Gli strumenti alternativi al testamento
La prassi negoziale dimostra l'interesse e l'attualità degli studi diretti all'analisi di strumenti negoziali alternativi al testamento che permettano di attuare il trasferimento di beni oltre la morte, dando rilievo alla diversa e particolare destinazione o funzione economica dei beni medesimi ed alle differenti qualità personali dei soggetti destinatari dell'attribuzione patrimoniale. La materia delle successioni, d'altra parte, riproduce un campo di esercizio dell'attività negoziale irto di trappole per i molteplici limiti e divieti imposti alla autonomia privata, in primis, quello dei patti successori. L' espansione di strumenti negoziali volti alla trasmissione della ricchezza familiare tesi a sostituire lo strumento del testamento è connesso al fatto che il nostro sistema successorio è essenzialmente indifferente al contenuto economico, alla qualità dei beni che formano oggetto della successione. una villa da usare per le vacanze o una industria sono solo dei cespiti da conferire secondo le regole proprie della successione legittima e/o testamentaria (o della successione necessaria, se si riflette sulla prospettiva della tutela dei diritti dei legittimari,)
L'art. 458 c.c., tuttora sancendo la nullità di "ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione" denota l'insofferenza del legislatore del 1942 verso qualunque forma di vocazione contrattuale, giustificata dalla volontà di tutelare il valore della libertà testamentaria ed il principio connesso della revocabilità del testamento. La stessa disposizione commina la nullità di "ogni atto col quale taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta o rinunzia ai medesimi".
In questa sede ci si limiterà a tratteggiare le caratteristiche e la ratio sottesa ad istituti, alcuni di nuovo conio, altri datati, che hanno coinvolto l'attenzione degli operatori in una loro applicazione alternativa allo strumento testamentario.
1. La donazione
Lo schema della donazione è certamente riuscito ad offrire nel tempo una valida soluzione alternativa al testamento, pur tenendo a mente tutte le implicazioni che concernono la questione della lesione della legittima e dell'azione di riduzione esperibile da quei legittimari danneggiati da una donazione.
Non tutte le soluzioni, tuttavia, si sono rivelate in grado di sfuggire alla scure dell'art. 458 cod. civ.: si pensi, in particolare, alla donazione sottoposta alla condizione sospensiva della premorienza del donante, la c.d. donazione si praemoriar. Vi è chi esclude che questa attribuzione avvenga per causa di morte e, dunque, ne afferma la validità; secondo altri, invece, nella donazione si praemoriar sarebbe comunque presente una causa di morte, «in quanto la sua funzione sarebbe quella di permettere al dichiarante di disporre dei propri beni o diritti (e dunque della propria successione) per quando avrà cessato di vivere». In questo senso si è espressa la Cassazione (Cass. civ., 24 aprile 1987, n. 4053, in G. comm., 1987, II, 725) la quale ha sancito la nullità, per violazione del divieto dei patti successori, del negozio con il quale «un soggetto disponga in vita di un proprio diritto con effetti decorrenti dalla data della propria morte, attribuendo ad altro soggetto il godimento di un immobile (diritto di abitazione di un appartamento, qualificato nell'atto come comodato) a partire dal giorno in cui esso dichiarante avrà cessato di vivere, anche se strutturato nella forma di atto "inter vivos" sottoposto alla condizione sospensiva della premorienza del titolare del diritto», argomentando che tale atto dispositivo «concreta una disposizione successoria, in quanto la sua funzione è quella di permettere al dichiarante di disporre dei propri beni e dei propri diritti (e quindi della propria successione) per quando avrà cessato di vivere. Si tratta perciò di un negozio a causa di morte e non di un negozio connesso alla morte, che preveda cioè effetti in qualche modo dipendenti dalla morte di una persona».
