Civile

Tribunali civili: le principali sentenze di merito della settimana

La selezione delle pronunce della giustizia civile nel periodo compreso tra il 17 e il 21 aprile 2023

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di Giuseppe Cassano

Nel corso di questa settimana le Corti d'Appello affrontano i temi del conferimento di incarchi dirigenziali negli enti pubblici, dell'azione generale di arricchimento nei confronti della P.A., della transazione su titolo nullo, della riduzione della capacità lavorativa specifica e, infine, del comodato di immobile ad uso familiare.
Da parte loro i Tribunali si pronunciano sull'accettazione di eredità, sulle omissioni contributive, sulla responsabilità per danni del denunciante un reato, sulla restituzione dell'immobile locato e, infine, sulla determinazione del corrispettivo nell'appalto.


ENTI LOCALI
Enti locali - Incarichi a contratto - Disciplina
(Costituzione, articolo 97; Dlgs 18 agosto 2000, n. 267, articolo 110)
La Corte d'Appello di Bari (sezione lavoro) si sofferma in sentenza sulla corretta esegesi della norma di cui all'articollo 110, II, Dlgs n. 267/2007 (TUEL).
Chiarisce così che le assunzioni ivi disciplinate (che possono essere dirigenziali o di alta specializzazione), essendo previste al di fuori della ordinaria dotazione organica dell'ente, presuppongono un'esigenza straordinaria che non necessariamente deve essere prevista nella dotazione (la disposizione, nell'ambito di questa seconda ipotesi, distingue a sua volta tra enti nei quali è prevista la dirigenza e gli altri enti, normalmente più piccoli, ove la dirigenza non è prevista).
Si tratta dunque, argomenta ancora la Corte, di assunzioni che si caratterizzano per la natura specialistica, settoriale, temporanea ed eccezionale delle attività affidate e che non hanno ad oggetto funzioni ordinarie, di direzione di struttura e di gestione, che sono tipiche, invece, dei profili di dirigente o di posizione organizzativa.
Quanto alla loro durata, per gli incarichi speciali di cui all'articolo 110 TUEL (co. I e II) la possibilità del superamento dei 36 mesi è espressamente prevista dalla stessa norma e dal Dlgs n. 165/2001 (che prevede una durata minima di tre anni); né può dirsi che tale superamento violi il diritto dell'UE, il quale ai fini della configurabilità dell'abuso non ha fissato un limite temporale ma ne ha rimesso la determinazione agli Stati membri. Di conseguenza, non può discutersi di abuso da parte della Pa che abbia applicato una disposizione di legge.
In ogni caso, la temporaneità dell'esigenza sottesa ai contratti in esame porta ad escludere l'abusività del termine e delle eventuali proroghe.
Secondo l'adita Corte pugliese, ancora, la tesi dell'applicabilità del limite dei 36 mesi contrasta con il tenore letterale della norma de qua che fissa la durata massima in misura pari al mandato elettivo.
È la stessa norma ad imporre che gli incarichi di cui si discute debbono essere conferiti previa selezione pubblica, a cui può partecipare anche il personale interno che ne abbia i requisiti ponendosi così in linea con i precetti ricavabili dall'art. 97 Cost..
Corte di appello di Bari, sezione lavoro , sentenza 17 aprile 2023, n. 745

AZIONE GENERALE DI ARRICCHIMENTO
Azione generale di arricchimento - Amministrazione Pubblica - Operatività

