Civile

L’istituto dell’allerta non va depotenziato

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di Stefano Ambrosini

La grande novità della legge sulle crisi d’impresa è rappresentata dalle misure di allerta. Il testo uscito dalla commissione di riforma prevedeva soglie troppo basse ai fini della segnalazione da parte dei creditori pubblici qualificati (Fisco e Inps) e il governo ha opportunamente provveduto a innalzarle, con ciò evitando di incorrere in rischi di overdeterrence e di gravare il sistema di una mole abnorme di segnalazioni. Ma il vero nodo politico riguarda in questo momento l’allerta interna, cioè l’obbligo di segnalazione in capo agli organi di controllo societari. E al riguardo viene ovviamente in evidenza, tra l’altro, la disciplina sul sindaco unico e sul revisore nelle pmi, perché è chiaro che quanto più in alto si colloca l’asticella dei parametri che rendono obbligatoria la nomina dell’organo di controllo, tanto più si riduce l’ambito di operatività delle misure di allerta, che peraltro in base all’odierna formulazione risulta ancora troppo ampio.

La ricerca del punto di caduta è delicata ed è diffusa l’opinione che vadano aumentati i parametri introdotti dall’articolo 379 del Codice della crisi: attivo dello stato patrimoniale, ricavi delle vendite e delle prestazioni e numero di dipendenti occupati. I modi corretti di agire in chiave modificativa sono a mio avviso due, non necessariamente alternativi l’uno all’altro.

Il primo consiste nel rendere gli attuali parametri compresenti (oggi basta che ne sia superato uno soltanto) e stabilmente ravvisabili (per due o tre anni consecutivi). La seconda modalità, forse preferibile pur tenendo ferma la sussistenza di almeno due parametri su tre, contempla un aumento delle soglie: si potrebbe portare l’entità sia dell’attivo che dei ricavi a un importo fra i 4 e i 5 milioni di euro e incrementare il numero di dipendenti (fra 20 e 25), anche se si dovrebbe riflettere sull’utilità della permanenza di quest’ultimo parametro, alla luce del possibile effetto disincentivante per gli imprenditori rispetto alla propensione a nuove assunzioni.

Ciò che bisognerebbe evitare è rendere queste soglie così elevate da snaturare l’istituto dell’allerta, i cui destinatari elettivi sono pur sempre le Pmi, essendo escluse dal relativo ambito di applicazione le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevanti dimensioni e le società quotate.

E troppo elevati risulterebbero, quasi certamente, parametri che andassero oltre i 5 milioni di euro, giacché in tal caso la no alert zone risulterebbe a tal punto vasta da depotenziare in misura eccessiva lo strumento, frustrandone le finalità. La questione è dunque solo apparentemente tecnica, perché sottende in realtà un nodo tutto politico.

Occorre infatti domandarsi: la cultura della tempestiva emersione della crisi, con quanto di positivo ne consegue a livello di “sistema paese”, è davvero considerata dal legislatore una priorità e un valore? La risposta dipenderà precisamente dalla disciplina dell’allerta interna, vero banco di prova delle reali intenzioni della maggioranza di governo.

Quanto alla paventata difficoltà, di fronte al numero di ipotetiche segnalazioni, a reperire professionisti che vadano a comporre gli Ocri, meriterebbe prendere in considerazione l’idea di rinunciare, per le situazioni connotate da minor complessità, a un organo collegiale, sembrando in effetti sufficiente la presenza di un solo esperto, non per forza di designazione giudiziale.

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