Famiglia

Parità di genere nella relazione matrimoniale e genitoriale

Group of women against group of men isolated on the white background

di Barbara Spinella*

Sempre più frequentemente si avverte la necessità di confrontare l’evoluzione della società e l’evoluzione legislativa per quel che concerne la cd. parità di genere.

Tale confronto ha spazio nella collettività, nel mondo lavorativo, nel nucleo familiare sia per quanto attiene alla relazione matrimoniale, sia per quanto concerne la relazione genitoriale.

L’art. 29 della Costituzione come noto recita “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”.

La Carta Costituzionale era pertanto all’avanguardia già all’atto della sua pubblicazione nel 1948 nell’accordare una garanzia costituzionale relativa alla parità di genere tra marito e moglie.

Il legislatore non era pronto, invece, ad accettare tale uguaglianza: la società non era pronta ad accettare questa parità.

Sino alla riforma del diritto di famiglia del 1975, non vi erano ruoli equivalenti tra marito e moglie, né tra padre e madre.

Vi era infatti vigente la cd. potestà maritale, la quale prevedeva che l’uomo assumesse in una famiglia un ruolo predominante rispetto a quello della moglie, oltre alla patria potestà per quanto riguarda i figli. La potestà maritale toccava vari aspetti della vita matrimoniale, tra i quali il diritto della moglie coniugata di poter stipulare in via autonoma i contratti, intentare cause e amministrare beni, come anche il suo ruolo nei confronti dell’educazione dei figli, della scelta del domicilio, del lavoro e del cognome adottato dalla moglie.

Un esempio di tale potestà lo intercetta la sentenza risalente della Corte di Cassazione n. 1692 del 3 luglio 1961 che chiarisce che “con il matrimonio, la moglie non perde il diritto all’uso del proprio cognome, acquistando il diritto, ma non il dovere di aggiungervi quello del marito. L’uso del solo cognome originario da parte della donna maritata può, secondo l’incensurabile accertamento del giudice di merito, dar luogo ad ingiuria grave nei confronti del marito”.

Ciò a sostenere che l’acquisizione del cognome del marito prevedeva al tempo che la moglie acquisisse un nuovo status come donna per effetto del quale si sottometteva a quella potestà maritale che la legge al tempo attribuiva solo ed esclusivamente al marito.

Solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975, il legislatore prende atto delle indicazioni di parità formulate nella Costituzione e prevede per esempio all’art. 144 c.c. rimodellato che “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa. A ciascuno dei coniugi spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato”.

Al pari di questa professata uguaglianza nel matrimonio, veniva abrogata la patria potestà la quale prima del 1975 era esclusiva e la giurisprudenza non mancava di sottolinearlo anche quando la coppia genitoriale si separava (in questo senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 228 del 28 gennaio 1974 che stabiliva infatti che “in regime di separazione dei coniugi l’esercizio dei poteri inerenti la patria potestà non si trasferisce alla madre affidataria della minore ...”, pertanto neppure la separazione modificava la supremazia del padre sulla madre).

Dalla patria potestà si passa quindi alla potestà genitoriale, sottolineando la parità tra padre e madre, poi definitivamente sostituita dalla responsabilità genitoriale introdotta con la riforma del 2013 (legge 154/2013).

L’art. 147 c.c. riformato parla di questa parità genitoriale come indirizzo educativo e come concorso al mantenimento: “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare ed assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni ..” 

A questo proposito si rileva che in fase di separazione dei genitori, nella gestione della responsabilità genitoriale e nell’applicazione del principio di bigenitorialità (altro dogma affermato sulla parità di genere) che deve essere applicato per la tutela dei figli la Corte di Cassazione è dell’avviso che “ la regolamentazione dei rapporti con il genitore non convivente non può avvenire sulla base di una simmetrica e paritaria ripartizione dei tempi di permanenza con entrambi i genitori, ma deve essere il risultato di una valutazione ponderata del giudice del merito che..., tenga anche conto del suo diritto a una significativa e piena relazione con entrambi i genitori e del diritto di questi ultimi a una piena realizzazione della loro relazione con i figli e all’esplicazione del loro ruolo educativo” (Corte di Cassazione civile n.19323, 17/09/2020).

Nelle intenzioni, dal 1975 in poi, il legislatore ha cercato di affermare la parità di genere nel matrimonio e nella relazione genitoriale, apportando i correttivi nell’apparato legislativo preesistente, così come la giurisprudenza ha cercato nelle sue pronunce di guardare anche alla evoluzione della società.

Con la sentenza recente della Corte Costituzionale n. 131 del 2022 è stata dichiarata l’illegittimità con riferimento agli artt. 2, 3 e 117, comma 1 della Costituzione nonché dell’art. 262, comma 1 codice civile, in relazione agli articoli 8 e 14 della CEDU, nella parte in cui “l’automatismo di prendere alla nascita il cognome del padre crei disparità fra i genitori oscurando il rapporto del minore con la madre”.

Tale sancito costituzionale si fonda sulla necessità di eliminare la disuguaglianza fra i genitori con riferimento al cognome del padre rispetto alla madre che si riflette sulla identità del figlio, determinando la violazione dell’art. 2 e 3 della Costituzione e vorrebbe smorzare un retaggio che appartiene al passato e che non corrisponde alla società moderna.

Altro esempio applicato di parità di genere nella relazione genitoriale.

La tematica in ogni caso da approfondire è come la società, che si è evoluta, attua questa parità e quanto sia effettiva la volontà di applicarla.

