Civile

La Cassazione torna sugli effetti della rinuncia all'eredità e sulle azioni in concreto esperibili dall'Erario al fine di non incorrere in decadenze

Il chiamato all'eredità che vi abbia validamente rinunciato non risponde dei debiti del "de cuius", neppure per il periodo intercorrente tra l'apertura della successione e la rinuncia, avendo quest'ultima effetto immediato e retroattivo. Al fine di non incorrere in decadenze, il fisco può utilizzare gli strumenti offerti dal legislatore a tutela di qualsiasi creditore.

di Alessandro Vannini e Francesco Dal Santo*

Con l'ordinanza n. 21006, depositata il 22 luglio 2021, la Corte di Cassazione ha deciso una controversia in tema di effetti della rinuncia all'eredità, intervenendo altresì sui rapporti tra quest'ultima e la presentazione della dichiarazione di successione, nonché sugli strumenti di cui dispone l'Erario a tutela delle proprie istanze.

Sulla base di quanto emerge dalla ricostruzione dei fatti di causa, la vicenda ha tratto origine dalla notificazione di un avviso di accertamento ai pretesi eredi di una persona fisica titolare di una ditta individuale.

I destinatari dell'atto impositivo, soccombenti in primo grado (cfr. CTP di Brindisi, sentenza n. 113/2008), avevano visto ribaltate a proprio favore le sorti del giudizio in sede di gravame (cfr. CTR Puglia, sentenza 192/2013). In particolare, si evince dal testo dell'ordinanza che i giudici d'appello, rilevata l'intervenuta rinuncia all'eredità da parte degli appellanti, avevano escluso la natura di questi ultimi quali eredi, precisando peraltro che la presentazione della dichiarazione di successione non è atto suscettibile di determinare l'accettazione dell'eredità.

La Corte di Cassazione veniva pertanto adìta dall'Agenzia delle Entrate, la quale affidava il proprio ricorso ad un unico motivo, eccependo che la rinuncia all'eredità è revocabile entro il termine decennale dall'apertura della successione (sempre che non sia intervenuta l'accettazione da parte di altri chiamati). Di talché, essa non sarebbe opponibile all'Erario e basterebbe la sola delazione ereditaria al fine di configurare la soggettività passiva del chiamato.

La Suprema Corte ha dichiarato l'infondatezza del ricorso. Prima di esaminarne le ragioni, mette conto evidenziare un aspetto preliminare che, sulla base di quanto sancito dalla Cassazione stessa, avrebbe forse rovesciato le sorti del giudizio a favore dell'amministrazione finanziaria, se solo fosse stato oggetto di ricorso.

Al riguardo, è opportuno ricordare brevemente che l'apertura della successione determina la delazione ereditaria, ovverosia la chiamata all'eredità (457 c.c.). Sino a quando l'eredità non venga accettata secondo le modalità previste dagli artt. 470 e ss. c.c., i successibili mantengono la qualità di "chiamati" e non sono giuridicamente qualificabili come "eredi".

Nel caso di specie, come detto, i chiamati all'eredità avevano impugnato nel merito l'avviso di accertamento relativo alla posizione fiscale del de cuius e, successivamente, nel corso del giudizio di secondo grado, avevano prestato rinuncia all'eredità ex art. 519 c.c..

Sul punto la Suprema Corte ha richiamato la propria precedente giurisprudenza, secondo cui l'impugnazione nel merito di un atto impositivo costituisce un'ipotesi di accettazione tacita dell'eredità (cfr. Cass. ordinanza n. 23989/2020). In tale prospettiva, a nulla rileva che, successivamente, intervenga la rinuncia, posto che il chiamato che accetti (anche tacitamente) l'eredità si intende definitivamente decaduto dal diritto di rinunciarvi. In altre parole: semel heres, semper heres. Diverso è il caso in cui il chiamato che sia stato destinatario di un atto impositivo lo impugni eccependo la propria carenza di legittimazione passiva: tale comportamento, infatti, non manifesta l'intenzione di accettare l'eredità.

Nel caso in esame, nonostante i chiamati all'eredità fossero divenuti a tutti gli effetti eredi con l'impugnazione nel merito dell'avviso di accertamento, tale circostanza non è stata ritenuta rilevante dal giudice d'appello, né è stata oggetto del ricorso erariale innanzi alla Suprema Corte, a tutto vantaggio dei controricorrenti.

