Civile

I costi indeducibili e la presunzione di distribuzione di reddito ai soci nella srl a ristretta base partecipativa

Nota a sentenza 2 febbraio 2021 n. 2224, Corte di Cassazione, Sezione V Civile

di Maurizio Conti*

La Corte di Cassazione Sez. V con la sentenza n. 2224/21 ha ritenuto che la presunzione di distribuzione ai soci del maggior utile, accertato in capo ad una srl a ristretta base partecipativa, trovi applicazione anche nel caso di costi indeducibili. La sentenza (che non è la prima in materia) invita ad una riflessione per valutare dove si dovrebbe porre un limite alla possibilità di ricavare interpretativamente fattispecie tassabili.

E' oramai principio acquisito in giurisprudenza che l'accertamento di un maggior imponibile in capo alla srl a ristretta base faccia presumere, salva prova contraria, la distribuzione di esso ai soci.

Il principio, di buon senso nel suo incipit, è che se pochi sono i soci allora si può presumere che si siano spartiti il reddito non dichiarato; spetterà loro dimostrare che invece ha avuto una diversa destinazione, cioè una destinazione societaria.

Il principio però deve sempre fare i conti con la realtà e con la considerazione che in materia tributaria una prova difficile da fornire si trasforma di fatto nella sottoposizione a tassazione di un reddito non percepito e quindi nella violazione di un altro principio, di ben più elevato rango, che è il principio costituzionale di capacità contributiva.

L'automatismo, maggior reddito uguale distribuzione di esso, vacilla già ove ci si trovi in presenza di un socio di minoranza che potrebbe essere totalmente estraneo alla gestione societaria e quindi non solo non aver percepito il maggior reddito non dichiarato, ma anche trovarsi nella posizione di non essere in grado di fornire alcuna prova per vincere la presunzione.
L'altro punto rispetto al quale il principio vacilla è quello del caso in cui il maggior utile societario sia accertato presuntivamente.

La dottrina ha spesso messo in evidenza che vi sarebbe in questo caso un divieto di presumere la sua distribuzione, non potendosi ricavare la presunzione da una precedente presunzione (le presunzioni sono le conseguenze che si ricavano da un "fatto noto" per risalire a un fatto ignorato: art . 2727 c.c.).

La giurisprudenza ha superato il punto ritenendo che il fatto noto sarebbe quello della ristretta base societaria, sminuendo così l'altro fatto che viene presupposto, per poi a sua volta presupporre la distribuzione di un maggio utile, che è proprio il fatto che un maggior utile vi sia.

I problemi si aggravano ulteriormente quando si cerca di capire, nelle applicazioni giurisprudenziali, l'origine del maggior reddito (non dichiarato) societario che può dar luogo alla presunzione di distribuzione di esso ai soci.

Il primo macroscopico caso è quello dell'accertamento di ricavi non dichiarati; in questo caso la presunzione di distribuzione può essere ritenuta ragionevole. Fa da specchio a questa ipotesi quella di costi inesistenti, simulatamente esposti al fine della determinazione del reddito; anche in questo caso la presunzione può essere ragionevole.

Quello che invece desta perplessità è il principio espresso da Cass. 2224/21 secondo cui anche in presenza di costi indeducibili, opererebbe il principio di presunzione di distribuzione del maggior reddito recuperato. Tale principio non può applicarsi ai casi di superamento dei limiti di deducibilità previsti dalla normativa fiscale rispetto a quella civilistica sul bilancio (ad esempio le spese di rappresentanza).

Questo la sentenza non lo ha detto e, se anche lo avesse espresso come principio, si tratterebbe di un principio che nel momento applicativo verrebbe totalmente neutralizzato: se la società ha sostenuto effettivamente dei costi societari, riportandoli in sede fiscale senza scorporarne la parte che fiscalmente è indeducibile, la ripresa dell'imponibile e la tassazione di esso importerebbe in realtà un minor utile distribuibile (con conseguente credito restitutorio della società verso i soci), posto che la maggior tassazione si aggiungerebbe ai costi civilistici effettivamente sostenuti nell'interesse della società.

Cass. 2224/21 ha fatto in realtà riferimento (esplicito) al principio di congruità dei costi, che sarebbe connaturato al principio di inerenza e, benché abbia asserito che il giudizio sull'inerenza debba essere qualitativo, per la Corte l'antieconomicità ed incongruità della spesa sarebbero indici rivelatori della mancanza di inerenza, ragion per cui deve escludersi la deducibilità di costi sproporzionati od eccessivi.

Non vi è chi non veda un quadro motivatorio eccessivamente sofisticato, volto in realtà a recuperare una possibilità di sindacare un operato del contribuente che sembra, dalla lettura della sentenza, meritevole di censura.

E' tanto evidente il bisogno di intervenire in una situazione di giustizia sostanziale che la Corte ha richiamato anche il principio dell'abuso del diritto, che (al di là dell'applicabilità temporale ai fatti di causa dell'art. 10 bis comma 12 dello Statuto del contribuente) ha come sua natura il presupporre la liceità dei comportamenti contestati (che non sono contrari ad obblighi fiscali, ma semplicemente inopponibili al fisco) e quindi gli argomenti anti abusivi non possono essere utilizzati per confermare un accertamento che si basi su rilievi evasivi.

Ad ogni buon conto, arrivati a ritenere recuperabili, in quanto non congruenti, i costi sostenuti dalla srl, ne consegue per la Corte la recuperabilità di essi nei confronti dei soci.

Il ragionamento in termini semplici è che se la società ha speso tanto per acquistare beni o servizi che non le servivano per produrre il reddito societario, ciò vuole dire che tali beni o servizi hanno soddisfatto un'utilità non societaria, ma dei soci: è come se la società avesse distribuito loro dell'utile ed essi avessero acquisito quel bene o servizio per fini propri. Lo sviluppo del ragionamento potrebbe portare alla conclusione che nei confronti dei soci il principio si applichi anche ove la società abbia correttamente scorporato la parte dei costi indeducibile perché non congruente; ipotesi in cui la società finirebbe col "denunciare" i soci di aver percepito un reddito (problemi di ritenuta a parte).

La conclusione cui è arrivata la Corte, ed a maggior ragione la possibilità di recupero nei confronti dei soli soci nel caso in cui la società abbia considerato indeducibile la parte eccedente il parametro di congruità, è "forte" e da utilizzarsi con estrema cautela, in considerazione del fatto che il legislatore fiscale si è fatto carico di disciplinare minuziosamente le tipologie di reddito e la disciplina dei beni utilizzati ad uso promiscuo, così che fuori da tali ipotesi lo spazio lasciato all'interprete deve essere minimo e senz'altro non di generale supplenza. E soprattutto occorre considerare che per i soci si può ipotizzare solo un reddito di capitale e quindi il riferimento cadrebbe necessariamente sull'art. 47 comma 3 TUIR, cioè la distribuzione di utili in natura.

Anche volendo superare il problema della delibera di distribuzione, rimarrebbe pur sempre il fatto che un utile vi debba essere e quindi la necessità della prova (questa a carico dell'Agenzia) che l'aver permesso ai soci di godere di beni o servizi pagati dalla società è equivalso ad una distribuzione di utile, altrimenti vi sarebbe un obbligo di pagamento dei soci nei confronti della società e quindi un loro debito, che è concetto contrario a quello di percezione di reddito.

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*Avv. Maurizio Conti, Studio legale Conti, Partner 24 ORE Avvocati

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