Ex Ilva, per la CEDU persiste la violazioni del diritto a un "rimedio effettivo"
Con sentenza definitiva del 5 maggio 2022, pronunciata sul ricorso n. 4642/17 Ardimento e altri c Italia, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accertato il persistere delle violazioni dell'art. 8 ("Diritto al rispetto della vita privata e familiare") e dell'art. 13 ("Diritto a un rimedio effettivo") della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU)
Le tappe della vicenda ILVA
Con sentenza del 24 gennaio 2019 la prima sezione della Corte Europea dei diritti dell'Uomo ha deciso in ordine al ricorso di centottanta cittadini di Taranto che avevano lamentato la violazione dei propri diritti fondamentali derivante dagli effetti delle emissioni dello stabilimento siderurgico "Acciaierie di Italia", già Arcelor Mittal (ex Ilva), sulla salute e sull'ambiente.
Lo stabilimento di Taranto, il più grande d'Europa, determina un impatto sull'ambiente e sulla salute dei cittadini di Taranto, in particolare del quartiere Tamburi e di altri comuni limitrofi, oggetto di numerosi studi scientifici, che hanno riscontrato un elevato tasso di mortalità per tumori. La stessa ARPA, a seguito di approfonditi accertamenti, nel 2016 aveva segnalato che il livello di diossine nel citato quartiere Tamburi era superiore a quello autorizzato.
Nel successivo rapporto del 2017, basato sul neo istituito registro dei tumori di Taranto, veniva sottolineato il perdurare della situazione di criticità sanitaria, zona di Taranto, accertando il nesso di causalità tra il pregiudizio sanitario e le emissioni industriali.
La legge della Regione Puglia n.44/2008 aveva fissato, per la prima volta, i limiti entro i quali l'emissione di diossine era autorizzata nell'ambito di attività industriali; tuttavia i tagli alle emissioni venivano prorogati da successivi provvedimenti legislativi.
Nel 2011 il Ministero dell'Ambiente concedeva all'ex Ilva una prima Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), fissando alcune condizioni per il controllo dell'inquinamento, poi modificate con una seconda autorizzazione che prevedeva l'obbligo di inviare un rapporto trimestrale relativo all'applicazione delle misure necessarie per il miglioramento dell'impatto ambientale.
Parallelamente venivano instaurati numerosi procedimenti penali nei confronti degli amministratori e dirigenti dell'ex Ilva, ai quali venivano contestate, tra le altre, le condotte di "catastrofe ecologica", avvelenamento di sostanze alimentari, omessa prevenzione di incidenti sul luogo di lavoro, danneggiamento di beni pubblici, emissione di sostanze inquinanti, "inquinamento atmosferico" e, soprattutto "disastro ambientale", nel procedimento definito "ambiente svenduto", conclusosi con la condanna in primo grado della quasi totalità degli imputati.
Nel 2012 il GIP di Taranto, sulla base delle consulenze tecniche di esperti chimici ed epidemiologici, disponeva il sequestro, senza facoltà d'uso, di parchi minerari, cokerie, area agglomerazione, area altiforni, acciaierie e materiali ferrosi.
Ne seguiva una normativa d'urgenza che consentiva la prosecuzione dell'attività fino ai giorni nostri, con l'emissione di quattordici decreti legge, e decisioni altalenanti della Corte Costituzionale.
Innanzitutto deve osservarsi che il Piano Ambiente del 2017 (Autorizzazione Integrata Ambientale, AIA), le cui prescrizioni dovranno essere attuate entro l'estate del 2023, avrebbe toccato il 95% dei lavori effettuati, come peraltro si è rilevato durante l'ultima riunione dell'Osservatorio Ilva per l'attuazione del piano dello scorso 14 dicembre.
Riunione durante e dopo la quale ISPRA ha evidenziato l'attuazione di diverse importanti prescrizioni.