Come anticipato, l'ordinanza in commento si è poi soffermata sull'istituto della rinuncia all'eredità e sulle sue conseguenze in capo al chiamato e ai suoi creditori, ivi compreso l'Erario.

Innanzitutto, è stato ribadito che la rinuncia ha effetti ex tunc e consiste nella immediata decadenza dal diritto di accettare. Più precisamente, il rinunciante è considerato come se non fosse mai stato chiamato all'eredità (art. 521 c.c.). La rinuncia non può essere condizionata o sottoposta a termine; tuttavia, può essere revocata entro il termine decennale di prescrizione del diritto di accettazione, salvo il caso di intervenuta accettazione da parte di altri chiamati (art. 525 c.c.).

Ciò detto, il chiamato che non abbia accettato l'eredità ovvero che vi abbia rinunciato non risponde delle obbligazioni tributarie riferibili al de cuius (Cfr., ex multis, Cass. ordinanza, n. 24317/2020; Id. ordinanza n. 13639/2018). Del resto, gli art. 36, comma 1 del d.lgs. n. 346/1990 (TUS) e 65, comma 1 del d.p.r. n. 600/1973 sono chiari nell'individuare quali soggetti passivi i soli "eredi" e non già i "chiamati" (fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 36, comma 3 del TUS).

Inoltre, la circostanza che il chiamato abbia presentato la dichiarazione di successione non costituisce un'ipotesi di accettazione dell'eredità suscettibile di tramutarlo in erede (cfr. Cass. da ultimo ordinanza n. 15871/2020). Al riguardo, si consideri peraltro che l'art. 28, comma 2 del TUS riferisce tale adempimento, fra gli altri, proprio ai "chiamati".

Sotto altro profilo, tenuto conto che la dichiarazione di successione non ha alcun rilievo ai fini dell'accettazione dell'eredità, il chiamato che abbia trasmesso la dichiarazione e, successivamente, abbia rinunciato senza presentare la denuncia rettificativa prevista dall'art. 28, comma 6 del TUS non incorre in alcuna conseguenza. Le formalità dichiarative tributarie, infatti, hanno funzione di pubblicità notizia e non costituiscono requisito necessario ai fini della validità della rinuncia stessa (cfr. Cass. sentenza 8053/2017).

In secondo luogo, poi, la Cassazione ha ricordato che il codice civile già prevede una serie di strumenti a tutela delle istanze erariali nell'ipotesi in cui si protragga l'incertezza circa la devoluzione dell'eredità.

In particolare, posto che - come visto - l'accettazione può avvenire ben oltre gli ordinari termini di accertamento fiscale, l'amministrazione finanziaria può richiedere la nomina di un curatore dell'eredità giacente cui notificare validamente gli atti (art. 528 c.c., cui rinvia lo stesso art. 36, comma 4 del TUS). Parimenti, la nomina di un curatore protegge l'Erario dall'eventualità di una revoca della rinuncia, che allo stesso modo potrebbe verificarsi nel più ampio termine decennale.

Mette conto segnalare, infine, che l'art. 481 c.c. (anch'esso richiamato dall'art. 36, comma 4 del TUS) consente a chiunque vi abbia interesse di adire l'autorità giudiziaria per fissare un termine entro il quale il chiamato dichiari se accetta o rinuncia all'eredità (cd. "actio interrogatoria"). Con tutta evidenza, ciò permette di imprimere una forte accelerazione al processo di devoluzione dell'eredità (cfr. Cass. ordinanza n. 15871/2020; Id. ordinanza n. 19030/2018; Id. ordinanza n. 17970/2018).

Sotto altra prospettiva, se la rinuncia all'eredità avviene in danno dei creditori del rinunciante, questi possono agire per farsi autorizzare ad accettare l'eredità in luogo del rinunciante stesso (art. 524 c.c.).

In conclusione

i principi statuiti dall'ordinanza in commento appaiono senz'altro condivisibili e forniscono altresì interessanti spunti operativi da tenere considerazione non soltanto nella prassi accertativa, ma anche nella predisposizione delle difese da parte del contribuente.

* a cura di Alessandro Vannini e Francesco Dal Santo, partner presso DAL SANTO VANNINI

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