Problematica è un'altra figura di donazione prevista dal codice civile, ossia, la donazione con riserva di disporre. L'art. 790 cod. civ. dispone che "Quando il donante si è riservata la facoltà di disporre di qualche oggetto compreso nella donazione o di una determinata somma sui beni donati, e muore senza averne disposto, tale facoltà non può essere esercitata dagli eredi". La norma sembra essere chiara, ma solo all'apparenza. Anche nella donazione riservata il trasferimento della proprietà delle cose donate è attuale a favore del donatario. In questa sede, si tralascia l'annoso problema della natura di detto negozio (risolutivamente condizionata secondo la dottrina tradizionale), per soffermarci su di un altro profilo: la riserva di disporre altro può considerarsi uno strumento a tutela degli interessi del donante? Da qui, la dottrina più moderna ha preso lo spunto per affermare che la riserva di disporre non è che il mezzo per consentire al donante di rivedere l'assetto iniziale dei propri interessi. Si faccia un esempio: donazione dell'azienda a uno dei figli del donante, quello ritenuto più idoneo allo svolgimento dell'attività imprenditoriale e il quale, invece, si riveli del tutto inadeguato alla conduzione dell'azienda (tale ipotesi può considerarsi superata alla luce di quello che si dirà oltre in tema di patto di famiglia). In pratica, la riserva di disporre presupporrebbe, anche se la legge non lo dice espressamente, che il donante sia un soggetto che ha un programma negoziale da attuare e che l'esercizio della riserva diviene lo strumento di controllo dei comportamenti del donatario (A. Natale, "La donazione con riserva di disporre una prestazione assistenziale in favore del donante", in Famiglia, persone e successioni, 2012, pag. 127 ss.).
Con il recepimento del contratto di affidamento fiduciario attraverso la Legge 22 giugno 2016 n. 112 (Legge sul "Dopo di noi"), la donazione con riserva potrebbe avere un ruolo molto meno marginale perché il programma negoziale sotteso alla riserva può essere raggiunto attraverso il contratto di affidamento fiduciario che però non presenta quelle medesime lacune della disciplina, né i medesimi limiti di oggetto e di quantità che nella prassi hanno marginalizzato la donazione con riserva (cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, pag. 299).
2. Il patto di famiglia
Le imprese familiari rappresentano un plusvalore per il tessuto economico italiano se si considera che il nostro sistema economico è caratterizzato dalla grande diffusione di imprese a matrice familiare. Ma spesso, i patrimoni aziendali sono oggetto di litigiosità quando si apre una successione, perché una stima cristallizzata, fondamentale per avviare una divisione ereditaria, o anche solo per scongiurare la lesione della quota di legittima, per sua natura non prende in considerazione fattori dinamici tesi alla produzione, agli scambi e in definitiva alla generazione di ricchezza. Almeno sulla carta, più semplice appare la stima delle partecipazioni sociali, se si guarda allo stato di salute della società e alla periodica distribuzione degli utili assicurata agli investitori. Ma anche in questo caso, si può assistere ad una disgregazione negli assetti di forza decisi in assemblea e un'instabilità decisionale spesso molto rilevante. Attraverso lo strumento classico del testamento, in caso di scomparsa dell'imprenditore, la moglie e i suoi figli (non tutti molto spesso, con esperienze imprenditoriali) subentrerebbero, in quanto eredi legittimari, nell'azienda familiare e con molta probabilità, si assisterebbe alla cessione della stessa nel breve – medio termine.
L'art. 2 della legge 14 febbraio 2006 n. 55 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto denominato "patto di famiglia" che consente di bypassare i limiti propri del testamento (come pure della donazione). In conseguenza di tale modifica, all'interno del Codice civile è stato aggiunto dopo l'art. 768, il Capo V-bis, formato da sette articoli (dal 768 - bis al 768 – octies cod. civ.) e contestualmente, si è modificato l'art. 458 cod. civ. in tema di patti successori. (L'originario articolo 458 del cod. civ. prevedeva la nullità di qualsiasi atto con cui un soggetto disponesse della propria successione e dei diritti che potevano derivargli da una successione non ancora aperta. In dottrina si è affermato: "la liquidazione dei diritti di legittima ... a favore dei partecipanti al patto si atteggia come un patto successorio, come tale volto a definire da subito, tra i contraenti, i futuri assetti successori." Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006). Il patto di famiglia consente all'imprenditore di predisporre, o meglio, programmare la successione nella propria impresa finché è ancora in vita, gestendone il passaggio alla generazione successiva e al contempo, definendo le ragioni azionabili in sede di successione mortis causa e di divisione ereditaria da soggetti portatori di interessi potenzialmente configgenti con quelli dell'impresa medesima. consente all'imprenditore di pianificare il cd. "passaggio generazionale" attraverso il trasferimento (a titolo gratuito) della propria azienda (individuale o collettiva ed in quest'ultimo caso limitatamente alla quota di propria competenza) ad alcuni dei propri discendenti, senza che l'operazione possa poi essere messa in discussione da parte degli altri familiari/legittimari.
