbare questa fiducia» (ex multis, Cass. 15 marzo 2018, n. 6426, Cass. 11 marzo 2013, n. 5962, Cass., Sez. Un., 30 marzo 2007, n. 7880), posto che, in tale ambito, «componente della fiducia è anche l'ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente (dato che maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità di fiducia; da ciò, il più ampio spazio aperto ai fatti idonei a scuoterla)» (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322).
La giustificatezza è, quindi, un concetto più ampio, che abbraccia ogni ipotesi in cui sussistano «valide ragioni di cessazione del rapporto lavorativo, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede, sicché non giustificato è il licenziamento per ragioni meramente pretestuose, al limite della discriminazione, ovvero anche del tutto irrispettose delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell'esercizio del diritto» (vedi, Cass. 31 ottobre 2018, n. 27971, Cass. 19 settembre 2011, n. 19074, Cass. 7 agosto 2004, n. 15322).
Si noti, poi, che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull'immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e quindi giustificarne il licenziamento (Cass. 11 marzo 2013, n. 5962, Trib. Genova 8 marzo 2018, Tribunale di Milano 3 febbraio 2017).
Diversamente, la mera «volontà datoriale di estromettere il lavoratore dal vertice della struttura e di sostituirlo con un uomo di sua fiducia» costituisce un «motivo che non è idoneo a integrare gli estremi della "giustificatezza" del licenziamento del dirigente» (Cass. 17 febbraio 2015, n. 3121).
E così, ad esempio, la giurisprudenza ha ritenuto sorretto da giustificatezza:
il licenziamento del dirigente che aveva omesso di controllare l'ufficio amministrativo da lui dipendente, per ottenere, all'occorrenza, dati contabili certi e precisi, sulla base dei quali predisporre un progetto di bilancio attendibile e tempestivo e per non aver fatto sì che gli uffici da lui dipendenti fossero efficienti e in grado di approntare la documentazione necessaria (Cass. 7 agosto 2004, n. 15322);
o il licenziamento del dirigente che aveva inserito tra i fornitori una società alla quale erano stati riconosciuti compensi più alti di quelli attribuiti ad altri fornitori, traendone un vantaggio personale senza autorizzazione dei vertici aziendali (Tribunale di Milano 5 dicembre 2008, n. 5126);
o il licenziamento del dirigente il quale aveva organizzato la produzione interna di una macchina che la società aveva fino a quel momento commercializzato, acquistandola da altra società, esorbitando dalla propria area di competenza, imponendo un obiettivo non concordato con l'amministratore della società, in contrasto con le scelte aziendali (Tribunale di Milano 8 gennaio 2001);
o il licenziamento del dirigente che aveva assunto tre dipendenti, esorbitando dai limiti dei suoi poteri, anche se successivamente il datore di lavoro ne aveva ratificato l'operato (Cass. 28 maggio 1982, n. 3296);
o il licenziamento del dirigente, che, in nome e per conto della società datrice di lavoro, aveva sottoscritto una modifica di patti contrattuali, rivelatasi poi eccessivamente onerosa per l'azienda (Tribunale di Milano 19 aprile 1997).
Azione risarcitoria
Quanto all'azione risarcitoria eventualmente esperibile nei confronti del dirigente, essa ha natura contrattuale e deve essere instaurata dinanzi al giudice del lavoro.
Tale azione è soggetta al termine di prescrizione di dieci anni e, secondo i principi generali, presuppone la prova, da parte del datore di lavoro, della violazione dei doveri del dirigente, del danno subito dal datore di lavoro (sia il c.d. danno emergente, sia il c.d. lucro cessante) nonché del nesso di causalità.
Doveri degli amministratori
Non vi è nell'ordinamento un preciso elenco di sintesi di tutti i doveri che gravano sugli amministratori, essendo gli stessi estremamente numerosi e rimessi alla previsione di vari fonti giuridiche, che spaziano dal codice civile alle varie leggi speciali.
Se proprio si volesse tentare una macro-divaricazione di sistema, potremmo distinguere gli obblighi che hanno un contenuto specifico, determinato dalla legge o dallo statuto, dagli obblighi a carattere generale (come quello di amministrare con diligenza), ovvero ancora tra gli obblighi incombenti solo sui consiglieri c.d. esecutivi e quelli incombenti sugli organi non delegati.
