Civile

Il rischio concreto di un “disastro” per l'Ordine forense

di Eugenio Sacchettini

La sentenza del tribunale di Roma del 9 aprile 2015 merita attenzione. Essa, infatti, ha esaminato una questione nella quale l'illecito commesso dall'iscritto all'Albo è stato alla fin fine occasionale rispetto alla propria attività. I principi e in particolare le conclusioni cui essa giunge potrebbero rivelarsi un autentico disastro per gli ordini professionali in generale e soprattutto per quello forense. Ma andiamo con ordine.

L'analisi della sentenza del tribunale di Roma - In considerazione del comportamento omissivo tenuto dai due enti convenuti, rispettivamente in ordine alla vigilanza quanto all'amministrazione comunale e alla tenuta dell'albo per la Camera di commercio, la sentenza viene ad affermare la responsabilità solidale di entrambi gli enti nella causazione dell'evento, che sarebbe stato evitato ove l'aggressore non fosse stato in possesso della licenza, e il conseguente loro obbligo al risarcimento del danno alla convivente more uxorio, ricavandosi anche la stabilità e le altre caratteristiche del rapporto equiparabili a quello coniugale dalla mancata contestazione in giudizio. Così, pure sulla base della mancata messa in dubbio circa l'assenza di altri soggetti conviventi aventi titolo, la sentenza accorda il risarcimento per l'intero alla richiedente, in conformità ai principi in argomento enunciati già dalla sentenza della Cassazione del 7 giugno 2011 n. 12278 che ha sottolineato doversi tenere specifico conto del vincolo affettivo parafamiliare che lega il superstite con il defunto. È stata pure riconosciuta la controversa risarcibilità del danno esistenziale (si veda Cassazione 13 novembre 2012 n. 22910) osservandosi tuttavia che le tabelle applicate, aggiornate al 2015, tengono già conto di questo tipo di danno nella valutazione dei danni extrapatrimoniali. Quanto al danno da ritardo, la sentenza fa richiamo in via equitativa ai criteri indicati dalle sezioni Unite nella sentenza 17 febbraio 1995 n. 1712 (su «Guida al Diritto» n. 11/1995, pag. 48) che costituisce, come noto, una pietra miliare in argomento.

La responsabilità delle pubbliche amministrazioni - La sentenza del 9 aprile 2015 merita particolare attenzione non soltanto per la specifica situazione esaminata, nella quale influisce pure la normativa regionale applicabile, ma soprattutto in prospettiva, ove i principi da essa enunciati dovessero trovare applicazione più in generale, e in special modo in ordine alle responsabilità degli enti amministrativi preposti al vaglio dei requisiti dei richiedenti al fine di rilasciare autorizzazioni, licenze o concessioni. E l'argomento si attaglia con maggiore frequenza all'ampia platea degli ordini e collegi professionali, aventi natura di enti pubblici non economici, inclusi tra le pubbliche amministrazioni, giusta la previsione dell'articolo 1, comma 2, del Dlgs n. 29 del 1993, poi trasfuso nel Dlgs n. 165 del 2001, (si veda Cassazione, sezione I, 14 ottobre 2011 n. 21226). E ciò quanto alle conseguenze a loro carico degli illeciti compiuti dai loro indebitamente iscritti, ossia da coloro che per precedenti o condotte di vario genere non avrebbero avuto diritto di accedere all'albo, ovvero di permanervi.

La questione della responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, è assai complessa, attenendo anche a risvolti di giurisdizione, e sarebbe inutilmente ponderoso affrontarla in questa sede. Nella questione trattata dalla sentenza 9 aprile 2015 non si verte infatti né nell'ipotesi nella quale essa agisce iure privatorum come per custodia in ordine ai danni provocati dal demanio stradale, né in quella, pur essa assai ricorrente, nella quale un destinatario, magari anche indiretto, di un atto amministrativo, assuma di aver riportato un danno a causa del medesimo (si vedano per la tutela aquiliana degli interessi legittimi sezioni Unite n. 500 del 22 luglio 1999 e l'articolo 7 della legge 21 luglio 2000 n. 205).