I procedimenti dinanzi alla Corte CEDU
Con i ricorsi n. 54264/15 e n. 4642/17, veniva invocata l'applicazione degli artt. 2 e 8 della Convenzione, sostenendo che lo Stato italiano non aveva adottato le misure giuridiche e regolamentari idonee a proteggere la loro salute e l'ambiente in cui i cittadini della città jonica vivevano, e di avere omesso le informazioni sull'inquinamento e sui rischi della salute ad esso connessi.
La Corte aveva esaminato il gravame, unicamente sotto il profilo dell'art. 8, che tutela il rispetto della vita privata.
Il governo italiano sollevava delle eccezioni preliminari, contestando in primo luogo la qualificazione dei ricorrenti quali "vittime", avuto riguardo del carattere generale delle loro doglianze e della mancata precisazione del danno asseritamente subito.
I giudici di Strasburgo riconoscevano l'esistenza di elementi per sostenere che l'inquinamento nella zona interessata aveva reso, inevitabilmente, le persone ad esso esposto più vulnerabili a numerose malattie e richiamavano, in punto di nesso causale tra l'attività dell'ex Ilva e la compromissione della situazione sanitaria, i risultati degli studi scientifici sopra menzionati.
In secondo luogo, il Governo italiano eccepiva il mancato esperimento dei rimedi giurisdizionali interni, dal momento che erano ancora pendenti in Italia due procedimenti penali interni nei confronti dei dirigenti ex Ilva, nell'ambito dei quali i ricorrenti avrebbero potuto costituirsi parte civile.
Suggeriva, inoltre, che essi avrebbero avuto la possibilità di azionare diversi rimedi in sede civilistica, come ad esempio, il ricorso ex art. 700 c.p.c. o la class action ex lege n.15/2009.
A questa eccezione, i ricorrenti replicavano che lo scopo da essi perseguito non consisteva nell'ottenimento di un ristoro patrimoniale, bensì nella denuncia della mancata adozione da parte dello Stato delle misure amministrative e legislative volte a proteggere la loro salute e l'ambiente.
La Corte, rilevando che le doglianze dei ricorrenti concernevano l'assenza di misure volte ad assicurare il risanamento della zona interessata, affermava che tale obiettivo era stato perseguito per molti anni dallo Stato italiano, senza alcun risultato apprezzabile.
Riteneva, inoltre, che nessun procedimento interno di natura penale, civile o amministrativo avrebbe potuto raggiungere lo scopo prefissato nel caso in esame e rigettava le eccezioni del Governo.
Nel premettere che lo Stato ha l'obbligo di disciplinare dettagliatamente le attività pericolose, la Corte precisava che essa era tenuta a verificare se le autorità nazionali abbiano affrontato la questione con il giusto livello di diligenza.
Di conseguenza, alla luce degli studi scientifici non contestati dalle parti e della procedura di infrazione intrapresa dagli organi dell'UE, la Corte ha accertato la sussistenza di una situazione di inquinamento ambientale, atta a mettere in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, di quella della popolazione residente nella zona.
La Corte, ritenendo di non dover applicare nella fattispecie la procedura della "sentenza pilota" (adozione di misure legislative amministrative necessarie per far cessare le attività che sono alle origini delle violazioni ed eliminare le conseguenze derivanti da quest'ultime), ha assegnato al Comitato dei Ministri il compito di indicare al Governo italiano le misure che in termini pratici, devono essere adottate per l'esecuzione della sentenza.
Nessuna somma è stata accordata a titolo di equa soddisfazione ai ricorrenti affetti da patologie connesse all'attività inquinante, né a coloro che a causa delle stesse hanno perso dei congiunti.
A complicare ulteriormente la vicenda, è in intervenuta l'ordinanza del Sindaco di Taranto del 27 febbraio 2020 con la quale è stato intimato alla azienda Arcelor Mittal (ora Acciaierie di Taranto) e ad Ilva in amministrazione straordinaria di risolvere il problema delle emissioni entro trenta giorni.
