Casi pratici

Disciplina del licenziamento per scarso rendimento

Licenziamento per scarso rendimento: inquadramento giuridico

di Paolo Patrizio

la QUESTIONE
È possibile licenziare legittimamente un lavoratore per scarso rendimento? Qual è la natura di tale tipologia di licenziamento? Come si articola il riparto dell'onere probatorio in materia?


Nel nostro lessico quotidiano il termine "rendimento" richiama alla mente un quoziente di misurazione di varia natura, solitamente connesso al rapporto di assolvimento della funzione, compito od obiettivo propri del valore di riferimento.
Ciò accade anche in ambito laburistico, ove il concetto di rendimento viene ancorato al risultato dell'attività svolta dal lavoratore in un determinato arco temporale, essendo il prestatore tenuto a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie ed a svolgere, nei tempi e nei modi stabiliti, la prestazione lavorativa richiesta secondo le disposizioni impartitegli, agendo, ai sensi dell'art. 2104 c.c., con la diligenza richiesta «dalla natura della prestazione dovuta», ovvero con una diligenza c.d. qualificata, e non con quella media del buon padre di famiglia ex art. 1176 c.c.
Ecco allora che, in ipotesi di rilevata sussistenza di una evidente negligenza prestazionale, in uno alla elevata sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione e quanto effettivamente realizzato da un determinato lavoratore nel periodo di riferimento, è possibile per il datore far ricorso allo strumento del licenziamento per scarso rendimento, quale ipotesi di recesso per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. cod. civ.
In assenza di una specifica disposizione normativa di riferimento, invero, l'ancoraggio regolativo della materia viene operato in relazione al disposto dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per cui «il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro (cd. "licenziamento per giustificato motivo soggettivo") ovvero da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» (cd. licenziamento per giustificato motivo oggettivo).
Senonché, negli anni, si è sviluppato un dibattito a carattere dottrinale e giurisprudenziale con riferimento alla riconducibilità della fattispecie del licenziamento per scarso rendimento nell'alveo del giustificato motivo soggettivo piuttosto che di quello oggettivo, con le relative interpretazioni ed enunciazioni motivazionali poste a sostegno della divaricazione collocativa.
La giurisprudenza della Suprema Corte è tendenzialmente orientata nel senso di riconoscere allo scarso rendimento una valenza di carattere eminentemente soggettivo, in quanto indice di una prestazione inadeguata, in termini quantitativi e qualitativi, sotto il profilo del diligente adempimento degli obblighi discendenti dal contratto di lavoro.
Non mancano, tuttavia, alcune pronunce che, a determinate condizioni, riconducono il licenziamento per scarso rendimento nell'ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non ritenendo, quindi, necessario l'accertamento di una specifica responsabilità del lavoratore.
Vediamone, in sintesi, le principali direttrici orientative.

