Straining, lavoratore da risarcire se il datore è consapevole delle discriminazioni
Se il datore di lavoro non impedisce che alcuni dipendenti prendano di mira un loro collega, attraverso condotte persecutorie e volgari consistenti nell'insultarlo ripetutamente e nell'isolarlo dal resto del team, e da ciò deriva una situazione di malattia psichica che porta il dipendente al licenziamento per superamento del periodo di comporto, costui ha diritto al risarcimento dei danni e alla reintegrazione nel posto di lavoro. Questo è quanto detto dal Tribunale di Aosta nella sentenza 121/2014 che ha fatto chiarezza sul concetto di straining e sulle sue conseguenze.
I fatti - Al centro della vicenda vi è una donna che era stata assunta come commessa presso un grande negozio di abbigliamento. Costei dopo pochi mesi aveva assunto delle mansioni superiori e responsabilità sempre più importanti, ma allo stesso tempo, in un ambiente di lavoro caratterizzato da dispetti, invidia e antipatie reciproche tra dipendenti, era diventata vittima di condotte persecutorie grossolane e volgari da parte degli altri colleghi. Gli insulti quotidiani e l'isolamento cui era costretta erano fatti conosciuti al datore di lavoro in quanto il capo area della donna era presente nel negozio 2 o 3 volte a settimana e tra i suoi compiti vi era anche quello di curare i rapporti tra il personale. Tale situazione esasperata aveva portato la commessa ad uno stress tale da sfociare in una malattia psichica che la costringeva ad assentarsi dal posto di lavoro per un periodo superiore a quello di comporto, con la conseguenza del licenziamento intimato nei suoi confronti.
Dopo aver perso il lavoro, la donna chiedeva al giudice il risarcimento dei danni subiti per il comportamento dei colleghi nei suoi confronti e la reintegrazione nel posto di lavoro in quanto la malattia che aveva determinato il licenziamento era causalmente riconducibile a tali condotte.
Straining e non mobbing - Il Tribunale di Aosta accoglie le ragioni della commessa ritenendo provata la condotta di “straining” posta in essere nei suoi confronti dagli altri dipendenti del negozio e, altresì, sussistente il nesso di casualità tra tali condotte e la malattia che aveva portato la donna a perdere il suo lavoro.
In primo luogo, il giudice precisa che la persecuzione subita dalla ricorrente è qualificabile come straining e non come mobbing. Sussiste il primo quando vi è una «situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un effetto negativo nell'ambiente lavorativo, azione che, oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante», nonché discriminante e che colloca la vittima stessa in posizione di inferiorità; si configura, invece, il mobbing quando gli stessi comportamenti sono «dolosamente orchestrati dal datore di lavoro».
Ciò posto, tuttavia, non ci sono sostanziali differenze per la vittima se il datore di lavoro è comunque a conoscenza dei fatti posti in essere in danno di uno dei suoi dipendenti, come nel caso di specie, e ciononostante nulla viene fatto per far cessare i comportamenti scorretti. Per il Tribunale, in tal caso la condotta omissiva del datore di lavoro configura una violazione dell'articolo 2087 del codice civile.
In secondo luogo, i comportamenti così ricondotti allo straining sono per il giudice la causa della malattia da stress sofferta dalla donna, come accertato da Ctu, e impongono perciò la reintegrazione nel posto di lavoro in quanto il licenziamento è avvenuto in seguito ad una condotta illegittima del datore di lavoro o, comunque, ad esso addebitabile.
Tribunale di Aosta - Sezione Lavoro - Sentenza 1 ottobre 2014 n. 121