Società

Quando il lavoro si traveste da finanziamento: il principio di realtà nei rapporti tra soci e società

Nota a Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado Toscana, Sentenza 28 aprile 2025, n. 535

di Angelo Ruggiero*

Con la sentenza n. 535 del 28 aprile 2025, la CGT di secondo grado della Toscana ha affrontato una questione di indubbia complessità e attualità: la corretta qualificazione, ai fini fiscali e civilistici, delle prestazioni d’opera rese da due soci a favore della propria società e formalmente inquadrate come “finanziamento soci”.

Nello specifico, i soci avevano prestato attività professionali altamente qualificate, direzione tecnica, amministrazione, gestione contabile e contrattuale, a favore della società, ricevendo in cambio obbligazioni (di fatto mai validamente emesse) da parte di una società controllata. Tali obbligazioni erano corredate da cedole, a titolo di remunerazione, le quali però non furono mai effettivamente incassate. Nel contempo, la società portava in deduzione, anno per anno, il valore delle prestazioni rese, mentre i soci non dichiaravano alcun reddito, ritenendo che si trattasse della restituzione di un preteso “finanziamento soci”.

Una costruzione giuridicamente elegante, ma economicamente dissonante, che l’Agenzia delle Entrate ha smontato con una riqualificazione integrale, confermata sia in primo grado sia dalla Corte di appello tributaria.

Il cuore della vicenda ruota attorno all’interpretazione dell’art. 2467 c.c., che disciplina i “finanziamenti dei soci in qualsiasi forma effettuati”. L’espressione, volutamente ampia, ha generato in dottrina e giurisprudenza una questione ancora oggetto di confronto: può una prestazione d’opera rientrare nell’alveo dei finanziamenti soci?

La risposta della Corte toscana è duplice: sì, in astratto, sotto il profilo civilistico, ma no, in concreto, sotto il profilo fiscale. In effetti, una lettura estensiva dell’art. 2467 c.c. consente di includere tra i finanziamenti anche le prestazioni non immediatamente remunerate, purché vi sia:

• una causa creditizia;

• un obbligo restitutorio in capo alla società;

• e soprattutto, un’effettiva messa a disposizione della società di un valore economicamente quantificabile.

Tuttavia, nel caso in esame, la Corte ha accertato che le prestazioni erano riconducibili a un rapporto di lavoro dipendente o parasubordinato, svolte in modo continuativo, prive delle forme di garanzia richieste per i conferimenti d’opera (cfr. artt. 2464, co. 2, e 2465 c.c.) e prive di una reale obbligazione restitutoria formalizzata. L’attribuzione di obbligazioni di dubbia validità e l’assenza di tutele per la società confermano che non si trattava di un finanziamento soci, ma di un compenso occulto.

La Corte ha sottolineato anche la violazione del principio di competenza economica, sancito dall’art. 109 del TUIR. La società aveva tentato di rettificare alcune anomalie contabili nel 2019, sebbene riferite a componenti di reddito risalenti al 2014 e agli anni immediatamente successivi. Tali scritture, secondo i giudici, non possono produrre effetti fiscali, perché redatte fuori tempo massimo e in violazione del principio secondo cui ogni componente reddituale deve concorrere alla formazione del reddito nell’esercizio di competenza.

Le rettifiche avrebbero potuto avere efficacia solo attraverso dichiarazioni integrative riferite ai periodi d’imposta corretti. Qualsiasi soluzione alternativa, basata su scritture “compensative” in esercizi successivi, è incompatibile con i principi di certezza, veridicità e trasparenza del bilancio fiscale.

L’elemento più rilevante della pronuncia è il richiamo al principio di realtà: quel criterio interpretativo che impone di andare oltre la forma giuridica di un’operazione per valutarne la reale sostanza economica.

La Corte afferma un principio fondamentale: se una somma è deducibile per la società, essa deve essere tassabile in capo al percettore, salvo eccezioni specifiche. Il disallineamento tra deducibilità di un costo e mancata tassazione del correlato reddito è indizio, secondo la prassi, di abuso o elusione.

La tesi difensiva, che qualificava i compensi come “rimborso di un finanziamento”, è stata smentita in toto: le somme percepite erano redditi di lavoro, soggetti a IRPEF, mentre la parte non remunerata è stata ritenuta prestazione gratuita e, quindi, irrilevante ai fini della deducibilità.

Questa pronuncia contiene insegnamenti preziosi anche per la pianificazione e programmazione finanziaria e societaria, sotto più profili:

Qualificazione corretta delle prestazioni: ogni apporto del socio deve essere qualificato coerentemente con la sua natura economica. Se si tratta di un lavoro o consulenza, va remunerato e tassato come tale. Tentare di “spacchettarlo” in finzioni contrattuali (obbligazioni, anticipazioni, ecc.) espone a contestazioni fiscali e a sanzioni.

Forma e sostanza: nei rapporti tra soci e società, l’equilibrio economico e contrattuale deve emergere chiaramente, anche nei flussi finanziari. Un socio-lavoratore deve avere un contratto coerente con il ruolo che svolge, anche ai fini previdenziali.

Pianificazione e programmazione dei cash flow societari: la sentenza invita a riflettere sull’importanza di pianificare con trasparenza le uscite finanziarie della società nei confronti dei soci. Simulare obbligazioni future per remunerare prestazioni attuali può creare squilibri finanziari, e compromettere la solvibilità o l’accesso al credito.

Fiscalità coerente e sostenibile: la possibilità di portare in deduzione i costi deve essere sempre accompagnata da una verifica della simmetria fiscale. Non è possibile “scaricare” costi senza un corrispondente carico fiscale in capo ai beneficiari. La pianificazione fiscale non può fondarsi su strumenti opachi o disallineati rispetto ai principi contabili e fiscali.

In conclusione, la sentenza offre una lezione di metodo e sostanza. Il sistema tributario italiano, fondato su categorie giuridiche formali, impone coerenza sostanziale tra comportamento, imposizione e qualificazione degli atti.

I soci possono sostenere la società anche con strumenti atipici, comprese prestazioni lavorative dilazionate o remunerate in modo differito. Ma perché si tratti di un vero finanziamento soci, è indispensabile un’obbligazione restitutoria formalizzata, un’effettiva posizione di credito, e l’assenza di intenti elusivi.

La forma giuridica non può salvare l’apparenza quando manca la sostanza economica. Quando il diritto tributario incontra l’economia reale, a prevalere dev’essere la verità sostanziale dei fatti. La sentenza toscana ce lo ricorda con chiarezza, e invita professionisti e imprese a costruire pianificazioni coerenti, trasparenti e sostenibili nel tempo.

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*Angelo Ruggiero, commercialista ODCEC di Cassino e revisore legale, esperto scientifico di diritto ed economia dei tributi, esperto del MUR, docente alla SSM, coordinatore scientifico FSU

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