Società

Sulla legittimazione ad impugnare le sentenze a carico dell’Ente ex d.lgs. 231/01

Nota a Corte di Cassazione, Sez. III Penale, sentenza 23 novembre 2023, n. 47023

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di Clara Di Liberto, Andrea Milani*

Il caso

Ricorreva per cassazione un socio di una Cooperativa condannata ex D.Lgs. 231/01 – mai stato legale rappresentante della persona giuridica e non imputato del reato presupposto – deducendo (per quanto di rilievo in questa sede) l’invalidità della costituzione in giudizio della Cooperativa, in quanto la stessa veniva rappresentata da un difensore di fiducia nominato dall’amministratore dell’ente, imputato del reato presupposto.

Nella prospettazione del ricorrente, tale situazione avrebbe comportato la nullità della sentenza della Corte d’Appello per violazione dell’art. 39 D.Lgs. 231/01.

La questione

Il ricorso in esame ha offerto alla Corte di Cassazione l’occasione per tornare a pronunciarsi sul tema della legittimazione ad impugnare il capo della sentenza riguardante la responsabilità della persona giuridica, muovendo dall’art. 71 D.Lgs. 231/01 e dal principio di tassatività dei mezzi di impugnazione.

Il citato art. 71, al comma primo, stabilisce che l’ente può proporre impugnazione nei casi e nei modi stabiliti per l’imputato del reato dal quale dipende l’illecito amministrativo, estendendo così all’ente – ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 231/01 – i paradigmi del principio di tassatività di cui all’art. 568 co. 3 c.p.p..

Da tale principio discende che – affinché l’impugnazione sia ammissibile – essa sia interposta

  • (i) avverso un provvedimento definito normativamente come suscettibile di impugnazione,
  • (ii) a mezzo dello specifico mezzo per impugnare previsto,
  • (iii) da parte di uno dei soggetti legittimati a proporre impugnazione.

Inoltre, è necessario che la parte sia titolare anche di un interesse ad impugnare, requisito soddisfatto solamente allorché il provvedimento oggetto di impugnazione determini conseguenze concrete e pregiudizievoli in capo a chi lo impugna.

Ebbene, nel caso di specie, proprio muovendo dai principi ricordati, la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal socio della Cooperativa incolpata, per difetto della astratta titolarità ad impugnare nonché dell’interesse a farlo.

Invero il ricorrente – sì socio della cooperativa, ma da sempre privo di legale rappresentanza dell’ente e non imputato del reato presupposto – era totalmente estraneo al rapporto processuale incardinatosi, dal momento ch’esso ineriva la persona fisica imputata e l’ente in quanto tale; di conseguenza, tale socio era certamente privo della legittimazione ad impugnare.

Ed anche a voler superare tale primo impedimento ostativo, il ricorrente non deduceva alcuno specifico motivo personale ad ottenere l’annullamento della sanzione inflitta alla società, con la conseguente impossibilità di ravvisare un qualsivoglia interesse all’impugnazione. Interesse, in ogni caso, difficilmente deducibile dalla persona fisica, attesa l’irrilevanza delle conseguenze economiche – indirette o riflesse – discendenti dalla declaratoria di responsabilità dell’ente (e dall’irrogazione delle sanzioni previste dal D.Lgs. 231/2001) sulla sfera soggettiva del socio o dell’amministratore (in questo senso, v. Cass. Pen. sez. II, 23/05/2019, n. 35442, Cass. Pen. sez. V, 22/09/2015, n. 50102 e Cass. Pen. sez. VI, 22/06/2017, n. 41768).

La sentenza in commento, inoltre, ha offerto l’occasione per fare il punto in tema di rappresentanza in giudizio dell’Ente.

Il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 39 D.Lgs. 231/01 in quanto la Cooperativa si costituiva in giudizio con l’assistenza di un difensore di fiducia nominato dall’amministratore dell’ente, imputato del reato presupposto, eccependo la nullità delle sentenze di merito, pronunciate in difetto di una valida costituzione della persona giuridica.

Sul punto, non può non ricordarsi il principio di diritto , ormai consolidato, secondo cui “in tema di responsabilità da reato degli enti, il legale rappresentante indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa della condizione di incompatibilità in cui versa, alla nomina del difensore dell’ente per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall’art. 39 d.lg. 8 giugno 2001, n. 231” (in questo senso, v. Cass. Pen. sez. III, 13/05/2022, n. 35387).

Ma quali sono le conseguenze nel caso in cui il rappresentante dell’ente che versi nella condizione descritta dall’art. 39, co. 1, ciononostante proceda alla nomina del difensore di fiducia dell’ente?

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite (Cass. Pen., Sez. Un., 28/05/2015, n. 33041), ha sentenziato che, in tali casi, “si tratterebbe, (…), di un atto sospettato – per definizione legislativa – di essere produttivo di effetti potenzialmente dannosi sul piano delle scelte strategiche della difesa dell’ente che potrebbero trovarsi in rotta di collisione con divergenti strategie della difesa del legale rappresentante indagato. Il giudice investito dell’atto propulsivo della difesa così officiata non potrebbe esimersi dal sindacare tale condizione sotto il profilo della ammissibilità dell’atto”.

Ebbene, posto che la violazione del divieto di rappresentanza dell’ente determina un inevitabile nocumento al diritto di difesa della persona giuridica, verrebbe integrata una nullità generale a regime intermedio che, ai sensi degli artt. 178, lett. c) 180 c.p.p. (applicabili nel procedimento all’ente ex art. 34 D.Lgs. 231/01), non è rilevabile né deducibile dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se verificata nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di grado successivo.

Giova sottolineare come tale nullità sarebbe altresì rilevabile d’ufficio, ed è in tal senso che gli Organi Giudicanti sono chiamati ad una funzione di verifica circa il rispetto dell’art. 39 co. 1: in primis, onde evitare l’insorgere di una causa di nullità atta a travolgere il procedimento; in secundis, per garantire il diritto di difesa dell’ente, anche in considerazione del fatto che difficilmente il difensore nominato in violazione dell’art. 71 cit. avrebbe interesse a sollevare egli stesso la questione concernente la propria incompatibilità.

Da ultimo, si sottolinea come l’ordinamento pare consentire rimedi esperibili da parte del socio dell’ente sanzionato ex D.Lgs. 231/01, seppur non nell’alveo del procedimento penale/amministrativo in cui è maturata la condanna: si ricorda la (storica) sentenza del Tribunale di Civile di Milano (n. 1774/2008), nella quale un amministratore era stato convenuto dai soci dell’ente cui era stata erogata una sanzione ex D.Lgs. 231/01, e conseguentemente condannato per i danni cagionati per mala gestio (consistente nel non aver dotato l’ente del modello di organizzazione).

Parallelamente, si può ipotizzare che, nel caso in cui un socio di un ente si ritenga danneggiato dalle azioni od omissioni del suo amministratore, consistenti – tornando al caso di specie – nella minorata (o alterata) difesa dell’ente nell’ambito del procedimento 231, egli possa esperire un’azione civile nei confronti dell’amministratore stesso.

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*A cura degli Avv.ti Clara Di Liberto, Socia AODV231 e Andrea Milani, Vice Presidente AODV231

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