Non avendo i citati soggetti provveduto, in data 29 marzo 2020 il citato amministratore ha disposto la fermata degli impianti dell'area a caldo, nonostante il ricorso al TAR di Lecce presentato in limine dei termini di scadenza.
Dopo la sentenza del Tar di Lecce n.249/2021 che aveva accolto il ricorso, il Consiglio di Stato (quarta sezione), con sentenza n. 4802 del 23 giugno 2021 , ha disposto l'annullamento della citata sentenza del TAR.
Il potere di ordinanza, secondo i giudici amministrativi, «non risulta suffragato da un'adeguata istruttoria e risulta, al contempo, viziato da intrinseca contraddittorietà e difetto di motivazione».
Secondo i giudici dell'appello «va dichiarata l'illegittimità dell'ordinanza impugnata e ne va conseguentemente pronunciato l'annullamento».«Con riferimento alla situazione attuale, le misure previste dal Piano risultano in corso di realizzazione e non emergono particolari ritardi o inadempimenti rispetto alla loro attuazione».
Pertanto, per i giudici di Palazzo Spada, «l'avvenuta individuazione delle misure di mitigazione, l'inizio della loro realizzazione e la mancata rappresentazione nel provvedimento del mancato rispetto delle scadenze prestabilite (l'installazione dei filtri a maniche su una delle due linee di agglomerazione dovrà concludersi entro il 31 dicembre 2021, mentre per la seconda linea dovrà avvenire entro il 23 agosto 2023, con avvio delle attività di cantiere entro il 30 giugno 2021) inducono a ritenere non sufficientemente provata quella situazione di assoluta e stringente necessità presupposta dall'ordinanza sindacale».
Per il Consiglio di Stato, «la sollecitata anticipazione dell'adozione di alcune di queste misure (in particolare, dei filtri a maniche), non risulta coercibile mediante l'adozione di provvedimenti "paralleli" a quelli invece preordinati alla loro pianificazione. Tale anticipazione - dicono i giudici - potrà avvenire, salvo ulteriori procedimenti di revisione del titolo, solo con un ulteriore impegno assunto volontariamente dal gestore dell'impianto, in una prospettiva di pacificazione della complessa situazione sociale venutasi a creare a causa del problema di lungo corso che affligge la città di Taranto».
Infine, con sentenza definitiva del 5 maggio 2022 , pronunciata sul ricorso n. 4642/17 Ardimento e altri c Italia, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha accertato il persistere delle violazioni dell'art. 8 ("Diritto al rispetto della vita privata e familiare") e dell'art. 13 ("Diritto a un rimedio effettivo") della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) – già rilevate nella sentenza C. e altri c. Italia e L. A. M. e altri c. Italia, ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15, del 24 gennaio 2019 di cui sopra – in quanto le autorità italiane hanno omesso e continuano ad omettere l'adozione di misure necessarie, rispettivamente, a tutelare la salute dei cittadini dagli effetti pregiudizievoli delle emissioni nocive del siderurgico ed a predisporre rimedi effettivi per ottenere la bonifica dell'area coinvolta dall'inquinamento.
In particolare, la Corte non ha riscontrato alcun fatto o argomento nuovo rispetto a quanto constatato nella sentenza C. tale da convincerla a modificare le proprie conclusioni in relazione alle violazioni dei diritti sanciti dagli artt. 8 e 13 CEDU nei riguardi dei ricorrenti.Perdura, quindi, ad avviso della Corte la situazione di impasse in cui si trovano le autorità italiane nella gestione della questione ambientale rispetto alle attività produttive del siderurgico di Taranto, così come persiste la medesima situazione di grave inquinamento ambientale tale da mettere in pericolo non solo la salute dei ricorrenti, ma più in generale quella di tutta la popolazione residente nelle zone a rischio.
