Omesso deposito di documenti, quando non scatta la responsabilità del legale
La Cassazione, ordinanza n. 475 depositata oggi, con riguardo ad una causa di lavoro, individua un diverso motivo di rigetto della pretesa
Non scatta la responsabilità professionale dell’avvocato per il mancato deposito di documenti nel caso in cui l’omissione non possa considerarsi la causa del rigetto della domanda (di risarcimento). Il chiarimento arriva dalla Corte di cassazione, ordinanza n. 475 depositata oggi, che ha rigettato il ricorso di un ex dipendente a tempo di Poste italiane che aveva agito in giudizio per ottenere la dichiarazione di illegittimità dei diversi contratti a termine succedutisi nel tempo.
Il lavoratore dopo aver perso la causa in primo grado, decise di firmare un accordo transattivo con Poste iniziando contestualmente una causa contro il proprio legale per il risarcimento del danno asseritamente subito in conseguenza del non corretto adempimento dell’incarico professionale. La domanda venne rigettata prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’appello di Lecce. Per il Collegio di secondo grado infatti “la scelta di non proporre gravame è una condotta, ascrivibile unicamente al cliente, che vale ad interrompere il nesso causale fra l’omissione posta in essere dal difensore ed il mancato riconoscimento di una somma a titolo di risarcimento del danno”. Subito aggiungendo, però, nell’ottica della ragione più liquida, che “il giudizio prognostico … porta ad escludere che il lavoratore avrebbe potuto ottenere, anche ove l’omissione non ci fosse stata, il risarcimento del danno”.
Il rigetto della domanda infatti era basato non solo sull’omesso deposito della documentazione (dichiarazione dei redditi finalizzata ad accertare una eventuale altra attività lavorativa retribuita), ma anche sul fatto che era “intercorso un notevole lasso di tempo (quattro anni e mezzo) fra la scadenza del secondo contratto (1999) e l’iniziativa del lavoratore (2004)”, “essendo tale arco temporale, se non certamente ed univocamente sintomatico della volontà di porre fine al rapporto di lavoro”, comunque certamente valutabile come “argomento di prova idoneo a far ritenere che avesse reperito un’altra occupazione”.
Un ragionamento condiviso dalla Terza sezione civile secondo cui tali affermazioni “costituiscono una autonoma ratio decidendi … con esse, la corte d’appello ha, infatti, sostanzialmente negato che l’omissione posta in essere dal professionista officiato, nel corso del giudizio di secondo grado, potesse considerarsi l’effettiva causa del rigetto della domanda del cliente assistito”.
Con riguardo poi alla ulteriore doglianza del ricorrente condannato a pagare le spese di giudizio anche dell’istituto assicurativo (chiamato in causa dal professionista per essere eventualmente tenuto indenne dal risarcimento), “sebbene, a suo dire, si trattasse di domanda virtualmente infondata”, la Cassazione precisa che “non è sufficiente la virtuale infondatezza della domanda di garanzia proposta nei confronti del terzo chiamato in causa da parte del convenuto, e rimasta assorbita per il rigetto della principale, a giustificare l’omessa condanna dell’attore soccombente al pagamento delle spese processuali sostenute dal chiamato stesso”. “È, invece, necessario - prosegue - che la chiamata in garanzia (non sia semplicemente virtualmente infondata, ma) risulti addirittura del tutto arbitraria, in quanto priva di una logica e ragionevole connessione con la domanda principale, al punto da potersi ritenere del tutto eccentrica rispetto alla stessa e da costituire, quindi, un vero e proprio abuso dello strumento processuale e del diritto di difesa”.
Secondo la giurisprudenza di legittimità infatti “il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell’attore qualora la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall’attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l’attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda; il rimborso rimane, invece, a carico della parte che ha chiamato o fatto chiamare in causa il terzo qualora l’iniziativa del chiamante, rivelatasi manifestamente infondata o palesemente arbitraria, concreti un esercizio abusivo del diritto di difesa» (n. 6144/2024).
Tornando al caso specifico, conclude la Suprema corte, il ricorrente non ha dimostrato che la chiamata del terzo risulti “addirittura del tutto arbitraria”, al punto da potersi ritenere “del tutto eccentrica rispetto alla stessa e da costituire, quindi, un vero e proprio abuso dello strumento processuale e del diritto di difesa”.