Licenziamento per scarso rendimento come licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Si è soliti qualificare l'obbligazione cui è tenuto il lavoratore subordinato come obbligazione di mezzi e non di risultato.
Il lavoratore, infatti, non si obbliga a garantire al datore di lavoro un determinato risultato utile, ma è tenuto a "mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie" svolgendo, nei tempi e nei modi stabiliti, la prestazione lavorativa richiesta secondo le disposizioni da quest'ultimo impartitegli.
Come abbiamo visto, però, il lavoratore, ai sensi dell'art. 2104 c.c., deve agire con la diligenza richiesta «dalla natura della prestazione dovuta», non venendo pertanto in rilievo la diligenza generica del buon padre di famiglia, quanto piuttosto una diligenza qualificata, tipica della attività posta in essere.
La Suprema Corte, invero, ha in più occasioni sottolineato come «il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra ex se l'inesatto adempimento (…) dato che, nonostante la previsione di minimi quantitativi, il lavoratore è obbligato ad un facere e non ad un risultato e l'inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o, comunque a fattori non dipendenti dal lavoratore» (Cass. 22 novembre 2016, n. 23735; Cass. 23 marzo 2017, n. 7522).
Lo scarso rendimento, dunque, rileva nell'ambito del licenziamento per motivo soggettivo solo se frutto del negligente inadempimento degli obblighi contrattuali gravanti sul lavoratore, senza alcuna ascrivibilità a circostanze inerenti all'organizzazione del lavoro o ad altri fattori non riferibili al lavoratore.
Ma ciò non è sufficiente.
Deve, invero, emergere anche la compresenza di un elemento a carattere oggettivo, ovvero l'esistenza di una notevole sproporzione tra i risultati conseguiti e gli obiettivi assegnati, in relazione al parametro concreto del rendimento medio degli altri dipendenti in analoghe funzioni e mansioni.
Ecco, allora, che i principali indici sintomatici dell'esistenza di una ipotesi di scarso rendimento lavorativo possono essere ricondotti: a) alla significativa inadeguatezza della prestazione resa dal lavoratore e dei relativi risultati di molto inferiori rispetto alla media delle prestazioni rese dai lavoratori con la stessa qualifica e le stesse mansioni, indipendentemente dagli obiettivi minimi fissati; b) alla chiara imputabilità dello scostamento all'esclusiva negligenza del lavoratore, con esclusione di qualsivoglia riconducibilità a fattori organizzativi o socio-ambientali dell'impresa stessa; c) alla notevole persistenza della condotta negligente del lavoratore per un determinato arco temporale e non in relazione ad un singolo episodio (o a sporadici casi).
Tutte circostanze che costituiscono il sintomo di una mancanza di impegno e di una progressiva disaffezione al lavoro.