La Corte ha altresì constatato che la procedura di esecuzione della citata sentenza C. è ancora pendente dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa che, nella riunione 1398° (DH 9-11 marzo 2021), ha lamentato l'assenza di informazioni da parte del Governo italiano riguardanti l'esecuzione del piano ambientale, un elemento ritenuto essenziale dalla Corte europea affinché l'acciaieria possa funzionare senza presentare dei rischi per la salute.
La Corte ha infine reiterato l'urgenza e la primaria importanza di adottare le misure di risanamento e di esecuzione del piano ambientale approvate dalle autorità nazionali al fine di salvaguardare l'ambiente e la salute dei cittadini.
Alle stesse conclusioni è giunta la Corte europea in altre tre sentenze pubblicate nella medesima data relative ai ricorsi n. 37277/16 A.A. e altri c Italia, n. 48820/19 B. e altri c Italia e n. 45242/17 P. e altri c Italia.
Tenuto conto della giurisprudenza in materia, la Corte ha ritenuto che il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e il loro diritto a un ricorso effettivo, protetti dai citati art. 8 e 13 della Convenzione, siano stati violati nel caso di specie.
Per quanto riguarda il danno morale il Giudice europeo è dell'avviso che le constatazioni di violazione della Convenzione alle quali è pervenuta costituiscono una riparazione sufficiente per il danno morale subito dai ricorrenti, mentre accorda ai ricorrenti il rimborso delle spese sostenute.
Nella causa n. 45242/17 P. e altri c Italia, invece, la Corte ha riconosciuto agli eredi del sig. C., per il quale il Tribunale di Taranto in data 6 novembre 2018 aveva riconosciuto un'indennità da determinarsi, una somma di 12.000 euro per il danno morale subito, che non può essere riparato con una semplice constatazione di violazione.
Sulla scorta della traiettoria interpretativa richiamata dalla Corte, la stessa è tornata a ribadire, quindi, l'immanente necessità e urgenza di eseguire i lavori di bonifica dello stabilimento e del territorio interessato dall'inquinamento ambientale, dando piena ed immediata attuazione ai piani ambientali predisposti dalle autorità nazionali contenenti le misure e le azioni necessarie per garantire la protezione dell'ambiente e della salute della popolazione.
Le pronunce rese dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, su questo versante, rivestono una valenza significativa in una prospettiva multilivello di tutela, se non altro perché consentono di enfatizzare ancora di più la centralità del rispetto dell'ambiente e la conseguente necessità di adottare protocolli operativi sempre più efficienti volti a tutelarne l'integrità.
In questo delicatissimo contesto andrebbero adottate non solo e non tanto misure di carattere riparatorio o ripristinatorio, bensì soluzioni di stampo preventivo, attraverso indagini e misure sempre più accurate, in grado di scongiurare lo sfruttamento irrazionale di risorse ambientali scarse e compromesse, così da garantire al tempo stesso la tutela del valore primario della salute.
Conclusioni
La vertenza ex Ilva sembra ormai "una grossa matassa fumosa della quale non si comprende né il capo né la coda", con molti soggetti coinvolti nella vicenda.
Secondo le citate sentenze della CEDU, che "hanno accertato che lo Stato italiano continua ancora oggi a non tutelare la salute dei cittadini dagli effetti delle emissioni nocive del siderurgico e non procede alle bonifiche di tutta la zona coinvolta dall'inquinamento ", l'aspetto ambientale risulta critico se si va ad analizzare la salute della popolazione tarantina. Non sono bastate le indagini epidemiologiche che hanno evidenziato l'elevata mortalità, specialmente tra i bambini, causata dall'inquinamento, e neppure le condanne della Corte di Giustizia europea per violazione dei diritti umani.
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*A cura di Lorica Marturano, Partner 24 ORE Avvocati - Avvocato d'Affari, esperto in Relazioni Istituzionali e Public Affairs, Curatore Fallimentare