L'art. 768-bis cod. civ. definisce il patto di famiglia come il "contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l'azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti". La disposizione non può che operare con riguardo a quelle partecipazioni sociali che, per loro natura, assicurano un "potere di gestione" in capo al relativo titolare; ove tale utilità o strumentalità non fosse ravvisabile, cesserebbe la stessa ragion d'essere della deroga al divieto dei patti successori, risolvendosi la partecipazione sociale in un "investimento", ma non certo in un "bene produttivo".
L'essenza del patto di famiglia non risiede, peraltro, nella vicenda traslativa inter vivos, realizzabile evidentemente anche prima ed a prescindere da queste norme; quanto piuttosto nella disciplina dettata dai successivi articoli, che prevedono - a fronte della "liquidazione" dei legittimari da effettuarsi con lo stesso o con successivo contratto - il non assoggettamento a collazione e riduzione della liberalità effettuata al discendente, realizzando, conseguentemente, un particolare "effetto di stabilità" del trasferimento dell'azienda o delle partecipazioni sociali. Si tratta di motivo rinvenibile nel corso dei lavori preparatori dei diversi disegni di legge che si sono avvicendati: la relazione presentata alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati al disegno di legge n. C- 3870 nella riunione del 23 settembre 2003, ove si evidenzia la "necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all'attività d'impresa", e di "consentire all'imprenditore di disporre liberamente della propria azienda per il periodo successivo alla propria morte, purché in accordo con i componenti della propria famiglia"; analogamente, nell'intervento del relatore alla riunione della medesima Commissione del giorno 11 marzo 2004, si parla di "garantire la continuità della gestione delle piccole imprese."
La ratio del patto di famiglia, è infatti, quella di «(...) conciliare il diritto dei legittimari con l'esigenza dell'imprenditore che intenda garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più discendenti, prevedendo da una parte la liceità degli accordi in tal senso, dall'altra la predisposizione di tutela di legittimari che siano stati esclusi dalla proprietà dell'azienda (o dalla titolarità delle partecipazioni sociali).» Relazione alla proposta di l. n. 3870 dell'8.4.2003.
Questi obiettivi erano irrealizzabili in un ordinamento, come il nostro, incapace di operare una ripartizione preferenziale in ragione della natura dei cespiti caduti in successione.
3. Il prestito vitalizio ipotecario: cosa è e come funziona
Con la L. 2 aprile 2015, n. 44, la galassia degli strumenti finalizzati ad agevolare l'accesso al credito in una condizione congiunturale di difficoltà si è accresciuta: la legge citata, infatti, inserisce all'interno dell'art. 11-quaterdecies D.L. n. 203 del 2005 una serie di commi (dal 12 al 12-sexies) che vanno a regolamentare l'istituto del prestito vitalizio ipotecario, nuova tipologia di finanziamento a medio e lungo termine, che consente la capitalizzazione annuale di interessi e di spese, concedibile da Istituti di credito e da intermediari finanziari iscritti nell'apposito albo tenuto ex art. 106 T.U.B. (D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385) presso la Banca d'Italia.
Il prestito viene garantito da una ipoteca di primo grado da accendersi su immobili residenziali ed è destinato solo alle persone fisiche che abbiano compiuto i sessanta anni di età che ottiene a mutuo una somma offrendo in garanzia un immobile con l'impegno di restituire il capitale (ovviamente maggiorato di interessi e spese) al verificarsi di una serie di eventi, primo fra i quali la morte del mutuatario, ossia, dello stesso beneficiario.
La legge peraltro consente alle parti di pattuire una restituzione rateizzata degli interessi e delle spese in una fase antecedente al verificarsi di questi eventi.
Il beneficiario resta quindi proprietario dell'immobile offerto in garanzia ed è destinatario di tutti gli obblighi (in primo luogo quelli tributari e amministrativi) connessi alla sua posizione. Solo una serie di poteri risultano compressi nella misura in cui al loro esercizio risulti il verificarsi di uno degli eventi dai quali la legge fa scaturire l'obbligo del beneficiario del prestito di procedere all'integrale restituzione delle somme, come ad esempio, il trasferimento, parziale o totale, della proprietà del bene o di altri diritti reali su di esso.
3. 1. Le modalità di rimborso del credito
Le modalità di rimborso del finanziamento sono regolate dai commi 12 e 12-bis del citato art. 11-quaterdecies D.L. n. 203 del 2005 il quale prevede che il beneficiario del prestito al verificarsi di alcune condizioni specificamente previste dalla norma, provveda al rimborso integrale delle somme mutuate.
