Professione e Mercato

Servizi legali esterni: l’azienda spinge sul taglio dei budget

di Dario Aquaro

Contenere i budget, ottimizzare i processi di selezione e il valore aggiunto delle consulenze. Se il rapporto tra le aziende e gli studi legali esterni è da tempo in evoluzione, gli effetti del cambiamento sono evidenti anche all’interno delle stesse imprese. Soprattutto quelle di grandi dimensioni, che devono sostenere spese rilevanti «e in cui cresce il peso del procurement: il dipartimento responsabile di acquistare beni e servizi, che sempre più lavora a fianco della struttura legale in-house», spiega Silvia Hodges, executive director di Buying Legal Council, organizzazione internazionale dei professionisti degli acquisti.

Il principale traino, eredità della crisi, è naturalmente la razionalizzazione dei costi. E infatti – a voler marcare di netto le caratteristiche – dove il dipartimento legale tende a valutare parametri “soggettivi” (empatia, problem-solving, capacità di lavorare in team), l’ufficio acquisti si concentra su quelli “oggettivi”: come il prezzo e i servizi aggiuntivi offerti (seminari, training, distacchi, e via dicendo). Anche se in pratica, fermo l’obiettivo del risparmio, la scelta dell’advisor legale avviene all’incrocio di diversi fattori: tra cui l’esperienza dimostrata nel settore e in simili tipologie di assistenza, l’eccellenza nel servizio, la conoscenza del cliente e del suo business, oltre al rapporto qualità/prezzo, ça va sans dire.

Gli strumenti del procurement

Quali sono le strategie più utilizzate dai responsabili degli acquisti – e in che modo impattano sui criteri di selezione – lo rivela l’edizione 2019 dell’indagine di Buying Legal Council sul procurement dei servizi legali, condotta tra 153 professionisti di grandi aziende internazionali (si veda il link a fine articolo).

In cima campeggia la negoziazione degli sconti (88%). Seguita dalla stesura di linee guida per la fatturazione: una strada scelta dall’87% degli intervistati, rispetto al 74% dello scorso anno. «Un chiaro segnale di come siano cambiati i rapporti di forza – commenta Hodges –. Perché da questo punto di vista, se prima erano le law firm a dettare le regole sul billing, ora sono i clienti a imporre le proprie». Tra gli strumenti più diffusi, e in crescita, le Rfp (request for proposal , usate dall’85% dei professionisti), la negoziazione di tariffe alternative a quelle orarie (83%) e il freeze rates (il “congelamento” dei tassi, 80%).

Le strategie delle imprese
«Nella nostra azienda abbiamo una serie di strutture che collaborano con il dipartimento legale: di fatto, operiamo con un team a cavallo tra procurement, finance e legal – spiega Valérie Ruotolo, responsabile della direzione legale di Hp Italy –. Per le operazioni straordinarie, come le grosse acquisizioni, ci muoviamo su una rosa di studi preferiti, indicati dalla casa-madre e con cui ci sono accordi a forfait. Mentre su temi specifici del diritto italiano, come quelli giuslavoristici, abbiamo discreti margini di decisione e la selezione avviene in base a elementi quali il progetto, lo storico, la disponibilità di secondment (il distacco in azienda, ndr)».

La tendenza delle grandi imprese è potenziare il team legale interno e rivolgersi all’esterno solo per consulenze specialistiche e qualificate, dalla privacy alla proprietà intellettuale (si veda Il Sole 24 Ore del 4 febbraio). Una scrematura verso l’alto spinta dalla riduzione dei budget disponibili. Ma se ogni singolo fornitore deve passare di regola al vaglio del procurement, «in questo senso un ausilio ai counsel aziendali arriva dai software di management, che supportano nella gestione trasparente delle parcelle», dice Ruotolo.

L’uso di piattaforme tecnologiche ha influito anche sui meccanismi del beauty contest, «che però non tiene conto solo dei costi ma anche dei track record, i risultati professionali», osserva Giorgio Martellino, general counsel di Avio. Che precisa: «Proprio l’utilizzo di questi tool a favore della trasparenza fa sì che l’ufficio acquisti non entri nel merito delle scelte del servizio legale». Negli ultimi anni c’è stata in generale molta tensione sul discorso delle tariffe, «che si sono ridimensionate a scapito dei servizi, alcuni dei quali sono diventati commodity, anche per effetto dei progressi nel campo dell’intelligenza artificiale – sottolinea Martellino –. L’aspetto economico ha gravato in particolare sulle attività a scarso valore aggiunto, ad esempio il recupero crediti, dando luogo spesso a meccanismi di dumping e creando frizioni nel rapporto tra general counsel e studi legali».

L’intervento del procurement, quindi, non può dirsi ovunque “invasivo”. «Dipende dalle scelte organizzative aziendali», afferma Marco Reggiani, general counsel di Snam, società in cui, «in ogni caso, l’ufficio acquisti non può esser visto come un aggravio nella scelta dei servizi legali». Primo compito del general counsel – riassume Reggiani – è scegliere tra make or buy (muoversi con le risorse interne e/o rivolgersi all’esterno), «valutando il tipo di attività richiesta, le competenze necessarie, le tempistiche, e indagando sui costi: perché c’è chi chiede ancora un pagamento orario e chi, specie in ambito anglosassone, propone invece le success fee, accettando di condividere il rischio» (si veda Il Sole 24 Ore del 18 febbraio).

Quando si imposta una gara, insomma, si valuta l’offerta tecnica ma anche quella economica, analizzando la struttura contrattuale proposta dagli studi e il team messo a disposizione. E misurando altre “qualità” collegate: dall’eventuale presenza di professionisti extra-legali (come gli ingegneri, per alcune problematiche) alla condivisione di tool informatici per gli aggiornamenti, fino alla capacità di assicurare un’efficace formazione aziendale.

Le scelte del legal procurement

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