Il CommentoPenale

41 bis, rapporto con la Costituzione e prospettive del carcere duro

Più volte nel tempo la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della costituzionalità del 41-bis perché ritenuto disumano e degradante

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di Virgilia Burlacu e Massimo Bianca*

Cos'è 41 bis

Il 41 bis è un regime di detenzione che prevede l'isolamento dei condannati in celle individuali che nello specifico contengono un letto, un tavolo e una sedia inchiodata a terra.

Al suo interno il detenuto è controllato 24 ore su 24 e non possono esserci i suoi oggetti personali. Nella cella non possono entrare libri, riviste e giornali, salvo delle particolari concessioni che richiedono un lungo iter di approvazione.
In questo regime il detenuto non può avere contatti con l'esterno e all'interno del carcere, anche i contatti con le stesse guardie penitenziarie sono fortemente limitati.

La sua introduzione è mossa da tutte quelle situazioni definite di emergenza per le quali è possibile limitare fortemente i diritti dei detenuti con il fine ultimo di garantire e ripristinare la sicurezza.

Da tale assunto si deduce che il 41-bis non è una misura punitiva aggiuntiva, ma ha una ratio prettamente precauzionale, ovvero evitare che un detenuto pericoloso possa continuare ad esercitare anche dal carcere il proprio potere sull'esterno. Si cerca quindi di impedire il prosieguo dell'attività criminale e di tutelare la sicurezza degli altri detenuti e degli agenti di polizia penitenziaria.

Al momento della sua introduzione, il carcere duro era stato pensato come una misura carceraria temporanea, ma di fatto ha mostrato in questi anni di avere delle applicazioni decisamente più drastiche.

La legge prevede la reclusione in isolamento senza contatti per la durata di 4 anni sotto il 41-bis , tale durata è però rinnovabile e prorogabile per altri 2 anni di volta in volta qualora il condannato fosse ancora in condizione di avere contatti a rischio con l'esterno o all'interno del carcere cioè quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l'associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno.

Il nome del regime 41-bis deriva dall'articolo corrispettivo della legge sull'ordinamento penitenziario numero 354/1975, introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini, che interessava, in un primo momento, esclusivamente i casi di emergenza interna o di rivolta nelle carceri italiane e che successivamente alla strage di Capaci del 1992, è stato ampliato ai detenuti facenti parte dell'organizzazione criminale mafiosa.

L'obiettivo di questo regime è quello di impedire il passaggio di ordini, informazioni o di ogni altro tipo di comunicazione tra i detenuti e le organizzazioni di appartenenza nel territorio. Il soggetto titolare del potere di applicazione della norma è il Governo, ovvero il Ministro di grazia e giustizia, e non l'ordine giudiziario.

La valutazione del Guardasigilli è discrezionale ma limitata: nel contenuto, dalla sospensione totale o parziale delle regole di trattamento dei reclusi; nel fine, dal ripristino dell'ordine e della sicurezza nell'istituto penitenziario interessato; nel tempo, dalle tempistiche strettamente necessarie per il raggiungimento dell'obiettivo di contenimento della situazione emergenziale e nella forma, dalla necessità della motivazione del provvedimento.

Quando si applica

Il regime 41-bis si applica in due casistiche ben precise. Il regime si applica, in primis, in casi eccezionali di rivolta in carcere o in altre gravi circostanze di emergenza. In suddetta ipotesi, il Ministro della giustizia può sospendere la messa in pratica delle regole ordinarie di trattamento dei carcerati in tutto l'istituto penitenziario o solo in una sua parte. Questa sospensione deve quindi essere motivata dal bisogno di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha una durata strettamente necessaria al raggiungimento della suddetta finalità.

La seconda casistica, più diffusa, è quella esaminata dal secondo comma dell'articolo 41-bis, ovvero quella che prevede la revoca delle regole ordinarie di trattamento nel caso in cui ricorrano gravi cause di ordine e di sicurezza pubblica e il destinatario abbia commesso determinate fattispecie di reato.
I destinatari del provvedimento, con più precisione, possono essere i detenuti o gli internati per ciascuno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis della legge sull'ordinamento penitenziario (per esempio delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di sovvertimento dell'ordine democratico per mezzo di atti di violenza) o, in ogni caso, per un crimine che sia stato commesso al fine di favorire l'associazione di tipo mafioso e che sia collegabile con un'associazione criminale, eversiva o terroristica.

In tale circostanza, il Ministro della Giustizia (pure su richiesta del Ministero dell'interno) può sospendere totalmente, o parzialmente, l'applicazione delle regole di trattamento ordinarie, nei confronti di un singolo carcerato.

Per quali reati è previsto

Il 41-bis, viene applicato in presenza di specifici reati indicati proprio dall'articolo della legge penitenziaria in questione. Si tratta, naturalmente, di crimini considerati più gravi a livello legale e sono quelli:
• aventi finalità di terrorismo;
• di associazione a delinquere di stampo mafioso;
• commessi per agevolare l'attività delle associazioni mafiose;
• di riduzione o mantenimento in schiavitù;
• di sfruttamento della prostituzione minorile;
• di tratta di persone;
• di acquisto o alienazioni di schiavi;
• di violenza sessuale di gruppo;
• di sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione;
• di associazione a delinquere per contrabbando di tabacchi lavorati all'estero;
• di associazione a delinquere per traffico di sostanze psicotrope o stupefacenti.