(Cost., articoli 3, 24, 113; c.c., articoli 2041, 2042)
La Corte d'Appello di Caltanissetta precisa in sentenza che l'art. 2041 c.c. svolge, nel nostro sistema giuridico, la funzione di norma di chiusura e valvola di sfogo che offre un rimedio residuale per le ipotesi che il Legislatore non sarebbe in grado di prevedere tutte individualmente.
In particolare, quanto alla concreta applicazione dell'istituto nei confronti della Pa., una lettura costituzionalmente orientata dell'istituto (articoli 3, 24 e 113 Cost.), e un'interpretazione letterale e sistematica degli articoli 2041 e 2042 c.c., portano ad affermare che il requisito speciale del riconoscimento dell'utilitas sia privo di fondamento normativo, per cui i presupposti dell'azione di ingiustificato arricchimento, a prescindere dalla veste pubblica o privata del soggetto che abbia conseguito la locupletazione, sono sempre e soltanto quelli previsti dalla legge.
Viene così valorizzata la ratio dell'azione in questione, che è quella di approntare, attraverso il riconoscimento di un indennizzo, un rimedio ad una situazione di iniquità generata da arricchimenti senza causa o da spostamenti patrimoniali ingiustificati, imponendosi l'accertamento dell'evento oggettivo dell'utilità, quale effetto di una traslazione patrimoniale.
Detti principi, peraltro, ben possono coniugarsi con l'esigenza di tutela delle finanze pubbliche, essendo consentito all'Ente di non subire oneri economici non preventivati, dimostrando di non aver voluto l'arricchimento, ovvero che questo si è verificato a sua insaputa.
Sul piano del riparto degli oneri probatori, tale ricostruzione comporta che l'attore debba dimostrare il fatto oggettivo dell'altrui locupletatio, la sua correlativa deminutio patrimonii e l'assenza di una giusta causa, oltre all'insussistenza di altre azioni in omaggio al requisito della sussidiarietà, mentre è la Pa a dover eccepire e provare che l'arricchimento è stato imposto.
In conclusione, il riconoscimento dell'utilità non costituisce requisito dell'azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex articolo 2041 c.c. nei confronti della Pa ha solo l'onere di provare il fatto oggetto dell'arricchimento, senza che l'ente pubblico possa opporre il suo mancato riconoscimento, esso potendo invece eccepire e provare che l'arricchimento non fu voluto e non fu consapevole, e che si trattò pertanto di arricchimento imposto.
Corte di Appello di Caltanissetta, sentenza 17 aprile 2023, n. 139

CONTRATTI
Transazione – Transazione su un titolo nullo - Nullità
(c.c., articoli 1325, 1972)
La Corte d'Appello di Brescia fa suo il principio di diritto secondo il quale l'articolo 1972, I, c.c. sancisce la nullità della transazione soltanto se questa ha ad oggetto un contratto nullo per illiceità della causa o del motivo comune ad entrambe le parti e non quando si tratta di contratto nullo per mancanza di uno dei requisiti previsti dall'articolo 1325 c.c., o per altre ragioni.
Assume rilievo dirimente ai fini dell'applicazione dell'articolo 1972 c.c. la distinzione tra transazione "novativa" e "conservativa": la transazione novativa che interviene su un titolo nullo è sanzionata con la nullità (co. I) soltanto se relativa a un contratto illecito (per illiceità della causa o del motivo comune a entrambe le parti) ed è invece annullabile negli altri casi, ma il vizio del negozio può essere fatto valere soltanto dalla parte che ha ignorato la causa di invalidità (co. II); la transazione conservativa, riguardante l'esecuzione o gli effetti di un negozio nullo, è sempre affetta da nullità, ancorchè le parti ne abbiano trattato, perchè essa regola il rapporto congiuntamente al titolo contrattuale invalido e non in sostituzione di questo.
Poichè, ai sensi dell'artiocolo 1418, II, c.c., l'illiceità del contratto consegue soltanto all'illiceità della causa o del motivo comune ad entrambi i contraenti, la dichiarazione di nullità della transazione presuppone un'indagine, da compiersi in relazione all'intero contenuto del contratto sottostante, volta a stabilire se l'assetto d'interessi complessivamente programmato dalle parti si ponga in contrasto con norme imperative, soltanto in tal caso operando il divieto di transigere anche se la nullità abbia rappresentato la questione controversa, con il conseguente ripristino della situazione anteriore alla stipulazione del negozio transattivo, e la correlata conservazione del precedente assetto negoziale.
L'invalidità di singole clausole contrattuali, a meno che non risultino idonee ad evidenziare l'illiceità della causa o del motivo comune, è invece destinata a tradursi nella nullità dell'intero contratto soltanto ove se ne accerti l'essenzialità rispetto all'assetto d'interessi programmato dalle parti, e comporta non già la nullità, ma l'annullabilità della transazione.
Corte di Appello di Brescia, sezione I, sentenza 19 aprile 2023 n. 674