Il riparto dell'onere probatorio
Nel licenziamento per scarso rendimento del lavoratore, rientrante nella tipologia disciplinare in considerazione della sussistenza del giustificato motivo soggettivo, l'onere della prova ricade sul datore di lavoro, il quale non potrà limitarsi a dimostrare solo il mancato raggiungimento del risultato atteso o l'oggettiva sua esigibilità, ma dovrà anche provare che la causa di esso derivi da colpevole negligente inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore nell'espletamento della sua normale prestazione.
Non potranno, dunque, essere espressi giudizi soggettivi e/o valutazioni generiche di scarsa dedizione o impegno del lavoratore nello svolgimento della propria prestazione lavorativa, ma dovrà essere fornita la scrupolosa prova di una evidente ed imputabile violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto con i dati globali riferiti ad una media di attività tra i vari dipendenti in relazione a determinati tempi di produzione.
Si tratta quindi di un accertamento di fatto complesso, alla cui valutazione deve concorrere anche l'apprezzamento degli aspetti concreti del fatto addebitato, tra cui il grado di diligenza richiesto dalla prestazione e quello usato dal lavoratore, nonché l'incidenza dell'organizzazione d'impresa e dei fattori socio – ambientali (Corte di Cassazione, sentenza n. 1421 del 23.2.1996).
Il datore di lavoro dovrà, pertanto, produrre elementi quanto più oggettivi per provare in concreto la sussistenza dello scarso rendimento legittimante l'intimazione del licenziamento, considerando come, per espressa disposizione dell'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, l'inadempimento debba essere «notevole» e cioè in grado di far venire meno l'interesse del creditore alla prestazione.
Ad ogni modo, la giurisprudenza ammette che il datore di lavoro possa adempiere al proprio onere probatorio anche attraverso elementi presuntivi e indiziari, tenuto sempre conto che la prova circa la sussistenza dell'inadempimento costituisce una valutazione di fatto che sarà esaminata e vagliata dal giudice di merito (Cass. 3 maggio 2003, n. 6747).
Ed allora, analizzando la casistica giurisprudenziale, il punto di partenza per la dimostrazione della scarsità dell'impegno di un lavoratore riguarda il raffronto tra i risultati prodotti dal lavoratore in un certo periodo di riferimento e quelli dei colleghi in analoghe situazioni (pari qualificazione professionale, anzianità, esperienza e mansioni).
È stato, così, ritenuto legittimo il licenziamento per scarso rendimento di un lavoratore che aveva portato a compimento circa 2-4 ordini a settimana, a fronte dei 40 ordini al giorno (e dei circa 200 ordini a settimana) conclusi dai suoi colleghi, anche di anzianità e livello contrattuale inferiore (Cass. 9 luglio 2015, n. 14310).
Così come è stato ritenuto legittimo il licenziamento per scarso rendimento di un lavoratore che, a fronte di un numero medio di 115 colli "lavorati" in un'ora in un magazzino, in più occasioni (su circa 2 mesi di osservazione) aveva "lavorato" una media di 60/70 colli all'ora, facendo, tra una lavorazione e un'altra, pause di 10/15 minuti a fronte di una pausa media di circa 1 minuto (in tal senso cfr. Trib. Pisa del 5 giugno 2017).
Ed ancora, è stato ritenuto giustificato il licenziamento del lavoratore il cui rendimento risultava essere pari o inferiore al 50% rispetto alla media di produttiva del reparto, avendo dato il datore di lavoro prova sia di tale notevole inadempimento, sia dell'insussistenza di fattori concausali riferibili all'organizzazione aziendale o comunque non imputabili al lavoratore (C.App. Roma, 12 novembre 2019, n. 4089)
Per dimostrare, invece, il carattere della continuità della negligenza del lavoratore, il datore di lavoro potrà provare in giudizio che l'insofferenza del lavoratore nei confronti delle disposizioni del datore di lavoro sia rimasta inalterata anche dopo specifiche direttive impartite o addirittura dopo l'irrogazione di sanzioni disciplinari conservative di modo che il provvedimento espulsivo del licenziamento risulti l'unica soluzione possibile.
È stato, ad esempio, ritenuto legittimo il licenziamento per scarso rendimento di una lavoratrice addetta ad attività commerciale (ricerca di nuovi clienti) che, a differenza dei propri colleghi, non si allontanava mai dal comune di residenza e ciò nonostante fosse stata richiamata più volte dai propri superiori (Cass. 3 maggio 2003, n. 6747).
Per contro, è stato ritenuto illegittimo, proprio per assenza di negligenza persistente nel tempo, il licenziamento di un dipendente con funzioni di "quadro" del settore commerciale di una società, cui era stato contestato di aver redatto una sola offerta commerciale con un'approssimazione tale da impedire alla cliente anche solo di prendere in considerazione l'offerta (Cass. 10 novembre 2000, n. 14605).
Allo stesso modo, è stato ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore motivato esclusivamente da una contrazione delle vendite, senza alcuna allegazione e prova circa lo standard produttivo concordato con il dipendente, o in merito ad un diverso (e maggiore) grado di efficienza dei colleghi di lavoro (Cass. 19 settembre 2016, n. 18317).
Più oscillante, invece, la posizione della giurisprudenza in riferimento alla valutazione probatoria dei plurimi precedenti disciplinari del lavoratore, ai fini dell'integrazione dell'ipotesi di scarso rendimento lavorativo.
L'ultimo arresto della Suprema Corte in materia dispone, infatti, che lo scarso rendimento non può essere di per sé dimostrato dai plurimi precedenti disciplinari del lavoratore già sanzionati in passato, perché ciò costituirebbe una indiretta sostanziale duplicazione degli effetti di condotte ormai esaurite. Anche nella fattispecie di scarso rendimento trova applicazione il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per lo stesso fatto sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (vedasi Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Ordinanza del 19 gennaio 2023 n. 1584).
In senso contrario, alcune pronunce di merito (cfr. App. Roma 1 febbraio 2016, n. 557) secondo cui quando lo scarso rendimento imputabile al lavoratore sia generato da illeciti disciplinari già contestati, il principio del ne bis in idem non è violato ove tali fatti assumano nuova e diversa rilevanza nella loro dimensione collettiva, incidendo in modo negativo sull'utilità della prestazione resa dal lavoratore (nel caso di specie, la società aveva globalmente considerato, ai fini del licenziamento per scarso rendimento, l'incidenza sul vincolo fiduciario e sull'utilità della prestazione di ben 28 precedenti disciplinari comminati nell'arco di soli tre anni al dipendente - addetto al pubblico trasporto - che, tra l'altro, si era presentato in ritardo al lavoro, si era assentato senza avvisare, aveva dormito durante il servizio ed effettuato soste non autorizzate, oltre che servizi di trasporto non autorizzati).
Similmente, il Tribunale di Modena ha valutato che, considerata l'entità delle mancanze commesse e la reiterazione delle condotte illegittime e negligenti di analogo contenuto, nel caso di un licenziamento che segua una serie di altri provvedimenti disciplinari sempre più gravi "talchè si è di fronte alla persistenza in un comportamento sostanzialmente identico malgrado le contestazioni di addebito e i ripetuti richiami della datrice di lavoro", debba ritenersi adeguata e proporzionata la sanzione espulsiva (Trib. Modena, 23 aprile 2019, n. 72).
La stessa Cassazione (Cass. 5 luglio 2018, n. 17685) del resto, dopo aver rilevato la sussistenza della recidiva in capo al lavoratore già destinatario di tre precedenti provvedimenti disciplinari, ha considerato legittimo il licenziamento disciplinare comminato per aver eseguito la propria prestazione in modo eccessivamente lento.