Si verte in un'ipotesi del tutto particolare, di un danno provocato dall'omissione del comportamento di corretta amministrazione per violazione di specifiche norme di legge: come si è visto infatti viene addebitato agli enti convenuti di aver concesso licenza e iscrizione all'albo a un tassista nonostante una condanna penale a suo carico e di non averlo comunque cacciato dopo avere avuto notizia di comportamenti scorretti e pericolosi da lui tenuti.

Come sopra si è visto, il comportamento colposo cui si ricollega la responsabilità aquiliana (articolo 43 del Cp) ha luogo quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. Dunque, almeno nel caso di pretermissione della condanna penale nel procedimento di concessione della licenza, la colpa risulterebbe in re ipsa dalla violazione della norma regionale che invece aveva previsto tale causa ostativa. Difatti la colpa della Pa sarebbe già di per sé ravvisabile nell'accertata illegittimità del provvedimento, cioè nella sua non conformità alle norme alle quali si doveva rapportare l'attività amministrativa, realizzata in violazione di esse con l'emissione del provvedimento (Cassazione, sezioni Unite con l'anzidetta n. 2994 del 20 marzo 1991) rendendo configurabile una lesione del diritto soggettivo per fatto illecito quale presupposto necessario dell'azione di risarcimento, senza che nel giudizio civile vi sia necessità di uno specifico accertamento dell'elemento soggettivo dell'imputabilità. Tuttavia le sezioni Unite con la soprarichiamata decisione sentenza 500/99 avevano superato il tradizionale orientamento che riteneva la colpa sussistente in re ipsa nella stessa illegittimità processualmente accertata dell'atto amministrativo, affermando invece che l'imputazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo il giudice svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell'illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa a esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa della Pa intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l'adozione e l'esecuzione dell'atto illegittimo lesivo sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l'esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi e che il giudice ordinario può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni della discrezionalità.

Su questa linea si colloca la successiva giurisprudenza di legittimità (Cassazione, sezione III, sentenza del 16 marzo 2012 n. 4215) ad avviso della quale perché l'agire illegittimo sia ritenuto fonte di responsabilità della pubblica amministrazione ex articolo 2043 del Cc, esso deve essere connotato quantomeno da chiari segni di grave negligenza, mala fede e scorrettezza dello Stato-apparato, non potendo avvenire sulla scorta del mero dato oggettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa rispetto alla normativa applicabile ovvero sulla base della sola valutazione della colpa del funzionario agente riferita ai parametri della negligenza e dell'imperizia.