Indubbiamente, tuttavia, tra i doveri degli amministratori riveste centrale rilievo l'obbligo di perseguire fedelmente l'interesse della società, posto che l'amministratore di società, quale soggetto incaricato della gestione di interessi altrui, riveste un compito con forti connotazioni fiduciarie, «sicché ogni sua azione o omissione che sia invece diretta a realizzare un interesse diverso, e in contrasto con quello, si configura immancabilmente come violazione del dovere di fedeltà immanente alla carica: potenzialmente generatore di responsabilità civile» (Cass. 24 agosto 2004, n. 16707, Trib. Roma, 28 settembre 2015, n. 19198).
Merita poi particolare menzione il dovere di amministrare la società «con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze» (art. 2392 c.c.), considerando in tal guisa la "diligenza" alla stregua di una "modalità" comportamentale dell'amministratore, il cui contenuto effettivo è determinabile solo con riferimento alle circostanze del caso concreto.
Sarà, allora, il Giudice a dover apprezzare, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, se il comportamento dell'amministratore possa essere qualificato come diligente, con la conseguenza che tale dovere potrà dirsi violato qualora gli amministratori, nel caso concreto, abbiano agito senza « quelle cautele », « quelle verifiche » e « quelle informazioni preventive » che « il dovere di diligente gestione ragionevolmente impone, secondo il metro della normale professionalità », o se non abbiano rispettato le regole previste dalle procedure che la società si è data al fine di « assicurare il corretto e ordinato svolgimento delle attività aziendali » (Cass. 24 agosto 2004, n. 16707).
Ed ancora, tra i principali doveri incombenti su tutti gli amministratori si deve richiamare anche quello previsto dal comma 6 dell'art. 2381 c.c., ovverosia l'impegno di agire «in modo informato», nonché l'obbligo di trasparenza ex art. 2391 c.c., in virtù del quale si pone, in capo agli amministratori, un obbligo di informativa volta «dare notizia agli altri amministratori e al collegio sindacale di ogni interesse che, per conto proprio o di terzi, abbia in una determinata operazione della società, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata».
Con riferimento, poi, all'amministratore delegato, viene in rilievo anche l'obbligo di astensione per evitare conflitti di interesse ed indirizzamento improprio di determinate decisioni, mentre per gli amministratori esecutivi vige il dovere, ex art. 2381, comma 5, c.c., di curare che «l'assetto organizzativo, amministrativo e contabile sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell'impresa», dovendo a tal fine gli organi delegati curare e porre in essere un'efficiente organizzazione dell'impresa, sotto il profilo del controllo di gestione, della verifica del sistema amministrativo e contabile, dell'organizzazione dei corretti flussi informativi interni alla società.
Rileva, in tal senso, anche il dovere di riferire «al consiglio di amministrazione e al collegio sindacale» sulle «operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche» (art. 2381 c.c.), che non sono solo quelle di maggiore rilievo economico ma anche quelle che, seppure di valore economico più modesto, sono anomale rispetto alla normale attività sociale, o sono in potenziale conflitto, o devono concludersi con "parti correlate".
Responsabilità degli amministratori
Ai sensi dell'art. 2392 c.c., «gli amministratori devono adempiere i doveri a essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze. Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall'inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di (…) di funzioni in concreto attribuite a uno o più amministratori».
Peraltro, la legge non impone agli amministratori un obbligo di gestire la società senza commettere errori, posto che gli stessi non potrebbero essere ritenuti responsabili di eventuali scelte gestionali «infelici» o «erronee» che abbiano causato danni alla società (la c.d. Business Judgement Rule).
Il giudice, infatti, non può sindacare il merito delle scelte gestorie dell'amministratore, ma nondimeno potrà sindacare, da una parte, il modo con cui la scelta è stata assunta, valutando la diligenza mostrata dall'amministratore nell'apprezzare preventivamente, ed eventualmente con adeguata istruttoria, i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, così da non esporre l'impresa a perdite, altrimenti prevenibili (Cass. 12 agosto 2009, n. 18231); e, dall'altra, le ragioni per cui la scelta compiuta è stata preferita ad altre, non bastando che l'amministratore abbia assunto le necessarie informazioni ed abbia eseguito tutte le verifiche del caso, ma essendo altresì necessario che le informazioni e le verifiche così assunte abbiano indotto l'amministratore ad una decisione razionalmente coerente con esse (Trib. Roma, 28 settembre 2015, n. 19198).