Quali sono i requisiti formali per intimare un licenziamento per giustificato motivo soggettivo di scarso rendimento?
Trattandosi di licenziamento per motivo soggettivo, il datore di lavoro dovrà intimare lo stesso nel rispetto della procedura prevista dall'art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (lo Statuto dei lavoratori) e, quindi, dovrà procedere per iscritto alla specifica e tempestiva contestazione disciplinare dell'addebito, attendere almeno cinque giorni (o il diverso e maggior termine previsto dall'eventuale contratto collettivo applicato) per valutare le eventuali giustificazioni del lavoratore e, solo all'esito, qualora non condivise le scriminanti eventualmente addotte, comunicare per iscritto il licenziamento (nel rispetto dell'eventuale termine previsto dal contratto collettivo applicato).

È possibile inserire nel contratto individuale di lavoro una clausola di rendimento minimo o programmi di produttività individuale?
Una modalità spesso utilizzata da diversi datori di lavoro, soprattutto con riferimento a prestazioni lavorative che si svolgono fuori dalla sede dell'impresa e contraddistinte da notevole autonomia operativa, dall'assenza di un controllo sul rispetto dell'orario (cui peraltro il lavoratore subordinato resta vincolato) e di particolari direttive circa la frequenza e le modalità concrete con cui svolgere la propria mansione (il tipico esempio è quello del lavoratori addetti ad attività commerciali), è quella di prevedere contrattualmente una clausola di rendimento minimo, in base alla quale il lavoratore si obbliga al raggiungimento di un determinato livello base di produzione o di rendimento.
Molti ritengono che, in tal caso, la clausola di rendimento minimo integrerebbe uno strumento di controllo a distanza del grado di diligenza lavorativa del prestatore, ad opera del datore di lavoro, ma la giurisprudenza, che pur ha ammesso la legittimità di una clausola di tal genere, ha tuttavia specificato come tale pattuizione non possa assumere il valore di elemento condizionante l'esistenza stessa del sinallagma contrattuale.
La clausola di rendimento minimo, dunque, verrebbe a costituire un elemento contrattuale, sia pure rilevante, ai fini della concreta valutazione della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, potendo, come tale, certamente risultare utile per la quantificazione della prestazione minima richiesta, ma senza assurgere a motivo di esonero del datore di lavoro dall'onere di provare la negligenza del lavoratore e, quindi, l'effettiva realizzabilità del risultato che non è riuscito a raggiungere.
E così, il giudice chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di un licenziamento per scarso rendimento di un lavoratore che si era obbligato al raggiungimento di un minimo di produzione prefissato, dovrà accertare innanzitutto se il livello pattuito fosse concretamente raggiungibile da parte di un prestatore mediamente diligente che svolga la medesima attività nella medesima zona, per quindi valutare se la carenza di rendimento del lavoratore sia da imputare ad una negligenza dello stesso e sia stata di entità tale da costituire un inadempimento di non scarsa importanza ai sensi dell'art. 1455 c.c. (cfr. Cass. 17 gennaio 1981, n. 401 e Cass. 3 novembre 1980, n. 5871).
Sotto altro profilo, invece, nulla vieta al datore di lavoro di poter stabilire, in attuazione del proprio potere direttivo, dei cd. "programmi di produttività individuale" (o "performance improvement plan") con cui fissare parametri e specifici obiettivi per accertare che la prestazione sia eseguita con quella diligenza e quella professionalità proprie delle mansioni affidate al lavoratore.
In questo caso, il mancato raggiungimento del risultato prefissato non costituirà di per sé inadempimento, ma integrerà, purtuttavia, un indice di non esatta esecuzione della prestazione. Non solo, ove il programma preveda lo svolgimento di una serie di attività ben identificate e ragionevoli, un sostanziale scostamento potrà essere prova dell'inadempimento.
Sulla base di questi principi, è stato ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che rispetto a un programma di produttività, pur formulato con la finalità di erogare dei premi, risultava, nell'arco di quattro anni, raggiungere delle percentuali pari a rispettivamente pari al 31,6%, 37,8%, 5,5% e 5,8% rispetto agli obiettivi fissati dal programma, a fronte dei risultati tra il 42% e il 161%, raggiunti dai colleghi (Cass. 22 febbraio 2006, n. 3876).