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Lesione all'integrità psico-fisica - Capacità lavorativa specifica – Riduzione - Danni

La Corte d'Appello di Perugia afferma che il grado di invalidità determinato da una lesione all'integrità psico-fisica non si riflette automaticamente, né tantomeno nella stessa misura, sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica, ma deve essere specificatamente accertato, caso per caso, che l'istante svolgesse un'attività produttiva di reddito, che la lesione invalidante abbia effettivamente pregiudicato la precipua capacità lavorativa dell'istante, che il reddito concretamente percepito sia diminuito o radicalmente venuto meno in conseguenza dell'evento lesivo.
In particolare, si precisa che il grado di riduzione della capacità lavorativa specifica non è necessariamente proporzionale al grado di invalidità permanente riportata dal soggetto danneggiato, variando piuttosto in ragione dell'attività lavorativa concretamente svolta dal danneggiato e dell'effettivo pregiudizio patrimoniale che dall'invalidità sia derivato e possa derivare a suddetta attività lavorativa.
Non solo. Benché la perdita di capacità lavorativa specifica costituisca un danno futuro rispetto al momento di verificazione del sinistro, al momento della liquidazione tale lucro cessante asseritamente patito, già verificatosi nella sfera patrimoniale della parte danneggiata, si configura come un danno presente ed è pertanto soggetto agli ordinari oneri di allegazione e prova.
Resta così preclusa al Giudice una valutazione di tale lucro cessante in via equitativa e secondo i criteri presuntivi generalmente applicati nell'accertamento e nella liquidazione del danno futuro, in funzione suppletiva del mancato assolvimento dell'onere probatorio incombente sul danneggiato.
E cioè a dire, il lucro cessante rappresentato dalla perdita di capacità lavorativa specifica, producendosi in capo alla vittima de diem in diem sino alla decisione, cessa di essere un danno futuro, configurandosi come danno presente, in quanto tale soggetto agli ordinari oneri di allegazione e prova (titoli di studio e qualifiche professionali possedute in epoca antecedente al sinistro; effettivo esercizio di attività lavorativa in concomitanza dell'evento lesivo; reddito mediamente percepito nella medesima epoca; oggettivo e concreto detrimento patrimoniale sofferto in conseguenza della lesione invalidante, nel corso degli anni, sino alla decisione del Giudice).
Corte di Appello di Perugia, sentenza 19 aprile 2023, n. 301

COMODATO
Comodato - Destinazione a uso familiare – Disciplina
(c.c., articoli 1803, 1809, 1810)
Secondo la Corte d'Appello di Roma il comodato di un immobile con destinazione a uso familiare rappresenta, in quanto tale, un negozio a termine indeterminato.
Trattasi di una figura concettualmente diversa da quella del comodato senza determinazione di durata (cd. precario) disciplinato dall'articolo 1810 c.c..
In particolare, il comodato con destinazione a uso familiare, di cui all'art. 1809 c.c., caratterizzato da finalità solidaristiche, non ha la natura instabile della tipologia contrattuale di cui all'art. 1810 c.c., recando l'implicita previsione della durata della concessione al perdurare dell'uso dei familiari.
E così il comodato di un bene immobile, stipulato senza limiti di durata in favore di un nucleo familiare, ha un carattere vincolato alle esigenze abitative familiari, sicchè il comodante è tenuto a consentire la continuazione del godimento anche oltre l'eventuale crisi coniugale, salva l'ipotesi di sopravvenienza di un urgente ed imprevisto bisogno ai sensi dell'articoo 1809, II, c.c., ferma, in tal caso, la necessità che il giudice eserciti con massima attenzione il controllo di proporzionalità e adeguatezza nel comparare le particolari esigenze di tutela della prole e il contrapposto bisogno del comodante.
Il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno dei coniugi (salva la concentrazione del rapporto in capo all'assegnatario, ancorchè diverso) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione del bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto, riconducibile al tipo regolato dagli articoli 1803 e 1809 c.c., sorge per un uso determinato ed ha - in assenza di una espressa indicazione della scadenza - una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile.
Corte di Appello di Roma, sezione VIII, sentenza 19 aprile 2023 n. 2539

