Sanzione amministrativa per l'avvocato che non presenta il modello 5 alla Cassa
Per la Cassazione, è giustificata la sanzione amministrativa nei confronti del legale a causa della mancata presentazione del modello 5 con i redditi
Ok alla sanzione amministrativa per l’avvocato che non presenta il modello 5 con i redditi per due annualità. È quanto conferma la sesta sezione civile della Cassazione (ordinanza n. 23373/2021) dichiarando inammissibile il ricorso di un legale e confermando la pronuncia d’appello impugnata.
La vicenda
Nella vicenda, la Corte d’appello di Catania respingeva il gravame proposto dall’avvocato nei confronti della Cassa Forense e confermava la decisione di primo grado che aveva rigettato l'opposizione avverso il ruolo e la cartella esattoriale avente ad oggetto le sanzioni dovute all’ente previdenziale per la mancata comunicazione del modello 5 relativamente ai redditi professionali degli anni dal 2007 al 2009.
La corte di merito aveva ritenuto inammissibili in quanto integranti domande nuove, i motivi di appello con cui l'appellante aveva introdotto le questioni dell'omessa notifica dell'ordinanza ingiunzione e della decadenza (articolo 25 del Dlgs n. 46/1999).
In particolare, osservava la corte come l’articolo 28 della legge n. 689/1981, invocato dal legale in primo grado, disciplinasse il termine di prescrizione quinquennale delle sanzioni amministrative, decorrente dalla data di commissione dell'illecito, e, correttamente, il Tribunale avesse interpretato le censure e considerato interrotto il termine di prescrizione. Ad ogni modo, la questione, per il giudice d’appello, sarebbe stata comunque infondata, giacché “la disposizione riguarda i contributi previdenziali e le sanzioni civili (somme aggiuntive) e non anche le sanzioni amministrative quale quella in esame”.
La sanzione “stabilita per l'inottemperanza all'obbligo di comunicare alla cassa nazionale forense l'ammontare del reddito professionale entro trenta giorni dalla dichiarazione dei redditi ha – infatti - natura amministrativa”.
Il legale adiva quindi il Palazzaccio, ma da piazza Cavour il ricorso viene dichiarato inammissibile.
La decisione della Suprema corte
Secondo parte ricorrente, la Cassa avrebbe dovuto procedere, previamente, alla notifica della contestazione nel termine di giorni 90 dalla violazione e poi notificare l'ordinanza ingiunzione e, quindi, solo successivamente, nei termini fissati dall'articolo 28, procedere alla riscossione coattiva della sanzione. Veniva criticata dunque la statuizione di inammissibilità della questione.
Ma, ricordano gli Ermellini, la giurisprudenza ha evidenziato più volte che la proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l'inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possano rientrare nel paradigma normativo di cui all'articolo 366, comma 1, nr. 4, del codice di procedura civile.
Nel ricorso, infatti, devono essere illustrate le ragioni per le quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta, oltre alla esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata, l'esposizione di argomenti che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero i vizi di motivazione (cfr., tra le altre, Cassazione n. 17125/2007).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha ritenuto che i motivi con i quali l'appellante devolveva le questioni «dell'omessa notifica dell'ordinanza ingiunzione e della decadenza ex art. 25 del d.lgs nr. 46 del 1999» in quanto «integranti domande nuove» fossero inammissibili, rilevandone comunque l’infondatezza.
Anche per la Suprema corte, le censure del ricorrente non colgono la ratio della decisione perché non sviluppano argomenti idonei a confutare, in modo specifico, la statuizione di «novità» espressa dal giudice di appello e, pertanto, non sono conformi alla previsione del citato articolo 366, nr. 4, del Cpc.
Inoltre, aggiunge la Corte, le censure si confrontano solo con la statuizione di infondatezza della eccepita decadenza, resa dalla Corte di appello dopo aver dichiarato, inammissibile la relativa questione. Ed è noto che, quando, come nella specie, “il giudice, dopo aver dichiarato inammissibile una domanda o un capo di essa o un motivo di impugnazione, in tal modo spogliandosi della potestas judicandi al riguardo, abbia ugualmente proceduto all'esame degli stessi nel merito, le relative argomentazioni devono ritenersi ininfluenti ai fini della decisione, e quindi prive di effetti giuridici, con la conseguenza che la parte soccombente non ha l'onere né l'interesse ad impugnarle, essendo invece tenuta a censurare la dichiarazione d'inammissibilità, la quale costituisce l'unica vera ragione della decisione”.
Nulla di fatto anche per il secondo motivo, dichiarato inammissibile perché fondato su un documento (l’estratto di ruolo), non depositato in sede di legittimità e neppure localizzato in atti.