Insufficienza dell'autocertificazione - Attiene sempre al tema dell'assunta colpa della Pa la questione, sollevata nella causa decisa ora dal tribunale di Roma, secondo la quale non si sarebbe potuto tener conto dell'intervenuta sentenza penale di condanna per furto aggravato per non esserne stata fatta menzione dall'interessato all'atto della richiesta di rinnovo della licenza mediante autocertificazione o dichiarazione sostitutiva (articoli 46 e 47 del Dpr 28 dicembre 2000 n. 445, testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa). Si tratta di modalità di presentazione di documenti peraltro consentita anche in ambito professionale, come per l'accesso al registro dei praticanti del collegio dei geometri. In tal modo si ottiene la prova dei fatti attestati, evitando al privato l'onere di provarli con la produzione di certificati (nella specie certificato del casellario giudiziale) e così collegando l'efficacia probatoria dell'atto al dovere del dichiarante di dichiarare il vero (cfr. Cassazione, sezione V, 25 novembre 2008, n. 6063; Cassazione, sezione V, 9 luglio 2010, n. 37237). E in proposito è stato ritenuto sussistere il reato di falso ideologico commesso dal privato in un atto pubblico, appunto nel caso d'iscrizione del registro dei praticanti del collegio dei geometri, nell'autocertificazione di assenza di condanne ove si sia stati destinatari di un decreto penale di condanna seppur con il beneficio della non menzione e quindi non riportata nel certificato del casellario giudiziale Cassazione, sezione V penale, sentenza 13 ottobre-24 novembre 2014 n. 48681). Si osserverà che proprio del beneficio della non menzione si occupa ora la sentenza del 9 aprile 2015 giungendo seppur sotto tutt'altro diverso profilo alle medesime conseguenze. E appunto pure a tal proposito la sentenza del tribunale di Roma suscita qualche perplessità, laddove imputa alle amministrazioni coinvolte di essersi contentate della dichiarazione sostitutiva senza richiedere ulteriori elementi al casellario come consentito alle amministrazioni pubbliche e ai gestori di pubblici servizi dall'articolo 28 del Dpr 14 novembre 2002 n. 313. Difatti, stante il richiamo di tale norma ai precedenti articoli 23 e 27, per quanto concerne la condanna definitiva per furto aggravato recante il beneficio della non menzione, nessun elemento ulteriore avrebbe potuto essere offerto rispetto al certificato richiesto dall'interessato, nel quale appunto non vengono menzionati i precedenti esentati dal suddetto beneficio (si veda “Guida al Diritto” n. 15/2003, pag. 50). Semmai può in proposito accennarsi che l'autocertificazione viene espressamente prevista anche dall'articolo 2 dello schema di regolamento (su «Guida al Diritto», n. 11/2015, pag. 17) al fine della prova dell'effettività, continuatività, abitualità dell'esercizio professionale richieste dall'articolo 21 della riforma forense, rimanendo riservata, come d'uso, la possibilità di verifica a campione.

Il nesso di causalità - Altro punto discutibile recato dalla sentenza del 9 aprile 2015: essa arguisce che dal mantenimento nell'albo dell'aggressore discende la responsabilità degli enti preposti alla tenuta dell'albo per il risarcimento del danno da costui provocato; essendo stato l'alterco provocato da motivi di concorrenza, sarebbe mancato il presupposto di fatto ove l'aggressore non avesse potuto esercitare la professione di tassista. La sentenza sembra così prediligere la teoria della conditio sine qua non di John Stuart Mill rispetto a quella della “causalità adeguata” del Von Kries, tanto per citare le più note e discusse. Tutto sta vedere se in quel caso di aggressione l'iscrizione all'albo sia stata un'occasione (conditio sine qua non) ovvero la causa efficiente del danno. La questione è stata assai sviscerata in campo penalistico, ove si distingue la morte per tetano a causa della ruggine nel coltello (da cui il delitto di omicidio a carico dell'accoltellatore) da quella della morte per incendio dell'ospedale nel quale è stato ricoverato l'accoltellato (non ascrivibile all'accoltellatore).

In campo civilistico, sulla scia del Codice Napoleone e poi del Codice civile del 1865, il soprarichiamato articolo 1223 del Cc limita il risarcimento del danno alla conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento e, come si è visto, del fatto illecito. E ciò in conformità al brocardo secondo cui in iure non remota causa, sed proxima spectatur. E già Bacone (Maxims of the law, Regula I) osservava che sarebbe per la legge un compito indefinito giudicare le cause delle cause e le influenze delle une sulle altre: è per questo che essa si appaga della causa immediata e giudica così i fatti umani senza risalire a gradi remoti. Si osserverà pure che l'unico precedente ostativo all'iscrizione concerneva nella specie un delitto di furto, e quindi non presupponeva di per sé l'aggressività che dette luogo poi al delitto di omicidio preterintenzionale.