SUCCESSIONE E DONAZIONE
Accettazione dell'eredità – Chiamato all'eredità - Inventario
(c.c., articolo 485)
Premesso che la delazione ereditaria, che segue l'apertura della successione, non è di per sé sola sufficiente all'acquisto della qualità di erede, essendo altresì necessaria l'accettazione da parte del chiamato (espressa o tacita) il Tribunale di Roma precisa, in particolare, che l'articolo 485 c.c. contempla l'ipotesi del chiamato all'eredità in possesso dei beni ereditari.
In virtù di tale ultima disposizione, il chiamato all'eredità che si trovi, al momento dell'apertura della successione, nel possesso dei beni ereditari, ha l'onere di provvedere alla redazione dell'inventario nel termine di tre mesi e la mancata redazione dell'inventario condiziona non solo la sua facoltà di accettare con beneficio d'inventario, ma gli preclude di rinunciare all'eredità in maniera efficace nei confronti dei creditori del de cuius, con il conseguente acquisto della qualità di erede puro e semplice.
In relazione alla nozione, alla durata e all'oggetto del possesso utile alla produzione dell'effetto giuridico contemplato dalla fattispecie de qua, chiarisce la sentenza in esame che il possesso non deve manifestarsi necessariamente in un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà dei beni ereditari, esaurendosi in una mera relazione materiale tra i beni e il chiamato all'eredità e, cioè, in una situazione di fatto che consenta l'esercizio di concreti poteri sui beni, con la consapevolezza della loro appartenenza al compendio ereditario.
Con la precisazione, ancora, secondo cui è sufficiente che il chiamato all'eredità abbia posseduto anche per un solo giorno i beni o anche un singolo bene ereditario.
Sussiste accettazione tacita, ai sensi dell'articolo 485 c.c., nel caso in cui i chiamati all'eredità si trovino all'atto dell'apertura della successione nel possesso di un bene ereditario, senza aver effettuato la dichiarazione con beneficio d'inventario nei termini di legge, posto che l'istituto dell'accettazione presunta, ex art. 485 c.c., opera anche nel caso di compossesso del patrimonio ereditario e che per possesso si deve intendere qualunque relazione materiale con un bene ereditario da parte del chiamato all'eredità consapevole dell'appartenenza del bene al compendio ereditario
Tribunale di Roma, sezione XVII, sentenza 17 aprile 2023 n. 6127

OMISSIONI CONTRIBUTIVE
Omissioni contributive – Tutela del lavoratore – Risarcimento danni
(c.c., articoli 1227, 2116; legge 1338/1962, articolo 13)
Il G.d.L. del Tribunale di Teramo affronta il tema del risarcimento danni ex articolo 2116, II, c.c. precisando che: prima della maturazione della prescrizione dell'obbligo contributivo, sussiste, oltre all'azione diretta dell'Inps, anche la possibilità per il lavoratore di chiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento dei contributi in favore dell'Istituto medesimo, ovvero una pronuncia di mero accertamento dell'omissione contributiva; maturata la prescrizione dei contributi omessi il lavoratore ha una ragione di danno risarcibile accordandogli la norma de qua un'azione risarcitoria del danno subito, consistente nella perdita del trattamento pensionistico, ovvero nella percezione di un trattamento pensionistico inferiore a quello altrimenti spettante.
L'azione risarcitoria può quindi essere esercitata nel momento in cui il danno (costituito dalla perdita totale o parziale della prestazione previdenziale) si determina, ossia nel momento in cui avrebbe potuto essere attivato (per esserne maturati i requisiti), ovvero è stato attivato il trattamento previdenziale rispettivamente perso ovvero goduto in misura inferiore al dovuto.
Prima di questo momento (e dopo la data di prescrizione dei contributi omessi) il lavoratore soffre solo un danno potenziale nel senso che ha una posizione assicurativa carente che, comunque, consente al lavoratore sia di richiedere misure cautelari conservative della garanzia patrimoniale del datore di lavoro, sia di domandare una pronuncia di accertamento dell'omissione contributiva o di condanna generica al risarcimento del danno.
L'azione ha natura contrattuale e, pertanto, è soggetta a prescrizione decennale; il relativo dies a quo di decorrenza della prescrizione coincide con quello di maturazione del diritto alla prestazione previdenziale o assistenziale e cioè, dal raggiungimento dell'età pensionabile.
Da tale momento decorre il termine decennale di prescrizione del diritto al risarcimento, fermo restando che, completata la fattispecie produttiva del danno, il lavoratore deve provare di aver chiesto vanamente al datore di lavoro la costituzione della rendita vitalizia di cui all'articolo 13 L. n. 1338/1962, dovendosi ritenere, diversamente, che abbia concorso con la propria negligenza a cagionare il danno medesimo (articolo 1227 c.c.).
Tribunale di Teramo, sezione lavoro, sentenza 17 aprile 2023 n. 196

