Società

Fallimento: finanziamento di impresa in stato di decozione e contrarietà al buon costume

È contraria al buon costume e, pertanto, irripetibile la somma di denaro erogata a un'impresa già in stato di decozione che consente all'imprenditore di ritardare la (propria) dichiarazione di fallimento.

di Rossana Mininno


L'articolo 6 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, come novellato dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, nel circoscrivere i soggetti legittimati all'iniziativa per la dichiarazione di fallimento, include tra essi l'imprenditore, a carico del quale esiste l'obbligo di richiedere, ove ne sussistano i relativi presupposti, la declaratoria del proprio fallimento o, comunque, il dovere di non aggravare il proprio dissesto.

Tale dovere è sanzionato penalmente dall'articolo 217 del regio decreto n. 267 del 1942, il quale, nel delineare la fattispecie del reato fallimentare di bancarotta semplice, punisce con la reclusione l'imprenditore dichiarato fallito, il quale «ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa» (comma 1, n. 4): «oggetto di punizione è l'aggravamento del dissesto dipendente dal semplice ritardo nell'instaurare la concorsualità, non essendo richiesti ulteriori comportamenti concorrenti» (Cass. pen., Sez. V, 21 aprile 2017, n. 28609).

Per aggravamento del dissesto societario punibile si intende il «deterioramento, provocato per colpa grave o per la mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell'impresa fallita» (Cass. pen., Sez. V, 30 maggio 2019, n. 27634).

Con l'ordinanza n. 16706 pubblicata in data 5 agosto 2020 la Prima Sezione civile della Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in ordine all'ammissibilità al passivo fallimentare del credito avente titolo (negoziale) in un contratto di fornitura, risultato, in realtà, dissimulare un finanziamento concesso a una società in dissesto.

Nella fattispecie scrutinata il curatore, previa verifica - effettuata incidenter tantum - in ordine alla natura giuridica del titolo (id est, il contratto di fornitura) indicato quale fonte della insinuanda pretesa creditoria («pagamenti anticipati in conto di future forniture»), ne ha ritenuto la simulazione relativa, in quanto «dissimulante un negozio di finanziamento illecito, poiché configurante il concorso in fatti di bancarotta», valutazione condivisa e fatta propria dal Giudice delegato.

Il Tribunale, investito - in ragione della mancata ammissione del credito - dell'opposizione allo stato passivo, ha ritenuto, all'esito di un «apprezzamento unitario di connessione logico-fattuale», che il contratto di fornitura aveva «l'unico scopo di finanziare, ma in modo anomalo», la società in dissesto, rectius «già decotta»: «l'erogazione sistematica e prolungata delle descritte erogazioni, con i citati negozi, comunque consentiva alla beneficiaria una permanenza artificiosa sul mercato, venendo con esse pagati i debiti correnti, con ritardo nell'emersione dell'insolvenza e danno per i creditori».

Secondo il Tribunale il contratto di fornitura, in realtà, dissimulava un finanziamento «illecito» per aver consentito «l'improprio mantenimento in vita della impresa», contribuendo, in termini di efficacia causale, «al ritardo nell'apertura della vicenda concorsuale ovvero all'intensificazione del dissesto»: gli atti posti in essere «erano pertanto contrari a norme imperative, in particolare di natura penale, quali il divieto di aggravare il dissesto e di ordine pubblico economico, che impone la buona fede nelle relazioni contrattuali, con irripetibilità ex art. 2035 c.c. delle prestazioni rese, un'eccezione al dovere di restituzione dell'art. 2033 c.c., per contrarietà al buon costume».

I Supremi Giudici, investiti del ricorso per la cassazione del provvedimento reso dal Tribunale, hanno in primis proceduto all'inquadramento giuridico della condotta negoziale tenuta dalle parti, onde verificarne la declinabilità in termini di violazione del buon costume.

Al detto fine l'indagine ermeneutica si è focalizzata sugli articoli 2033 e 2035 del codice civile, i quali sanciscono, rispettivamente, la ripetibilità di quanto pagato ma non dovuto (solutio indebiti) e l'irripetibilità del pagamento afferente a prestazione contraria al buon costume (soluti retentio), intesa quale eccezione al principio generale della ripetizione dell'indebito oggettivo.

In virtù del disposto dell'articolo 2035 del codice civile l'azione di indebito è negata con riferimento alle prestazioni costituenti offesa al buon costume (contra bonos mores): l'esclusione vale sia nell'ipotesi in cui la prestazione sia stata eseguita in una situazione di reciproca turpitudine (in pari causa turpitudinis cessat repetitio) che in caso di turpitudine del solo solvens (nemo auditur suam turpitudinem alligans).

L'irripetibilità di quanto sia stato prestato in una situazione di turpitudine - imputabile, indifferentemente, a entrambe le parti (id est, accipiens e solvens) o soltanto al solvens - risponde alle finalità proprie dell'ordinamento giuridico, il quale non fornisce tutela al soggetto autore di una prestazione eseguita per uno scopo turpe in quanto reputato indegno di ricevere protezione giuridica: «la pretesa restitutoria non può formare oggetto di obbligazione (art. 1174 c.c.), in quanto fondata su un contratto illecito (perché, in ipotesi, contrario al buon costume), non corrispondendo quindi ad un interesse giuridicamente tutelabile del creditore» (Cass. civ., Sez. I, 27 ottobre 2017, n. 25631).