Licenziamento per scarso rendimento come ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Ad ogni buon conto, non può non rilevarsi come parte della dottrina e della giurisprudenza ritengano riconducibile il licenziamento per scarso rendimento anche nell'alveo operativo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, non ritenendo, quindi, necessario l'accertamento di una specifica responsabilità del lavoratore.
Partendo dal presupposto che l'obbligazione di lavoro, pur esaurendosi nella mera messa a disposizione di energie e potenzialità lavorative, debba comunque essere utile e, pertanto, risultare idonea a soddisfare l'interesse economico del datore di lavoro, tale orientamento ritiene ad esempio legittimo il licenziamento di un dipendente la cui prestazione non sia proficuamente utilizzabile dal datore di lavoro nella propria organizzazione.
Risulterebbe, dunque, legittima tale forma di recesso datoriale ove la prestazione lavorativa resa risulti completamente diseconomica e, quindi, insostenibile rispetto al costo sostenuto per la medesima (vedasi C.App. Roma, 27 gennaio 2020, n. 299; Trib. Lecce, 25 gennaio 2019, n. 362).
Autorevole dottrina ha quindi qualificato lo scarso rendimento come "fattispecie anfibia, suscettibile di costituire al tempo stesso giustificato motivo oggettivo e soggettivo di licenziamento" (P. Ichino in Riv. It. Dir. Lav., 2003, II, p. 695) richiamando il c.d. «firing cost» ovvero la valutazione tra il costo relativo al mantenimento in servizio del dipendente ed il suo rendimento (cioè la sua produttività per l'azienda in termini di reddito) ed il costo «to fire» per il licenziamento, comprensivo anche dell'eventuale alea di un giudizio negativo.
E così, anche la giurisprudenza ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato, a prescindere da una condotta negligente e/o colpevole del lavoratore, a fronte di una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l'organizzazione aziendale.
Sulla scorta di tali principi, la Suprema Corte (Cass. 4 settembre 2014, n. 18678) ha ritenuto legittimo il licenziamento di un lavoratore che poneva in essere assenze tattiche "a macchia di leopardo", per un numero esiguo di giorni ma in modo reiterato e costantemente "agganciate" ai giorni di riposo.
Secondo la Suprema Corte, la malattia del lavoratore non rilevava di per sé ma assumeva disvalore in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli e debitamente certificate, davano luogo a uno scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla organizzazione aziendale. Edm infatti, il datore di lavoro aveva, attraverso la prova testimoniale, dimostrato che le assenze, tra l'altro comunicate all'ultimo momento, determinavano non trascurabili difficoltà nel trovare un sostituto, un aggravio di lavoro per i colleghi e disagi organizzativi per la società.
Sulla stessa linea si è posto il Tribunale di Milano con l'ordinanza del 19 gennaio 2015, accertando la legittimità del licenziamento di un lavoratore che in 6 anni aveva fatto registrare presenze al lavoro tra un minimo di 80 e un massimo di 135 giorni, a fronte di un minimo di 127 e un massimo di 175 giorni di malattia all'anno.
Tali principi non sembrano, tuttavia, poter portare ad un ribaltamento delle prospettive, se non in casi "limite" come quelli sopra ricordati, atteso che l'assenza in caso di malattia è sempre - di per sé - un comportamento lecito che realizza l'esercizio di un diritto.
E così, è stato ritenuto illegittimo: (i) il licenziamento per scarso rendimento di un dipendente bancario a fronte della "vaga e generica" contestazione della banca di frapporre brevi periodi di ritorno al lavoro (qualitativamente e quantitativamente esigui) a lunghi periodi di assenza (cfr. Cass. 17 giugno 2016, n. 12592); ovvero (ii) il licenziamento per scarso rendimento di un dipendente assente dal lavoro per malattia per 181 giorni (in tale caso, tuttavia, il datore di lavoro, su cui gravava l'onere della prova, non si era costituito in giudizio, cfr. Trib. Milano, 5 ottobre 2016).
In materia, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato come le regole dettate dall'art 2110 c.c. per le ipotesi di assenze da malattia del lavoratore siano speciali rispetto alla disciplina dei licenziamenti individuali, e si sostanzino "nell'impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto di lavoro sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cd. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, nonché nel considerare quel superamento unica condizione di legittimità del recesso, nell'ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro (a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce) e del lavoratore (a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento); ne deriva che lo scarso rendimento e l'eventuale disservizio aziendale determinato dalle assenze per malattia del lavoratore non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo" (cfr. Cass.,7 dicembre 2018, n.31763).
E così anche Cass. 8 maggio 2018, n. 10963, dopo aver ribadito che lo scarso rendimento non può rilevare indipendentemente dalla sua imputabilità a colpa del lavoratore, ha affermato (come già affermato in Cass. 5 agosto 2015, n. 16472 e Cass. 2 settembre 2015, n. 17436) che è ingiustificato il licenziamento intimato per scarso rendimento essenzialmente conseguente a numerose assenze, giustificate da certificati medici.