RESPONSABILITA' E RISARCIMENTO
Denuncia di un reato – Ipotesi di responsabilità civile - Limiti
(c.c., articoli 2043, 2697)
Osserva in sentenza l'adito Tribunale di Pisa come la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non sia fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'articolo 2043 c.c., neanche in caso di proscioglimento o di assoluzione del denunciato, se non quando essa possa considerarsi calunniosa.
Al di fuori di tale ipotesi, infatti, l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante, togliendole ogni efficacia causale e così interrompendo ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato.
Ne consegue che spetta all'attore, che in sede civile chieda il risarcimento dei danni assumendo che la denuncia era calunniosa, dimostrare che la controparte aveva consapevolezza dell'innocenza del denunciato.
È necessario, dunque, che la denuncia o la querela possano considerarsi calunniose nel senso che esse contengano sia l'elemento oggettivo che l'elemento soggettivo del reato di calunnia: ovvero, che contengano tutti gli elementi per rendere astrattamente attribuibile la commissione di un fatto reato a carico del denunciato, unitamente alla consapevolezza della loro non veridicità (in tutto o in parte) in capo al denunciante, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l'attività pubblicistica dell'organo titolare dell'azione penale si sovrappone all'iniziativa del denunciante, interrompendo così ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato.
Ai fini risarcitori, quindi, occorre che il danneggiato fornisca la prova (articolo 2697, I, c.c.) del dolo del soggetto denunciante querelante, cioè che questi abbia mosso le accuse con la consapevolezza della altrui innocenza.
Le ragioni della restrizione di questa ipotesi di responsabilità al solo caso della condotta dolosa sono fondate in primo luogo sull'interesse pubblico alla repressione dei reati, per una efficace realizzazione della quale è necessaria anche la collaborazione del privato cittadino, che verrebbe significativamente scoraggiata dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce inesatte o rivelatesi infondate
Tribunale di Pisa, sentenza 18 aprile 2023, n. 571

