Società

Fallimento: processo interrotto e decorrenza del termine di riassunzione

La Prima sezione civile rinvia alle SU l'individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione ex articolo 43, co. 3, legge fallimentare

di Rossana Mininno *


La sentenza che dichiara il fallimento «priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni» (articolo 42, comma 1, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267), amministrazione demandata, unitamente alla gestione dei rapporti dedotti in giudizio, al curatore, il quale esercita dette attività «sotto la sorveglianza del giudice delegato e del tribunale fallimentare» (Cass. civ., Sez. II, 17 giugno 2010, n. 14624).

Un effetto direttamente connesso alla riferita privazione consiste nella perdita, da parte del fallito e a tutela della massa dei creditori (cfr. Cass. civ., Sez. V, 9 marzo 2011, n. 5571), della capacità processuale relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare (Cass. civ., Sez. lav., 6 giugno 2017, n. 13991), effetto perdurante fino alla chiusura della procedura, la quale determina la cessazione degli organi fallimentari e il rientro del fallito nella disponibilità del suo patrimonio con conseguente cessazione della legittimazione processuale del curatore (Cass. civ., Sez. II, 26 giugno 2019, n. 17149).

L'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo (cfr. articolo 43, comma 3, del regio decreto n. 267 del 1942) con effetto automatico (Cass. civ., Sez. Un., 20 marzo 2008, n. 7443): il processo interrotto è soggetto a estinzione se non proseguito o riassunto entro il termine perentorio di tre mesi (cfr. articolo 305 cod. proc. civ.).

Con la recente ordinanza interlocutoria n. 21961 del 12 ottobre 2020 la Prima Sezione civile della Corte di cassazione ha rimesso la causa al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite sulla «dibattuta questione circa l'individuazione del momento da cui debba aver corso, per la parte che non sia fallita, il termine per la riassunzione del giudizio nel caso di interruzione ex art. 43, comma 3, l.fall.».

La questione assume particolare rilievo stante la «stringente» esigenza di tutelare il diritto di difesa della parte processuale diversa da quella alla quale si riferisce l'evento interruttivo (id est, la parte non fallita): «detta parte deve essere infatti in grado di conoscere se si sia verificato l'evento interruttivo e, in caso positivo, deve essere nelle condizioni di sapere da quale momento decorre il termine, semestrale o trimestrale, per la riassunzione (Corte cost. 21 gennaio 2010, n. 17 cit.)».

Come osservato dai Supremi Giudici, nei casi di interruzione intervenuta di diritto «la conoscenza che si richiede, ai fini della decorrenza del termine per la riassunzione è comunemente individuata in quella legale, ottenuta tramite atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell'evento medesimo […] alle quali non è equiparabile la conoscenza di fatto altrimenti acquisita».

Ciò rende dirimente la necessità di ancorare la verifica della possibilità di conoscenza dell'evento «a criteri quanto più possibile sicuri ed oggettivi, così da neutralizzare, per quanto possibile, l'elemento di criticità operativa derivante dall'avere il giudice delle leggi disancorato il termine per la riassunzione dal verificarsi dell'interruzione, così rendendolo mobile e variabile» (cfr. in tal senso Cass. civ., Sez. I, 30 gennaio 2019, n. 2658).

Con riferimento alla decorrenza del termine entro cui la parte non fallita deve procedere alla riassunzione del processo interrotto la Suprema Corte di cassazione ha statuito, «in più occasioni, che il termine per la detta riassunzione decorre dall'acquisizione di una conoscenza legale che deve avere ad oggetto tanto l'evento interruttivo, quanto il procedimento in cui tale evento ha operato» (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. III, 15 marzo 2018, n. 6398; Cass. civ., Sez. III, 30 novembre 2018, n. 31010).

Sono state emesse, tuttavia, anche pronunce di segno diverso (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. II, 29 agosto 2018, n. 21325): «la parte estranea all'evento interruttivo non ha la necessità di conoscere il processo del quale è parte, a differenza del curatore fallimentare che, se non può ignorare il dato dell'apertura della procedura concorsuale, può non essere al corrente dell'esistenza del singolo processo relativo al rapporto di diritto patrimoniale del fallito compreso nel fallimento».

In una recente pronuncia i Supremi Giudici di legittimità hanno attribuito rilevanza anche a una conoscenza (non legale, ma) effettiva dell'evento interruttivo (cfr. Cass. civ., Sez. V, 14 giugno 2019, n. 15996): «in caso di interruzione del processo determinata, ipso jure, dall'apertura del fallimento ai sensi dell'art. 43, comma 3, l. fall., il termine per la riassunzione del giudizio a carico della parte non colpita dall'evento interruttivo, la quale abbia preso parte al procedimento fallimentare presentando domanda di ammissione allo stato passivo, non decorre dalla legale conoscenza che questa abbia avuto della pendenza del procedimento concorsuale, ma dal momento in cui ne abbia avuto cognizione effettiva».

Esiste, infine, un indirizzo interpretativo (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. VI, 1 marzo 2017, n. 5288; Cass. civ., Sez. VI, 27 febbraio 2018, n. 4519), il quale «esclude, in sintesi, possa esservi un onere di riassunzione in assenza della dichiarazione, da parte del giudice, dell'interruzione del giudizio per l'intervenuto fallimento della parte» in quanto «l'art. 43, comma 3, l. fall. va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l'interruzione è sottratta all'ordinario regime dettato in materia dall'art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dell'evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l'interruzione sia stata, o meno, dichiarata».

I Giudici della Prima Sezione, avendo rilevato che «la materia che interessa si presenta costellata da posizioni non coerenti che concorrono a rendere priva di uniformità la giurisprudenza espressa dalla Corte», ha ritenuto «opportuna» la rimessione della causa al Primo Presidente in quanto «la coesistenza di plurimi indirizzi interpretativi che postulano, o comportano, diverse decorrenze del termine per riassumere implica, inevitabilmente, il rischio che, in presenza della medesima situazione processuale, la riattivazione del giudizio venga in alcuni casi reputata tempestiva e in altri casi tardiva».
Tale situazione preclude, inevitabilmente, alla parte interessata «di formulare una prognosi affidabile circa le conseguenze della propria condotta processuale
».

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*Avvocato del Foro di Milano

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