Nessun risarcimento per il padre, se la madre rifiuta di sottoporre il neonato all'esame del Dna
La Corte di Appello di Perugia ha esaminato un caso frequente e le questioni giuridiche in gioco
La condotta della madre di un neonato che, su richiesta del padre di quest’ultimo, rifiuti di sottoporre il figlio all’esame del Dna non può dirsi antigiuridica, né essa è tale da determinare un pregiudizio risarcibile nella sfera della reputazione o personalità dell’uomo. Costui, infatti, ben può agire giudizialmente per l’accertamento della paternità naturale e ottenere in quella sede l’accertamento negato dalla donna. Ad affermarlo è la Corte d’appello di Perugia nella sentenza n. 31/2021 confermando il no al risarcimento per danni morali in favore del padre del neonato.
Il caso
Protagonista della vicenda è un uomo il quale aveva messo in crisi la sua relazione con una donna alla notizia della gravidanza di quest’ultima. Dopo la nascita del bambino, l’uomo insinuava dubbi sulla sua paternità al punto da chiedere la prova del Dna sul neonato. L’accertamento veniva però respinto fermamente dalla donna che, a sua volta, rendeva pubblica nella loro città la notizia della paternità dell’ex partner e del fatto che lo stesso non volesse assumersi “le responsabilità di padre”. La vicenda finiva così dinanzi ai giudici, non però per la problematica relativa al riconoscimento del bambino, bensì per una questione risarcitoria, ovvero la lesione dell’onore ed alla reputazione e comunque alla personalità dell’uomo, in conseguenza della condotta tenuta dalla donna.
La decisione
Dopo il verdetto di primo grado sfavorevole, anche la Corte d’appello si oppone a qualunque richiesta risarcitoria. Per entrambi i giudicanti, infatti, la condotta tenuta dalla donna non può dirsi antigiuridica, né tantomeno può ritenersi connessa al rifiuto di sottoporre il bambino al testo del Dna ogni pretesa lesione all’onore, reputazione o personalità dell’uomo, non essendo emersa alcuna prova in ordine ad un effettivo pregiudizio risarcibile nei confronti di quest’ultimo.
Ebbene, spiega il Collegio è di tutta evidenza che il rifiuto della prova del Dna della madre del bambino «giammai avrebbe potuto privare l’attore/appellante del suo diritto/dovere di riconoscere il proprio figlio, di avere significativi rapporti con il minore e di partecipare alla sua crescita, né lo avrebbe costretto a vivere nell’incertezza per le eventuali determinazioni sentimentali, posto che, a seguito di detto rifiuto, ben avrebbe potuto l’attore agire giudizialmente per l’accertamento della paternità naturale, ottenere in quella sede l’accertamento genetico negato dalla convenuta (la quale non avrebbe potuto formulare nessuna opposizione, trattandosi di accertamento non riguardante la sua persona) e, in ipotesi di accertata paternità, esercitare i relativi diritti/doveri verso il figlio».