L'"obbligo di repêchage"
Ricondurre il licenziamento per scarso rendimento a una forma di giustificato motivo oggettivo, tuttavia, comporta anche l'assolvimento del cd. "obbligo di repechage", consistente nell'onere per il datore di lavoro di provare l'impossibilità di adibire il lavoratore, nell'ambito dell'organizzazione aziendale, a mansioni equivalenti rispetto a quelle precedentemente ricoperte.
Utilizzando le parole della Suprema Corte, il licenziamento per scarso rendimento, inteso come giustificato motivo oggettivo di recesso, è legittimo «solo ove cagioni la perdita totale dell'interesse del datore di lavoro alla prestazione, all'esito di un'indagine condotta alla stregua di tutte le circostanze della fattispecie concreta, compreso fra queste il comportamento del datore di lavoro, per accertare se il medesimo, obbligato non solo al pagamento della retribuzione ma anche a predisporre i mezzi per l'esplicazione dell'attività lavorativa, si sia o meno attivato per prevenire o rimuovere situazioni ostative allo svolgimento della prestazione lavorativa» (Cass. 5 marzo 2003, n. 3250).
La Cassazione, nel caso del licenziamento di una lavoratrice il cui rendimento, a causa di una malattia, era sceso sotto i livelli minimi di produttività, determinando in capo alla società un notevole aggravio di costi, ha stabilito che fosse onere del datore di lavoro dimostrare, anche mediante elementi presuntivi e/o indiziari, l'impossibilità di una differente utilizzazione della lavoratrice in un ambiente compatibile con il suo stato di salute.
L'onere probatorio inerente al repêchage concernendo un fatto negativo deve essere assolto mediante la dimostrazione di correlativi fatti positivi, quali la circostanza che i posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero, al tempo del licenziamento, stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non sia stata effettuata alcuna assunzione per ricoprire ruoli equivalenti a quelli che il lavoratore licenziato avrebbe potuto ricoprire.
La carenza di prova della sostanziale inutilizzabilità del lavoratore nella organizzazione aziendale è fondamentale anche perché, in assenza di questa, il rischio è che il licenziamento venga ritenuto ontologicamente disciplinare e illegittimo sia perché privo dei requisiti formali (rispetto della procedura disciplinare) sia per assenza dei presupposti concreti (prova della negligenza del lavoratore).