La società, in caso di inadempimento da parte dei propri amministratori, potrà reagire intentando, previa deliberazione assembleare, un'azione di responsabilità, che presuppone la violazione di doveri imposti dalla legge o dallo statuto, nonché la prova che tale violazione abbia direttamente cagionato un danno al patrimonio sociale.
Nello stesso tempo, un grave inadempimento ai propri doveri da parte dell'amministratore può anche costituire una giusta causa di revoca della sua carica.
A tal proposito, va ricordato che l'assemblea può deliberare la revoca degli amministratori in qualunque momento, anche senza che ve ne sia una causa, determinando un recesso in tronco (che rompe anche l'eventuale rapporto di delega).
La giusta causa, infatti, non costituisce una condizione di efficacia dell'atto ma, laddove la revoca avvenga senza giusta causa, l'amministratore revocato avrà diritto al risarcimento del danno, ex art. 2383, comma 3, c.c. (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037).
Ecco allora che il vero nodo gordiano si sposta sulla individuazione della giusta causa, quale condotta dell'amministratore di gravità tale da ledere il carattere fiduciario del relativo rapporto e, dunque, tale da pregiudicare l'affidamento dei soci nelle attitudini e capacità dell'amministratore stesso, in quanto « proprio l'ampiezza dei poteri attribuiti all'organo amministrativo presuppone, invero, un'alta intensità di tale fiducia: onde giocoforza è "più ampio lo spazio aperto ai fatti idonei a scuoterla (…)"» (Cass. 26 gennaio 2018, n. 2037).
A titolo esemplificativo, la giurisprudenza ha considerato giusta causa di revoca dell'amministratore:
la violazione dell'obbligo di vigilanza sulla gestione sociale (Cass. 14 maggio 2012, n. 7425);
o una situazione sopravvenuta che mina il pactum fiduciae, elidendo l'affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell'organo di gestione, e tale da far venir meno quei requisiti di avvedutezza, capacità e diligenza di tipo professionale (Cass. 5 agosto 2005, n. 16526; Cass. 7 agosto 2004, n. 15322);
o l'inerzia rispetto a direttive note, essenziali al proficuo ed efficace svolgimento del ruolo di direzione unitaria da parte della capogruppo (Tribunale di Firenze 15 febbraio 2005).
Considerazioni conclusive
Il ruolo apicale attribuito a un manager, sia esso dirigente piuttosto che amministratore, determina certamente l'attribuzione di maggiori poteri ma, nello stesso tempo e inevitabilmente, anche l'amplificazione dei suoi obblighi e quindi delle connesse responsabilità.
Ciò vale tanto con riferimento al rapporto di lavoro, quanto con riferimento al rapporto di amministrazione, considerato che la particolare posizione rivestita da chi è al vertice della organizzazione aziendale si riflette infatti in una accentuata personalizzazione del rapporto, per cui assume importanza primaria il legame fiduciario tra la società e il manager a cui sono stati attribuiti compiti strategici, d'impulso e di direzione.
L'intensificazione del vincolo fiduciario comporta, dunque, anche l'ampliamento dell'ambito dei fatti potenzialmente idonei a scuoterlo, in una ineludibile operazione di costante bilanciamento degli interessi in gioco, che parta dalla primaria chiave di lettura individuata nella modalità di estrinsecazione della prestazione, in relazione alla fiduciarietà concessa ed alla caratterizzazione del ruolo apicale.
L'ordinamento nostrano, infatti, riconosce e tutela a livello costituzionale la libera iniziativa economica e, quindi, l'importanza della libertà delle scelte imprenditoriali a carattere strategico, tanto da limitare in tal senso lo stesso sindacato giudiziale, che, proprio in ambito valutativo della concreta gestione dei rapporti apicali a carattere endosocietario, non può sconfinare nel merito delle scelte gestorie del datore di lavoro, ma rimane inevitabilmente ancorato al mero dato valutativo della concreta modalità di assunzione delle stesse, rispetto alle condotte realizzate.