Pma, la revoca del consenso non blocca l’adozione della “mamma intenzionale”
La Cassazione, sentenza n. 16242 depositata oggi, ha definitivamente respinto il ricorso della mamma biologica contraria all’adozione in casi particolari dopo la rottura del rapporto col genitore sociale
In caso di nascita attraverso la procreazione medicalmente assistita (PMA), la revoca dell’assenso della genitrice biologica all’adozione del minore da parte della “madre intenzionale”, per via della grande conflittualità seguita alla rottura del rapporto, non costituisce un limite insuperabile all’adozione in casi particolari ma richiede soltanto una verifica particolarmente rigorosa del particolare interesse del minore guardando alla qualità del legame affettivo col genitore adottante nonché la capacità di quest’ultimo di corrispondere ai bisogni del bambino. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 16242 depositata oggi, respingendo il ricorso della mamma naturale.
La decisione arriva al termine di una lunga vicenda processuale. In primo e secondo grado infatti l’adozione era stata negata ritenendo che il diniego dell’assenso del genitore biologico, costituisse un limite insuperabile all’adozione del minore. La Cassazione ha poi accolto con rinvio il ricorso affermando che il diritto del minore al riconoscimento del legame affettivo instaurato e vissuto con il genitore d’intenzione attraverso l’adozione in casi particolari. A seguito di riassunzione, il giudice del merito, valorizzando “l’intenso rapporto fra il minore e l’appellante e la continuità nella cura e nell’accudimento” ha accolto l’appello e dichiarato l’adozione disponendo la posposizione del cognome dell’appellante. Contro questa decisione la madre biologica ha proposto ricorso in Cassazione che l’ha definitivamente bocciato.
La Prima sezione civile ricorda che la decisione deve essere centrata sul “superiore interesse del minore”. In questa prospettiva, prosegue “i requisiti di effettività e stabilità del legame affettivo non possono essere intesi in senso meramente cronologico o quantitativo, ma devono essere interpretati alla luce della concreta qualità della relazione instaurata tra il minore e il genitore sociale, nonché della percezione soggettiva che il minore ha sviluppato nei confronti di tale figura”.
Mentre non conta la “mera interruzione del contatto tra il minore e il genitore sociale” determinata da condotte preclusive del genitore biologico. In tal caso, “l’eventuale discontinuità della relazione non può essere valutata in senso sfavorevole rispetto alla posizione del genitore sociale, né può compromettere l’accertamento della sussistenza dei presupposti per l’adozione”.
Tornando al caso concreto, la Suprema corte, richiamando quanto emerso nel merito anche a seguito anche delle conclusioni del consulente tecnico, afferma che “pur necessitando il bambino di percorso psicoterapeutico al fine di essere supportato nell’affrancarsi dal conflitto” conserva uno specifico interesse all’adozione, “anche in considerazione della capacità della genitrice d’intenzione di rispondere con empatia” alle sue esigenze, comprendendo i “disagi derivanti dalla complessità della situazione”, mostrando “immutato affetto anche a seguito del periodo di lontananza trascorso”.
Né, infine, l’assenza di convivenza può ritenersi, come sostenuto dalla ricorrente, una condizione ostativa alla adozione da parte del genitore d’intenzione. “L’accertamento in concreto del superiore interesse del minore, cui è chiamato il giudice nel valutare la sussistenza dei presupposti per disporre l’adozione in casi particolari ex art. 44 della legge n. 184/1983 – si legge nella decisione -, richiede una verifica particolarmente rigorosa allorché, per le specifiche circostanze del caso, il nucleo familiare risulti disgregato ovvero caratterizzato da una significativa conflittualità tra i suoi componenti; tuttavia, tale accertamento non può tradursi in una automatica presunzione di inidoneità genitoriale della parte richiedente che si trovi in contrasto con l’altro genitore, dovendo invece il giudice valorizzare, secondo un criterio orientato alla ricerca del bene maggiore per il minore, la qualità del legame affettivo instaurato dal minore con ciascun genitore e la capacità di quest’ultimo di corrispondere in modo effettivo ai suoi bisogni evolutivi e relazionali”.
In questa prospettiva, l’interesse del minore “non si identifica necessariamente con la permanenza all’interno di un nucleo familiare unito, ma nella possibilità di mantenere rapporti significativi e continuativi con entrambe le figure genitoriali, da lui riconosciute come tali, anche in presenza di una situazione di conflitto tra le stesse”.