Le tutele previste in caso di licenziamento per scarso rendimento
Per i lavoratori assunti prima del marzo 2015, in presenza dei previsti requisiti occupazionali, trova applicazione l'art. 18 della legge 300/70, come modificato dalla legge n. 92 del 2012, c.d. legge Fornero.
Pertanto, in caso di illegittimo licenziamento per scarso rendimento, la tutela reintegratoria di cui al IV comma dell'art. 18 potrà trovare applicazione solo in ipotesi di insussistenza del fatto contestato (comprensivo non soltanto delle ipotesi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare) ovvero laddove lo scarso rendimento del lavoratore, così come accertato, rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili (circostanza, quest'ultima, piuttosto remota, perché presupporrebbe una tipizzazione pattizia di inadempimenti differenziati).
A ciò aggiungasi come, per le esemplificate ipotesi di licenziamento per scarso rendimento in relazione alle c.d. "assenze a macchia di leopardo", la tutela prevista dal 4° comma dell'art. 18 verrebbe ad essere applicata quale conseguenza della violazione dell'art. 2110 c.c. (che consente il licenziamento del dipendente assente per infortunio o malattia solo dopo la scadenza del c.d. periodo di comporto determinato a livello di contrattazione collettiva).
In tutti gli altri casi dovrà trovare applicazione il comma V dell'art. 18 come modificato dalla legge Fornero, con il solo ristoro economico ma senza alcuna possibilità reintegratoria del cessato rapporto di lavoro.
Ovviamente, per i datori di lavoro ricadenti nell'alveo applicativo della c.d tutela obbligatoria, siccome non integranti la soglia dimensionale richiesta dall'art. 18 della L. 300/70, troverà applicazione il disposto dell'art. 8 della legge 604 del 1966, con la ben nota alternativa tra riassunzione nel posto di lavoro e risarcimento compreso tra 2,5 e 6 mensilità.
Per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e, quindi, soggetti al c.d. contratto a tutele crescenti ex D.Lgs n. 23 del 2015 (primo decreto attuativo del cd. Jobs Act), invece, la tutela in caso di licenziamento per scarso rendimento che sia dichiarato illegittimo sarà ulteriormente ridotta.
La novella non ha introdotto una previsione specifica dedicata al licenziamento per scarso rendimento, non essendo stata accettata la proposta di modificare la nozione di giustificato motivo oggettivo inserendo anche ipotesi relative alla produttività del lavoratore e riconducendo tale fattispecie «alla qualità o quantità della prestazione del singolo lavoratore».
Ecco che, dunque, con riferimento alle ipotesi di licenziamento disciplinare, sia per giustificato motivo soggettivo che per giusta causa, la reintegrazione (prevista, ai sensi della legge Fornero, nei casi di insussistenza del fatto contestato al lavoratore o riconducibilità del fatto tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni della legge, dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili) sarà possibile solo nella ipotesi «in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento».
Circostanza, questa, oltremodo ardua in quanto presuppone una dimostrazione diretta, da parte del lavoratore, della insussistenza del fatto materiale che in questo caso dovrebbe essere identificato nel rendimento inadeguato.
In tutti gli altri casi in cui non ricorrano gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa (in cui, ai sensi della legge Fornero, il datore è condannato al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità) il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale pari a due mensilità (…) per ogni anno di servizio tra un minimo innalzato da 4 a 6 mensilità ed un massimo innalzato da 24 a 36 mensilità dal cd. Decreto Dignità che ha modificato il D.lgs. n. 23/2015.
Tuttavia, con pronuncia del 26 settembre 2018, n. 194, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del criterio di calcolo "automatico" della indennità in caso di licenziamento illegittimo sulla sola base del numero di anni di servizio. Dunque, l'anzianità aziendale del lavoratore non è l'unico parametro per la sua determinazione, ma il Giudice deve tenere conto anche di altri criteri, tra cui le dimensioni dell'impresa, il numero complessivo dei dipendenti, il comportamento e le condizioni delle parti.
La stessa sanzione, solo economica, vale anche nell'ipotesi di licenziamento illegittimo intimato per motivi oggettivi, ancora una volta solo per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. Per tutti gli altri lavoratori, invece, continua ad applicarsi il regime previsto dalla legge Fornero, secondo cui, da un lato, scatta la reintegrazione del lavoratore nei casi di manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento e di accertata insussistenza di giustificazione al licenziamento intimato per inidoneità fisica del prestatore o in violazione dell'art. 2110 c.c. (assenza per malattia); in tutti gli altri casi, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, invece, il datore di lavoro viene condannato al pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità.