Possibili ripercussioni in campo ordinistico - I principi e in particolare le conclusioni cui giunge la sentenza del 9 aprile 2015 potrebbero rivelarsi un autentico disastro per gli ordini professionali in generale e soprattutto per quello forense, in relazione alla sua posizione a rilievo costituzionale e quindi al maggior rigore nel vaglio dei requisiti per l'iscrizione e la permanenza nell'albo. All'uopo l'articolo 17 della Riforma forense (legge 31 dicembre 2012 n. 24, su «Guida al Diritto», n. 6/2013, pag. 10) pone al comma 1 dell'articolo 1 fra i requisiti per l'iscrizione all'albo (lettera g) di non avere riportato condanne per i reati di cui all'articolo 51, comma 3-bis , del codice di procedura penale e per quelli previsti dagli articoli 372, 373, 374, 374-bis , 377, 377-bis, 380 e 381 del codice penale; alla successiva lettera h) di essere di condotta irreprensibile secondo i canoni previsti dal codice deontologico forense. Assegna al comma 3 al Consiglio dell'ordine di compiere il relativo accertamento, osservate le norme dei procedimenti disciplinari in quanto applicabili. E allora, proiettando i principi affermati dalla sentenza 9 aprile 2015 all'ordinamento forense, si potrebbe giungere ad affermare che ove l'Ordine abbia accolto un condannato per uno dei reati di cui sopra e costui abbia trasceso in connessione alla sua attività di avvocato (tanto per intendersi, se abbia sferrato un cazzotto a un cliente) il relativo risarcimento sia dovuto anche dall'ordine, come pure ove non sia stata disposta la sospensione cautelare nei casi previsti dall'articolo 60 della Riforma forense.

Ma la questione s'ingarbuglia ancor più ove si venga a considerare il caso in cui non si sia dato retta a non ben definite comunicazioni di condotte scorrette, come ritiene il tribunale di Roma, con particolare riguardo al settore forense. Difatti a norma del comma 4 dell'articolo 50 della riforma forense, quando è presentato un esposto o una denuncia a un Consiglio dell'ordine, o vi è comunque una notizia di illecito disciplinare, il Consiglio dell'ordine deve darne notizia all'iscritto, invitandolo a presentare sue deduzioni entro il termine di venti giorni, e quindi trasmettere immediatamente gli atti al consiglio distrettuale di disciplina, che è competente, in via esclusiva, per ogni ulteriore atto procedimentale. Detta riforma ha infatti sottratto ai Consigli dell'ordine forense la tradizionale funzione disciplinare, demandata appunto ai Consigli distrettuali di disciplina i quali, ricevuta la notizia, provvedono senza ritardo agli incombenti di archiviazione o di avvio del procedimento fissati dall'articolo 58. Si noterà che in questo caso non si tratta di elementi oggettivi, come per la pronuncia di una condanna in sede penale anzidetta, ma di comunicazioni di comportamenti scorretti e contrari al Codice deontologico, la cui ricorrenza raramente perviene alla radiazione dell'incolpato. Ma allora che responsabilità potrebbe mai ricorrere anche per fatti gravi commessi dall'iscritto all'albo? Anzitutto bisognerebbe vedere a carico di chi potrebbe venire affermata la responsabilità, se del consiglio dell'Ordine o del Consiglio distrettuale di disciplina. Ma poi la valutazione di un comportamento scorretto viene comunque demandata a un giudizio disciplinare, che si trasfonde in giurisdizionale ove la palla passi al Cnf. E potrebbe poi tale giudizio formare oggetto di un ulteriore giudizio agli effetti risarcitori? Il tutto rimane assai ombroso, ma proprio per questo la novità della sentenza del 9 aprile 2015 merita attenzione: essa ha esaminato una questione nella quale l'illecito commesso dall'iscritto all'albo è stato alla fin fine occasionale rispetto alla propria attività. Invece l'avvocato disonesto per la probabilità di procurare guai appunto nell'esercizio della propria professione ha la strada spianata dall'appartenenza all'Ordine. E allora sarebbero tenuti a rispondere dei danni gli organi forensi in caso di loro inerzia o ritardi nel cacciarlo?

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©