Impresa familiare estesa al convivente di fatto
Dopo l’intervento della Consulta del 2024, le Sezioni unite (n. 11661/2025) prendono atto del nuovo corso accogliendo il ricorso di una donna nei confronti degli eredi del proprio partner
Prime applicazioni della sentenza n. 148/2024 della Corte costituzionale che ha aperto, anche per il passato, al pieno riconoscimento del convivente di fatto come soggetto partecipe dell’“impresa familiare”. Le S.U. Civili, sentenza n. 11661/2025, hanno infatti cassato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Ancona che aveva rigettato la domanda proposta dalla convivente di fatto (nei confronti dei figli del proprio partner, in quanto suoi eredi) per l’accertamento del proprio diritto a partecipare alla liquidazione di un’impresa familiare in cui aveva lavorato per otto anni, sul presupposto dell’insussistenza di un rapporto di coniugio e tenuto conto dell’inapplicabilità ratione temporis dell’art. 230-ter c.p.c.
Nell’ordinanza di rinvio alla Consulta, la Sezione Lavoro, dopo aver ricordato l’orientamento di legittimità secondo il quale presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una famiglia legittima con la conseguenza che l’articolo 230-bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica, ha ritenuto che lo stesso fosse meritevole di una revisione alla luce sia degli interventi legislativi e/o per via giurisprudenziale realizzanti una “apertura” nei confronti della convivenza more uxorio.
Ed ha richiamato la recente introduzione dell’articolo 230-ter cod. civ., ad opera dell’art. 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), che ha previsto per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Ma ha anche affermato l’impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016, dando altresì atto dell’evoluzione che si è avuta nella società con sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 148/2024, accogliendo i rilievi della Cassazione, ha poi dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevedeva come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, ciò per la violazione del diritto fondamentale al lavoro (artt. 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (art. 2 Cost.), nonché per violazione dell’art. 3 Cost.; ha dichiarato, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11.3.1953 n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 230-ter codice civile che - nell’attribuire allo stesso una tutela ridotta, non comprensiva del riconoscimento del lavoro nella famiglia, del diritto al mantenimento, nonché dei diritti partecipativi nella gestione dell’impresa familiare - comporta un ingiustificato e discriminatorio abbassamento di protezione.
A questo punto le S.U. non hanno potuto far altro che accogliere il ricorso. “Le censure – si legge nella decisione - ruotano su una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 230-bis cod. civ., anche in relazione all’art. 230-ter cod. civ., e pongono in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell’art. 230-ter cod. civ. e della impossibilità di un’applicazione estensiva dell’art. 230-bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall’impossibilità di qualificare la Uberti come familiare ai sensi dell’art. 230-bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l’effettività e la continuatività dell’apporto lavorativo della predetta nell’impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell’accrescimento della produttività dell’impresa”. “È evidente – prosegue la Corte - che l’intera ratio decidendi va rivista alla luce del pronunciamento della Corte costituzionale”.
Ricorso accolto, dunque, e processo da rifare davanti alla Corte d’appello di Ancona alla luce della pronuncia del Giudice delle leggi.
Revocatoria ordinaria dell’atto di scissione, competente il tribunale delle imprese
di Carola Pagliuca e Davide di Marcantonio (*)