Considerazioni conclusive
Il nostro ordinamento prevede che, in generale e fuori dalle ipotesi di giusta causa, il recesso del datore di lavoro debba essere giustificato da ragioni oggettive inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa, oppure soggettive connesse ad un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro.
Ma proprio all'interno di tale dicotomia, apparentemente inscindibile, sembrerebbe far breccia la fattispecie del licenziamento per scarso rendimento, che, presentando caratteri comuni alle due ipotesi siccome compartecipata da connotazioni di matrice soggettiva ed oggettiva, a tutt'oggi non trova ancora collocazione specifica nella disciplina positiva.
Per quanto la giurisprudenza sia tradizionalmente orientata nel collocare tale licenziamento nell'ambito di quelli legati a motivi soggettivi, non mancano decisioni che aprono ad una nozione più lata, comprensiva anche di fattispecie oggettive, considerando la prestazione lavorativa anche sotto il profilo della sua inadeguatezza al raggiungimento degli scopi dell'impresa.
L'interprete, dunque, è sempre tenuto a compiere, in via preliminare, una fondamentale scelta di inquadramento della questione sostanziale dello scarso rendimento lavorativo, considerando le abissali differenze che sussistono tra l'ipotesi di giustificatezza soggettiva ed oggettiva, in termini di condizioni di legittimità e di tutele.
Basti pensare, ad esempio, alla necessità della preventiva contestazione disciplinare nel caso di qualificazione dello scarso rendimento lavorativo come ipotesi licenziamento per motivo soggettivo, rispetto alla rilevanza dell'obbligo di repêchage in caso di qualificazione dello scarso rendimento lavorativo come ipotesi licenziamento per giustificato motivo oggettivo, anche a voler tacere delle differenti applicazioni dell'ipotesi di tutela risarcitoria, come sancite dalla normativa modellata dalle modifiche introdotte dalla legge Fornero e dal Jobs Act).
Ecco allora che le "scarse" prestazioni lavorative dei dipendenti d'azienda potranno essere valutate sia sul piano disciplinare che su quello organizzativo e la decisione di ricorrere al licenziamento per motivi soggettivi od oggettivi dipenderà dalle circostanze concrete.
Nel caso di licenziamento soggettivo, la prestazione resa dal lavoratore dovrà essere notevolmente inferiore, sotto il profilo qualitativo e/o quantitativo, a quella attesa (e di ciò sarà possibile dar prova attraverso un confronto con quella prestata dai colleghi, con il possibile ausilio, in termini quantitativi, delle clausole di rendimento minimo, dei programmi di performance o produttività, che potranno agevolare la prova datoriale dello scarso rendimento) e dovrà anche provarsi l'imputabilità della inadeguatezza della attività, ancorché con elementi indiziari e presuntivi.
Nel caso di licenziamento per motivo oggettivo, invece, la prova dovrà concentrarsi sull'inutilizzabilità o comunque nella pressoché insostenibilità economica della prestazione del lavoratore, unitamente all'impossibilità di suo utile reimpiego endoaziendale.
Se, dunque, il modello fordista proprio dell'apporto individuale in catene di montaggio resta, per molti versi, intimamente connesso alla nostra legislazione in materia di lavoro subordinato, la mutevolezza dei contesti economici di base e di riferimento importa la necessaria valorizzazione del concetto di rendimento lavorativo, che così assurge a valido strumento datoriale da utilizzare per consolidare l'utilità effettiva e funzionale di determinate prestazioni.

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Pasquale Dui, Luigi Antonio Beccaria

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