I dati statistici ancora oggi rilevano con oggettività la difficoltà della donna ad accedere a cariche apicali, a fare carriera in modo equivalente all’uomo e a parità di soggetti, il mondo del lavoro sceglie ancora troppo frequentemente l’uomo.

L’uguaglianza tra i coniugi passa dalla parità di autonomia in senso totale che la donna riesce ad affermare ed ottenere.

Nel matrimonio si assiste ancora oggi al marito che rincorre la carriera grazie alla moglie che rinuncia positivamente alla propria realizzazione personale anche per curarsi della famiglia e dei figli.

Il correttivo previsto per questa situazione, il legislatore lo ha identificato nel riconoscimento dell’assegno divorzile nelle sue diverse colorazioni, in caso di scioglimento del vincolo matrimoniale, e in Italia tale riconoscimento tocca nella stragrande maggioranza alle donne.

E’ vero che il concedere al marito la carriera a scapito della propria attiene ad una scelta privata tra moglie e marito nel proprio percorso coniugale, ma è vero altrettanto che il dato statistico è inequivocabile nell’affermare che sia soprattutto la donna a fare queste rinunce.

La Corte di Cassazione è andata di recente oltre la scelta privata dei coniugi, invocando il principio dell’autoresponsabilità della coppia che guida il percorso dei coniugi in tutta la vita matrimoniale: “l’autoresponsabilità deve ... percorrere tutta la storia della vita matrimoniale e non comparire solo al momento della sua fine: dal primo momento di autoresponsabilità della coppia, quando all’inizio del matrimonio (o dell’unione civile) concordano tra loro le scelte fondamentali su come organizzarla e le principali regole che la governeranno; alle varie fasi successive, quando le scelte iniziali vengono più volte ridiscusse ed eventualmente modificate, restando l’autoresponsabilità pur sempre di coppia. Quando poi la relazione di coppia giunge alla fine, l’autoresponsabilità diventa individuale, di ciascuna delle due parti: entrambe sono tenute a procurarsi i mezzi che permettano a ciascuno di vivere in autonomia e con dignità, anche quella più debole economicamente. Ma non si può prescindere da quanto avvenuto prima dando al principio di autoresponsabilità un’importanza decisiva solo in questa fase, ove finisce per essere applicato principalmente a danno della parte più debole” (Corte di Cassazione 35434 del 19 dicembre 2023 e Corte di Cassazione con ordinanza n. 4328 del 19 febbraio 2024).

E’ attuale la notizia che all’insediamento del nuovo Presidente del Tribunale di Milano, la moglie, magistrato stimato e di carriera, abbia deciso di svoltare nel percorso lavorativo per lasciare che il marito potesse svolgere a pieno titolo e in piena compatibilità il proprio ufficio.

Anche nella ripartizione dei carichi familiari e dell’organizzazione della casa è la donna ad avere un primato. Solo in quelle famiglie in cui si assiste ad un’uguale ripartizione dello svolgimento dei compiti domestici, il carico organizzativo è più equamente distribuito tra donna e uomo e le chance di parità sono più concrete.

Se la società farà dei passi in avanti, la suddivisione dei compiti domestici e familiari sarà resa effettiva, la parità di genere sarà maggiormente applicata.

E’ comunque la forma mentis della società in cui viviamo che fa fatica a rendere effettiva la parità di genere. Vale per la donna, quanto per l’uomo che sempre più spesso non vuole delegare la propria funzione genitoriale: in tale ultima situazione, è l’uomo a pagare il retaggio culturale che vede la donna come genitore più globale.

E’ l’uomo che ha dovuto attendere di vedere riconosciuto il proprio ruolo genitoriale sul lavoro ed ottenere per es. i congedi ma non solo, prima di appannaggio esclusivo della donna.

La maternal preference è stato un criterio guida consolidato per la gestione dell’affido dei figli minori e tutt’oggi viene talvolta ribadito per i figli di ridotta età ancora dalla Corte di Cassazione (si veda per es. Corte di Cassazione n. 21054 del 1° luglio 2022 che ha ribadito come i bambini, soprattutto i più piccoli, abbiano bisogno di crescere con la madre).

Tuttavia decisioni come quella del Tribunale di Milano del 19 ottobre 2016 hanno tentato di solcare tale impostazione affermando che “il principio di piena bigenitorialità e quello di parità genitoriale hanno condotto all’abbandono del criterio della “maternal preference” a mezzo di «gender neutral child custody laws», ossia normative incentrate sul criterio della neutralità del genitore affidatario, potendo dunque essere sia il padre, sia la madre, in base al solo preminente interesse del minore, il genitore di prevalente collocamento non potendo essere il solo genere a determinare una preferenza per l’uno o l’altro ramo genitoriale; normative del genere sono univocamente anche quelle da ultimo introdotte in Italia dal legislatore”. 

Per raggiungere la parità di genere nel mercato del lavoro occorre promuovere non solo la condivisione delle attività di cura della casa e dei figli, ma anche la condivisione della loro gestione e organizzazione e, viceversa, se non si assiste ad una equa distribuzione dei carichi domestici tra l’uomo e la donna, quest’ultima rimarrà sempre indietro nel mercato del lavoro.

La concreta emancipazione e il raggiungimento di tale parità può solo avere influenza positiva sulla parità di genere nella coppia matrimoniale come in quella genitoriale, sul reale sviluppo della società moderna andando oltre il “genere”.

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*A cura dell’Avv. Barbara Spinella – Dipartimento di Diritto dui Famiglia di A.L. Assistenza Legale

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