Responsabilità

Liquidazione danno morale: la mancata allegazione di elementi specifici non ha provato il fatto

La vicenda presa in esame dagli Ermellini riguarda un risarcimento del danno biologico subito da un lavoratore per esposizione ad amianto

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di Valerio Zinga


In linea con l'arresto delle SS. UU. 26972/2008 secondo cui, mentre per il danno biologico l'accertamento medico legale è il mezzo di prova al quale comunemente si ricorre, per il pregiudizio non biologico, relativo a beni immateriali, il ricorso alla prova presuntiva è destinata ad assumere particolare rilievo, nonché con il principio secondo cui il danneggiato ha l'onere di allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto. Così l'ordinanza n. 1405 del 22 gennaio 2021, depositata dalla Sezione Lavoro della Suprema Corte di cassazione, torna a ribadire alcuni punti saldi inerenti la dimostrazione circa la liquidazione del danno morale.

La vicenda presa in esame dagli Ermellini riguarda un risarcimento del danno biologico subito da un lavoratore, scaturito dall'esposizione ad amianto e ad altre sostanze morbigene sul luogo di lavoro.

Il Tribunale di Massa, che pure aveva accolto la richiesta di risarcimento promossa dagli eredi del lavoratore nei confronti della datrice di lavoro del de cuius in relazione al danno biologico, respingeva quella volta a veder riconosciuto il danno morale soggettivo e il danno cosiddetto esistenziale.

La Corte di appello di Genova, con sentenza n. 435/2016, confermava la sentenza di primo grado rilevando, con particolare attenzione al danno morale, che lo stesso, pur avendo una sua specificità come voce del danno non patrimoniale, era soggetto alle regole generali di allegazione e prova, e che il pregiudizio doveva essere obiettivamente riconoscibile come conseguenza dell'illecito, non essendo sufficiente la deduzione di generici stati d'animo (stress, disagio, angoscia) del tutto disancorati da elementi obiettivi sulla scorta dei quali poter inferire un concreto peggioramento della vita interiore, affettiva e di relazione.

Gli eredi del de cuius proponevano quindi ricorso per Cassazione, adducendo l'erroneità delle conclusioni formulate dalla Corte territoriale in relazione all'esclusione della sussistenza del danno morale e/o esistenziale la quale non avrebbe ritenuto applicabile il ricorso alle presunzioni, seppur semplici, nonostante la deduzione, sin dal primo grado, di puntuali e precise allegazioni.

La Suprema Corte, respinge il ricorso, confermando quindi il verdetto della Corte di Appello, con la pronuncia in commento, osservando quanto nel seguito.
Secondo gli Ermellini la ratio decidendi applicata dalla Corte territoriale nel ritenere non dimostrato il danno morale e/o esistenziale è esente da qualsivoglia vizio. La decisione prende le mosse dall'arresto a Sezioni Unite n. 26972/2008 con il quale avendo statuito che, al di fuori dei casi di risarcibilità previsti direttamente dalla legge, il danno non patrimoniale è risarcibile unicamente se derivato dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, è stato respinto sia la tesi che identifica il danno nella lesione stessa del diritto (danno – evento) che la variante costituita dalla affermazione che nel caso di lesione di valori alla persona il danno sarebbe in re ipsa. Entrambe le tesi, infatti, snaturerebbero la funzione del risarcimento in quella di una pena privata per un comportamento lesivo.

Ne scaturisce, dal ragionamento attuato dalle Sezioni Unite e richiamato dall'ordinanza in oggetto che, per quanto concerne il risarcimento del pregiudizio non biologico, relativo a danni immateriali, seppur il ricorso alla prova presuntiva assuma particolare rilievo, non potrà non basarsi sul principio secondo cui il danneggiato deve allegare tutti gli elementi che, nel caso concreto, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

La Suprema Corte rileva quindi che la Corte territoriale non ha in alcun modo negato la rilevanza delle presunzioni ai fini della prova del danno non biologico bensì ha affermato che, nel caso in esame, non erano stati allegati elementi obiettivi, dotati di un sufficiente grado di specificità, sulla base dei quali risalire alla sofferenza e al cambiamento delle abitudini di vita derivati dalla consapevolezza dell'esposizione lavorativa ad agenti nocivi.

Ne consegue che la mancata allegazione di elementi obiettivi specifici ha impedito di inferire la prova per presunzioni e, pertanto, l'iter argomentativo della Corte d'Appello appare dunque corretto, fondandosi non sulla inammissibilità della prova per presunzioni bensì sulla genericità delle allegazioni indizianti.

La Suprema Corte, quindi, rigetta il motivo d'appello proposto deducendo che non è impugnabile in sede di legittimità con la deduzione del vizio di violazione di norme di diritto il giudizio di fatto circa la genericità delle allegazioni e dei capitoli di prova e circa la loro idoneità al raggiungimento della prova bensì unicamente con la denunzia di un vizio di motivazione (nel caso di specie non più contestabile per la preclusione alla deducibilità del vizio di motivazione di cui all'articolo 348 ter, co. 4 e 5, cpc trattandosi di giudizio conformemente reso nei due gradi di merito).

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