LOCAZIONE
Contratto di locazione – Restituzione dell'immobile locato - Danni
(c.c., articoli 1588, 1590)
Il Tribunale di Torino sottolinea come il conduttore abbia l'obbligo di restituire la cosa locata nel medesimo stato in cui l'aveva ricevuta, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall'uso della stessa in conformità del contratto (articolo 1590 c.c.).
L'inadempimento, o l'inesatto adempimento, di tale obbligazione è di per sé un illecito, ma non obbliga l'inadempiente al risarcimento se in concreto non ne è derivato un danno al patrimonio del creditore, con la conseguenza che il conduttore non è obbligato al risarcimento se dal deterioramento della cosa locata, superiore a quello corrispondente all'uso della cosa in conformità del contratto, per particolari circostanze, non ne è derivato un danno patrimoniale al locatore.
In tal caso, incombe al locatore, che i danni pretende, fornire la prova del fatto costitutivo del vantato diritto, e cioè il deterioramento intervenuto tra il momento della consegna e quello della restituzione dell'immobile, essendo quindi onere del conduttore dimostrare il fatto impeditivo della sua responsabilità, che il deterioramento si è verificato per uso conforme al contratto o per fatto a lui non imputabile.
La prova del fatto costitutivo della pretesa può essere dal locatore data anche per presunzioni, che costituiscono un mezzo di prova di rango non inferiore agli altri, in quanto di grado non subordinato nella gerarchia dei mezzi di prova e dunque non "più debole" della prova diretta o rappresentativa, ben potendo le presunzioni assurgere anche ad unica fonte di convincimento del Giudice, in quanto trattasi di una "prova completa", sulla quale può anche unicamente fondarsi il convincimento del giudice.
Il conduttore ha invece l'onere di dare piena prova liberatoria della non imputabilità nei suoi confronti di ogni singolo danno riscontrato al bene locato, che deve presumersi in buono stato all'inizio del rapporto, esclusi solo i danni da normale deterioramento o consumo in rapporto all'uso dedotto in contratto (articoli 1588 e 1590 c.c.).
In particolare, la presunzione di cui all'articolo 1590, II, c.c., secondo la quale, in mancanza di descrizione delle condizioni dell'immobile alla data della consegna, si presume che il conduttore abbia ricevuto la cosa in buono stato locativo, può essere vinta solo attraverso una prova rigorosa.
Tribunale di Torino, sezione VIII, sentenza 18 aprile 2023 n. 1645

APPALTO
Contratto di appalto – Corrispettivo – Determinazione
(c.c., articoli 1346, 1657)
Secondo quanto afferma in sentenza il Tribunale di Novara, in materia di appalto, vige il principio di diritto per il quale è consentito alle parti di prescindere da un accordo, esplicito e puntuale, in merito al corrispettivo, senza che da questo ne derivi la nullità integrale del contratto (articolo 1657 c.c.).
Tale dettato normativo di riferimento assegna al pactum consensus una ovvia priorità nella gerarchia delle "fonti" deputate a regolamentare l'entità del compenso dell'appaltatore, ed in mancanza di esso sancisce la gradata possibilità di ricorrere alle "tariffe esistenti o usi", o in via ulteriormente subordinata al potere equitativo.
Il disposto di tale norma deroga espressamente l'articolo 1346 c.c., nel senso che nell'appalto non è richiesta la determinabilità del prezzo secondo i criteri posti dallo stesso contratto. La norma citata prevede infatti in ogni caso la possibilità, in ultima istanza per il Giudice, di determinare, se allegato e provato, un differente prezzo dell'appalto: la ratio di tale norma si basa sulla tutela dei contraenti dal rischio dell'indeterminabilità del prezzo dell'appalto, considerato il frequentissimo caso in cui, in corso d'opera, si susseguano plurime varianti nell'esecuzione del contratto, con modifiche anche rilevanti al prezzo originariamente previsto.
Il potere del Giudice di determinare il corrispettivo dell'appalto, in base al dettato della citata disposizione codicistica, se le parti non ne abbiano pattuito la misura, né stabilito il modo per calcolarlo, e sempre che non possa farsi riferimento alle tariffe esistenti o agli usi, è esercitabile solo ove non si controverta sulle opere eseguite dall'appaltatore, atteso che, in tal caso, questi deve provare l'entità e la consistenza delle opere stesse, non potendo il Giudice stabilire il prezzo di cose indeterminate, né consentire all'attore di sottrarsi all'onere probatorio che lo riguarda.
Precisamente, a ciascuna parte (committente e appaltatore privato) incombe l'onere di provare quanto rispettivamente dedotto (nel caso in cui entrambe alleghino di aver pattuito un corrispettivo); incombe all'appaltatore dimostrare la congruità del prezzo richiesto, allorché sia pacifico che le parti non abbiano convenuto alcunché, ovvero non si dia dimostrazione di un accordo sul corrispettivo (preventivo o successivo).
Tribunale di Novara, sezione I, senrenza 19 aprile 2023 n. 272

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