Tale obbligo sorge:
a) al momento della morte del beneficiario. Lo strumento del prestito vitalizio ipotecario considera il decesso del mutuatario quale evento primario a cui riconnettere l'obbligo di restituzione integrale del capitale mutuato e, pertanto, si va ad intersecare naturalmente con le dinamiche (e la disciplina) della successione mortis causa.
b) qualora venga trasferita in tutto o in parte la proprietà dell'immobile dato in garanzia oppure qualora vengano trasferiti in tutto o in parte altri diritti reali o di godimento relativi all'immobile stesso (si pensi alla costituzione di un usufrutto in favore di terzi sull'alloggio dato in garanzia)
c) qualora vengano compiuti atti che comportino una riduzione significativa del valore dell'immobile dato in garanzia (ed in tal senso la norma include espressamente la costituzione in favore di terzi di diritti reali di garanzia che vadano a gravare sul bene).
L'ipoteca a garanzia del finanziamento non può essere iscritta contemporaneamente su più immobili di proprietà del beneficiario.
Il comma 12-quater disciplina le facoltà dell'Istituto di credito in ordine all'ipoteca così iscritta in caso di mancato adempimento da parte del mutuatario.
In particolare, se il rimborso del finanziamento non viene effettuato nel termine di dodici mesi dal verificarsi di uno degli eventi che lo impongono (morte del beneficiario, trasferimento della proprietà sull'immobile, compimento di atti che ne riducano il valore, ecc...) il finanziatore può procedere alla vendita dell'immobile ad un valore pari a quello di mercato.
Il valore di mercato del bene va determinato mediante l'intervento di un perito indipendente incaricato dal finanziatore.
Se nell'arco dei successivi dodici mesi non si perfeziona la vendita al valore così determinato, il valore stesso viene decurtato del 15%.
E così si procede ogni dodici mesi con ulteriori decurtazioni di pari entità finché non si giunge alla vendita dell'immobile.
Il ricavato della vendita va quindi utilizzato in via prioritaria per estinguere il credito vantato dall'Istituto mutuante e le somme eventualmente in eccesso andranno restituite al mutuatario.
La norma, in alternativa a questa procedura, consente all'erede del beneficiario di accordarsi con la Banca per provvedere alla vendita dell'immobile a patto che questa si perfezioni nel termine di dodici mesi.
È opportuno sottolineare che l'importo del debito residuo non può superare il ricavato della vendita dell'immobile, al netto delle spese sostenute.
4. Il trust
Il trust è un istituto estraneo agli ordinamenti di civil law, è di origine anglosassone, appartenente alla cultura giuridica e all'esperienza dei paesi di common law; è stato riconosciuto e regolamentato dalla Convenzione dell'Aja, e definito come "un rapporto giuridico istituito da una persona, - con atto tra vivi o mortis causa- qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine determinato".
Il trust fa ingresso nel nostro sistema giuridico poiché il legislatore ha ratificato la Convenzione de L'Aja del 1985 sulla "Legge applicabile ai trusts ed al loro riconoscimento", senza addurre alcuna riserva, con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992. La Convenzione non ha avuto l'effetto di introdurre il trust in Italia o in altri paesi, ma si è limitata a disciplinare il conflitto delle leggi nello spazio e la scelta della legge applicabile, permettendo in questo modo ai trusts, indipendentemente dalla legge dalla quale sono disciplinati, di produrre effetti nei cosiddetti ordinamenti "non trust".
L'art. 2 della Convenzione stabilisce che "per trust s'intendono i rapporti giuridici istituiti da una persona, il disponente, - con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell'interesse di un beneficiario o per un fine determinato".
Da tali disposizioni si evince che l'aspetto centrale del trust sta nell'individuare un interesse da perseguire, attraverso una serie di rapporti finalizzati alla realizzazione di quell'interesse. Negli ordinamenti di common law, dove le leggi non sono codificate e il ruolo della giurisprudenza è fondamentale per stabilire i comportamenti, gli elementi che connotato il trust sono almeno tre:
1) l'affidamento: quello del disponente che perde la disponibilità dei beni a favore del trustee per effetto del trasferimento e quello dei beneficiari di veder rispettato lo scopo del trust;
2) la segregazione: non vi è confusione dei beni o dei diritti nel patrimonio del trustee con la conseguenza che i creditori personali del trustee non possono aggredire i beni in trust;
3) la perdita del controllo sui beni: chi ha istituito il trust perde ogni controllo sui beni e sui diritti trasferiti al trustee. L'art. 2 della Convenzione dell'Aja del 1° luglio 1985 ultimo comma, tuttavia, consente che il disponente possa conservare alcuni diritti e facoltà di regola esercitati con l'invio al trustee delle c.d. "lettere di raccomandazione" con le quali il disponente interviene in maniera non vincolante sull'operatività del trustee.