Aspetti del 41 bis

Nel concreto, i carcerati sottoposti al regime 41-bis sono rinchiusi in istituti dedicati soltanto a loro o comunque in sezioni separate dal resto della struttura.
Nel cosiddetto carcere duro, il detenuto ha diritto a ricevere le cure mediche di cui necessita all'interno del carcere e, quando è indispensabile, può essere portato anche in ospedale.

L'applicazione di questo procedimento comporta, inoltre, le seguenti conseguenze:
1. le visite sono ridotte nel numero di una al mese e della lunghezza massima di un'ora, in luoghi attrezzati all'impedimento di passaggi di oggetti e senza possibilità di contatto fisico. Vi è l'obbligo del vetro divisorio che può essere evitato su decisione del giudice, ma soltanto in presenza di minori di 12 anni (sei sono i colloqui mensili per i detenuti "comuni" e senza barriere divisorie) e videosorvegliati da un agente di polizia penitenziaria (e, su ordine dell'Autorità giudiziarie, anche eventualmente "ascoltato" dallo stesso agente). I colloqui sono, inoltre, possibili solo con familiari e conviventi (salvo casistiche eccezionali) e anche l'avvocato difensore deve attenersi a queste regole. Nel caso in cui i detenuti non effettuino il colloquio visivo mensile, possono essere autorizzati, dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, a svolgere un colloquio telefonico con i familiari, che devono recarsi presso l'istituto penitenziario più vicino al luogo di residenza al fine di consentire l'esatta identificazione degli interlocutori.
2. gli elementi che possono essere ricevuti dall'esterno (che siano somme, beni o oggetti) sono limitati se non nulli;
3. i detenuti interessati sono sottoposti alla censura della propria corrispondenza, ad eccezione di quella con i membri del Parlamento o con ulteriori autorità nazionali o europee che hanno facoltà in materia di giustizia;
4. la presenza all'aperto non può eseguirsi in gruppi più elevati di quattro persone e ha una durata non maggiore di due ore al giorno, a meno che non ci siamo ragioni individuali nei confronti del singolo detenuti che giustifichino un trattamento ancor più restrittivo;
5. la partecipazione alle udienze è inoltre esclusivamente "da remoto" in videoconferenza.

Rapporto con la Costituzione

Il fondamento e la legittimazione del regime speciale sono stati definiti a più riprese dalla Corte Costituzionale che ha delineato ilperimetro' che lo definisce, un perimetro determinato dalla finalità di «contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all'esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà» ( sentenza 97/2020 ).

La Consulta ne ha anche definito i limiti: la stretta connessione delle restrizioni con tale finalità; il rispetto del precetto dell'articolo 27 comma 3 della Costituzione in forza del quale le restrizioni non devono mai essere tali da «vanificare completamente la necessaria finalità rieducativa della pena e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità».

Il Garante nazionale ha visitato nel corso del suo mandato, a più riprese, tutte le sezioni del regime speciale 41 bis e ne ha esaminato l'applicazione alla luce del perimetro delineato dalla Corte Costituzionale e dei suoi interventi sulla norma.

Ne è emersa la necessità di una riflessione integrale sulla legge. In particolare, sulla compatibilità di tale regime con il diritto alla finalità rieducativa della pena, di cui è titolare ogni persona detenuta in ragione della prescrizione obbligatoria che l'articolo 27 comma 3 della Costituzione detta allo Stato per ogni genere di pena: un parametro che ha costituto il cardine su cui si sono fondate tutte le sentenze della Corte Costituzionale intervenute sulla norma.

È parte di questa riflessione l'osservazione del rinnovo anche per decenni, a carico di singole persone, del regime speciale: le motivazioni delle proroghe dei decreti di applicazione del 41-bis fanno frequentemente riferimento al reato iniziale' per cui la persona è stata condannata e la persistente esistenza sul territorio dell'organizzazione criminale all'interno del quale il reato è stato realizzato.

Due elementi che, a parere del Garante nazionale, disattendono le prescrizioni di attualizzazione delle particolari esigenze custodiali espresse costantemente dalla Corte Costituzionale.

È bene ricordare che l'articolo 27 della Costituzione, come tutti i principi costituzionali, non prevede eccezioni pertipi d'autore': anche a fronte di forme gravissime di criminalità, non si può mai punire taluno in assenza di una previa legge penale – principio di legalità, art.25 co.2-3 Cost. -, né lo si può punire per fatti altrui o che non siano oggettivamente e soggettivamente ascrivibili come propri: è il principio di personalità della responsabilità penale , art.27 co.1 Cost.

Inoltre, pure per gli imputati di reati gravissimi, ad esempio di mafia e terrorismo, valgono – dovrebbe essere ovvio – il diritto di difesa, che l'art.24 co.2 Cost. definisce "inviolabile", nonché la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, art.27 co.2, e i principi del giusto processo, art.111 Cost.

