Lavoro

Licenziamento disciplinare, i paletti nel “sub appalto” dei controlli investigativi

La Cassazione, sentenza n. 28378 depositata oggi, ha accolto il ricorso di un dipendente contro Telecom Italia perché il pedinamento era avvenuto con investigatori di una società terza non precedentemente identificati

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di Francesco Machina Grifeo

La Sezione lavoro delimita i confini del “sub appalto” nelle investigazioni private disposte dalle aziende per le contestazioni disciplinari nei confronti dei propri dipendenti. Al centro vi è un problema di privacy che obbliga a tenere sempre traccia di chi stia effettivamente conducendo l’investigazione. La Cassazione, sentenza n. 28378 depositata oggi, ha così accolto, con rinvio, il ricorso di un dipendente di Telecom Italia licenziato dopo che la Telco aveva accertato lo svolgimento di un secondo lavoro durante i servizi esterni, gonfiando il numero di ore lavorate.

Le prove raggiunte dalla società tramite l’agenzia investigativa sono state cestinate dalla Suprema corte in quanto il pedinamento era stato affidato a due investigatori della “Tom Ponzi” e non dipendenti di “Sicuritalia”, la società a cui la Telecom aveva dato l’incarico. E se è vero che nel mandato investigativo era previsto (ai sensi del Dlgs. n. 196/2003) che Sicuritalia potesse avvalersi di investigatori esterni alla propria struttura, però veniva anche precisato che in quel caso doveva indicare i relativi nominativi in calce all’atto di incarico, una indicazione che invece è mancata sia ab origine, sia ex post in calce al mandato ricevuto.

Secondo le “Regole deontologiche relative ai trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per fare valere o difendere un diritto in sede giudiziaria pubblicate” pubblicate dal Garante privacy: “L’investigatore privato deve eseguire personalmente l’incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all’atto del conferimento dell’incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell’atto di incarico”.

Sul piano processuale, dunque, è accaduto che la preclusione di avvalersi dei predetti dati come mezzo di prova ha colpito non solo le parti ma ha anche impedito al giudice di fondare il proprio convincimento “su fatti dimostrati dal dato acquisito in modo non rispettoso delle regole dettate dal legislatore e dai codici deontologici”. “Questa assolutezza”, prosegue la decisione, si spiega perché “la ratio della norma è quella di scoraggiare la ricerca, l’acquisizione e più in generale il trattamento ‘abusivi’ di dati personali e per realizzare questa funzione il rimedio previsto dal legislatore è quello di impedirne la realizzazione dello scopo (id est la successiva utilizzazione di quei dati)”.

È venuta meno dunque la possibilità stessa del “raffronto di quei dati con quelli dichiarati dal dipendente nel sistema WFM (il software aziendale, ndr) e, quindi, la possibilità di verificarne la veridicità e, in ultima analisi, di contestarne la falsità mediante il procedimento disciplinare”. In tal senso, prosegue la decisione, “l’inutilizzabilità, proprio perché ‘assoluta’ (ratione temporis), opera già in fase extraprocessuale e, quindi, sul piano sostanziale nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato come limite al potere datoriale”.

La Cassazione ha così affermato i seguenti principi di diritto:

«1) i codici deontologici di cui al d.lgs. n 196/2003 hanno natura normativa e pertanto possono e devono essere individuati ed applicati anche d’ufficio dal giudice (iura novit curia);
2) la violazione dei predetti codici deontologici può essere fatta valere con ricorso per cassazione ex art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. e determina l’inutilizzabilità dei dati così raccolti;
3) l’inutilizzabilità dei dati raccolti in violazione dei codici deontologici di cui al d.lgs. n. 196/2003, nel periodo anteriore alla novella introdotta dal d.lgs. n. 101/2018, è da intendersi come “assoluta”, quindi rilevante in sede sia processuale che extraprocessuale;
4) tale inutilizzabilità “assoluta” determina l’impossibilità sia per il datore di lavoro di porli a fondamento di una contestazione disciplinare e poi di produrli in giudizio come mezzo di prova, sia per il giudice di merito di porli a fondamento della sua decisione».

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