I Supremi Giudici hanno affermato - ponendosi in (sostanziale) continuità con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. Un., 17 luglio 1981, n. 4414; Sez. III, 18 giugno 1987, n. 5371; Sez. III, 21 aprile 2010, n. 9441; Sez. I, 27 ottobre 2017, n. 25631; Sez. VI, 3 aprile 2018, n. 8169) - che la nozione di buon costume «non si identifica soltanto con le prestazioni contrarie alle regole della morale sessuale o della decenza, ma comprende anche quelle contrastanti con i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico»; «pertanto, chi abbia versato una somma di denaro per una finalità truffaldina o corruttiva non è ammesso a ripetere la prestazione, perché tali finalità, certamente contrarie a norme imperative, sono da ritenere anche contrarie al buon costume».

Come rilevato dai Giudici di legittimità, le condotte poste in essere nella fattispecie scrutinata hanno arrecato un pregiudizio alla massa dei creditori «per effetto dell'incremento delle dimensioni della decozione», pregiudizio causato da «condotte consapevolmente compartecipative nel mantenere al di fuori della concorsualità l'imprenditore che già versava in tutti i suoi presupposti oggettivi»: «si tratta di un complessivo profilo di disvalore» in considerazione del fatto che «le prestazioni di finanziamento dissimulate, a fronte di forniture né pattuite né eseguite […] non si sono esaurite in mera sovvenzione all'imprenditore già insolvente […] in danno dei creditori e a detrimento finale della soggettività economica del finanziato, posto che l'espansione dei relativi debiti non esprimeva alcuna utilità sociale».

Conclusivamente, i Giudici della Prima Sezione hanno ritenuto che «vi sia violazione delle regole giuridiche del buon costume, secondo «i principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico», allorché la "prestazione" sia stata "eseguita" per uno "scopo" costituente, anche per l'autore che ora ne domandi la restituzione indiretta (id est, l'ammissione al passivo del credito), "offesa al buon costume"».

Il soggetto che «si immette nel traffico giuridico e nelle reti imprenditoriali» è tenuto a «prestazioni conformate secondo buona fede, secondo criteri non moralistici, si può aggiungere, ma di concorrente condivisa opportunità e utilità sociale nelle relazioni ordinate di mercato, che non sopportano la permanenza artificiale in esso di concorrenti decotti, la cui insolvenza sia resa occulta ovvero ingiustificatamente ritardata nella sua emersione e strumentalizzata per operazioni in danno dei creditori».

Quanto all'applicabilità della sanzione della nullità civilistica i Supremi Giudici, uniformandosi alla giurisprudenza esistente, hanno attribuito rilievo dirimente all'apprezzamento penalistico del titolo negoziale dedotto a fondamento del credito insinuato: è «principio consolidato che «in tema di cause di nullità del negozio giuridico, per aversi contrarietà a norme penali ai sensi dell'art. 1418 cod. civ., occorre che il contratto sia vietato direttamente dalla norma penale, nel senso che la sua stipulazione integri reato» (Cass. 18016/2018, 14234/2003), regola applicabile ad ogni fattispecie contrattuale, come nel caso del finanziamento ad impresa in dissesto, che s'inserisca, ritardandolo, nell'iter organizzativo e di progressione delle proprie scelte, già ricadenti come doveri giuridici specifici a carico dell'imprenditore, di richiedere senza indugio il proprio fallimento o comunque di non espandere le dimensioni della propria insolvenza mediante operazioni dilatorie, versando in grave colpa».

All'esito dell'iter giuridico-argomentativo il Supremo Collegio ha enunciato i seguenti principi di diritto:
«In sede di insinuazione al passivo del fallimento, deve ritenersi nullo ex art. 1418 c.c. il titolo negoziale dissimulante un negozio di finanziamento (nella specie erogato in più tranches a fronte di forniture non eseguite) stipulato dall'imprenditore insolvente, in violazione del dovere di richiedere senza indugio il fallimento o comunque di non aggravare il dissesto dell'impresa con operazioni dilatorie, in quanto contrario a norme imperative, in particolare di natura penale, quali il divieto di aggravare il dissesto e di ordine pubblico economico, integrando la relativa stipula una fattispecie di reato (art. 217, comma 1, n. 4, l.fall.), di cui è chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche il finanziatore» (massima rv. 658613 - 02).

«Ai fini dell'applicazione della "soluti retentio" prevista dall'art. 2035 c.c., le prestazioni contrarie al buon costume non sono soltanto quelle che contrastano con le regole della morale sessuale o della decenza, ma sono anche quelle che non rispondono ai principi e alle esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico, dovendosi pertanto ritenere contraria al buon costume, e come tale irripetibile, l'erogazione di somme di denaro in favore di un'impresa già in stato di decozione integrante un vero e proprio finanziamento, che consente all'imprenditore di ritardare la dichiarazione di fallimento, incrementando l'esposizione debitoria dell'impresa trattandosi di condotta preordinata alla violazione delle regole di correttezza che governano le relazioni di mercato e alla costituzione di fattori di disinvolta attitudine "predatoria" nei confronti di soggetti economici in dissesto» (massima rv. 658613 - 03).

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