La Convenzione dell'Aja riconosce soltanto i trusts espressamente istituiti, coinvolgenti sempre tre soggetti (il disponente o settlor, il trustee ed il beneficiary):
- il settlor che trasferisce il bene o il diritto al trust;
- il fiduciario o trustee che acquista la proprietà del bene (ossia, la proprietà tutelata dalla common law);
- il beneficiario che acquista la proprietà del bene stesso (ossia, la proprietà tutelata).
I soggetti coinvolti non devono essere necessariamente tre: un soggetto può istituire un trust del quale sia egli stesso tanto trustee quanto beneficiario (o solo il trustee o solo il beneficiario): i tre soggetti della configurazione elementare possono quindi essere due o perfino uno solo.
Appare opportuno ricordare che l'effetto di qualsiasi trust è quello di segregare una posizione soggettiva e destinarla a una specifica finalità. Il disponente (generalmente i genitori nel caso di trust a favore di disabili) si spoglia dei beni che trasferiscono al trustee con l'incarico di amministrarli e gestirli secondo le disposizioni contenute nell'atto istitutivo. I beni attribuiti al trustee non possono esser aggrediti dai creditori del disponente (salvo casi particolari), dai creditori dei beneficiari, dai creditori del trustee e non cadono nella successione del trustee medesimo.
Caratteristica indefettibile del trust è la "segregazione patrimoniale", la quale postula che i beni trasferiti in trust, e per tutta la sua durata, sono intangibili alle pretese di terzi, ed in particolare dei creditori del disponente, del trustee e dei beneficiari. A norma dell'art. 11 della Convenzione de L'Aja, la segregazione costituisce l'effetto minimo del riconoscimento di un trust istituito conformemente alla legge regolatrice.
Un trust esiste in relazione ad una proprietà identificata. Il proprietario assoluto del trust fund, o settlor, crea il trust nominando un trustee per tenere il trust fund in trust per il beneficiario prescelto. La creazione del trust da parte del settlor è detta dichiarazione di trust. Il settlor deve avere la totalità dei diritti nella proprietà prima della dichiarazione di un trust. La dichiarazione di trust comporta una divisione nel titolo della proprietà organizzata in trust: il titolo legale è trasferito al trustee, così che il trustee acquista tutti i diritti di common law nella proprietà e appare come titolare al mondo esterno, mentre il titolo equitativo è attribuito al beneficiario. Sulla base del diritto dei trusts, l'interesse equitativo si deve considerare l'interesse definitivo nel trust fund; ciò significa che il beneficiario acquista diritti proprietari equitativi nel trust fund ed anche un complesso di azioni personali contro il trustee per assicurare che il trustee persegua i termini del trust. Nel suo schema generale, il trust implica, pertanto, che un soggetto, settlor, trasferisca, con atto tra vivi, revocabile o irrevocabile, o con atto mortis causa, ad un altro soggetto, trustee, la titolarità di uno o più diritti, conferendogli l'incarico di utilizzare i medesimi a vantaggio di un terzo soggetto beneficiario ovvero per il perseguimento di uno scopo.
La fattispecie costitutiva del trust si compone di due negozi distinti, ma collegati: un negozio istitutivo, che contiene le regole cui il trustee dovrà attenersi nell'amministrazione del trust fund, ed un negozio dispositivo, che attua il trasferimento dei beni dal disponente al trustee. In attuazione del negozio istitutivo del trust non viene in essere nessun nuovo soggetto di diritto, ma ciò che viene trasferito al trustee, il quale sarà titolare della legal ownership, cioè del diritto di proprietà tutelato at law, diviene oggetto di un patrimonio separato dal suo patrimonio personale, conseguentemente inattaccabile dai creditori personali sia del trustee stesso, sia del disponente che del o dei beneficiari.
* a cura di Valeria Cianciolo, Foro di Bologna
Femminicidio e Patriarcato nell’ambito della violenza di genere
di Vincenzo Lusa e Matteo Borrini*