Dunque, anche a fronte di una condanna per reati gravissimi, la sanzione penale non può mai risultare contraria all'art.27 co.3 Cost.: in particolare, essa deve sempre tendere verso l'obiettivo del reinserimento sociale del reo.

A maggior ragione, allorché si priva della libertà personale una persona che fino alla condanna definitiva è da presumersi non colpevole, ciò deve avvenire nel rispetto del senso di umanità e limitando al massimo gli effetti inevitabilmente e gravemente desocializzanti della detenzione.

La funzione della pena, nel nostro ordinamento costituzionale, non può consistere nel mero castigo; e neppure in forme di carcere ‘duro' volte a finalità ‘esemplari' – perché ciò significherebbe violare la dignità della persona, riducendola a mezzo per scopi di intimidazione generale -; e tantomeno la pena può consistere in trattamenti inumani volti a ‘neutralizzare' una persona mediante l'inflizione di sofferenze ulteriori alla privazione della libertà.

La sentenza numero 186/2018 la Consulta si è pronunciata sul divieto di cottura dei cibi imposto ai detenuti in regime di carcere duro e sancito dal comma 2 quater, lettera f): tale previsione è stata dichiarata incostituzionale perché in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Vietare la cottura di cibi ai detenuti ex articolo 41 bis pone in essere una disparità di trattamento ingiustificata, essendo, invece, permesso di cucinare agli altri detenuti; ha carattere puramente afflittivo e vessatorio, contrastante con il fine rieducativo della pena e con il divieto di infliggere pene contrarie al senso di umanità.

Inoltre, con la sentenza numero 97/2020 la Corte ha dichiarato – ancora – l'illegittimità del comma 2 quater, lettera f) dell'articolo 41 bis ma nella parte in cui stabilisce un divieto assoluto di scambiare oggetti fra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Anche in questo caso, si ravvisa un contrasto con gli articoli 3 e 27, comma 3 della Costituzione.

La Corte ha affermato che la previsione di un regime differenziato come quello di cui all'articolo 41 bis della Legge sull'Ordinamento Penitenziario incontra dei limiti precisi e non può tradursi in una compressione sproporzionata dei diritti dei detenuti.

La Corte Costituzionale, infine, è da poco tornata a pronunciarsi in tema di 41 bis con la sentenza numero 18/2022 . La Consulta, accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Corte di Cassazione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 2 quater, lettera e) dell'articolo 41 bis nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza tra il detenuto e il suo difensore in quanto vi ha ravvisato una violazione del diritto di difesa.

Il detenuto è titolare del diritto di comunicare in modo privato con il proprio difensore e ciò, tra l'altro, può tutelarlo da eventuali abusi da parte delle autorità penitenziarie.

Conclusioni

Alla luce di quanto sopra esposto si può concludere dicendo che il detenuto, in quanto tale, vede i propri diritti limitati dalla condizione carceraria in cui è ristretto.
Ma il detenuto è pur sempre una persona che vive in un luogo – il carcere – in cui comunque svolge e sviluppa la propria personalità (art. 2 Cost.).

Per questo "la sanzione detentiva non può comportare una totale ed assoluta privazione della libertà della persona; ne costituisce certo una grave limitazione, ma non la soppressione. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale" ( Corte cost. 349/1993 ).

Per questo motivo la Costituzione – scritta, è bene ricordare, da chi il carcere lo conosceva bene perché c'era stato – punisce "ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà" (art. 13.4). Inoltre "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (art. 27.3). Il che significa che "nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti" (articoli 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e 4 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, fonti entrambe oggi cui le leggi ordinarie devono conformarsi).

Disposizione che solo dopo ben trent'anni e numerose condanne da parte della Corte di Strasburgo, specie dopo i pestaggi di Bolzaneto del 2001, ha trovato attuazione con l'introduzione del reato di tortura ( l. 110/2017 ).

Più volte nel tempo la Corte costituzionale è stata chiamata a giudicare della costituzionalità del 41-bis perché ritenuto disumano e degradante. Essa però ha sempre respinto tali obiezioni in ragione della particolare pericolosità di tali detenuti e delle prevalenti legittime esigenze di prevenzione del crimine e di sicurezza pubblica.
Lo stesso dicasi per la Corte europea dei diritti dell'uomo in casi specificamente riguardanti l'Italia proprio in ragione della specifica situazione criminale del nostro Paese.
Pertanto è forse giunto il momento di mettere in discussione le sue specifiche modalità attuative quando inutilmente vessatorie e dunque lesive della dignità del detenuto.

Esso dunque va limitato a quei casi per cui risulta effettivamente motivato ed indispensabile e scremato da tutti quei divieti che, anche in considerazione delle condizioni del detenuto e del tempo trascorso, paiono frutto di una concezione vendicativa e non rieducativa della pena.
Ricordandosi sempre che lo Stato, come tale, non può mai per ritorsione scendere al livello dei suoi nemici, dai quali può e deve difendersi nel più rigoroso rispetto della legalità costituzionale, senza abusare del proprio potere.

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* A cura degli avv.ti Virgilia Burlacu e Massimo Bianca