Civile

La top ten della Cassazione civile 2015

di Mario Finocchiaro

Tra le oltre 26mila sentenze depositate nel corso del 2015 dalle sezioni civili della Cassazione sono state scelte le dieci più significative. Dalla responsabilità civile al condominio sono diverse le tematiche toccate.

Capacità dellepersone - In tema di capacità delle persone Cassazione, sentenza 9 febbraio 2015, n. 2401 , ha – per la prima volta, a quel che risulti – enunciato il principio secondo cui nel procedimento di revoca della interdizione, promosso da un terzo (nella specie: il tutore) l'interdetto è legittimato a stare in giudizio a mezzo di un proprio difensore.
Ha osservato la Suprema corte che ex articolo 716 del Cpc l'interdicendo o l'inabilitando possono stare in giudizio e compiere da soli tutti gli atti del procedimento, comprese le impugnazioni, anche quando è stato nominato il tutore o il curatore provvisorio e tale principio non può che applicarsi anche in tema di revoca della interdizione o delle inabilitazione.

Ciò sia per il rinvio contenuto nell'articolo 720 del Cpc in tema di revoca dell'interdizione e dell'inabilitazione alle norme stabilite per la pronuncia di esse, sia perché anche nel giudizio di revoca opera il principio secondo il quale l'interdicendo o l'interdetto hanno sempre il diritto di difendere la conservazione o il ripristino integrale della propria capacità di agire.

Cambio di sesso - Sempre in tema di capacità delle persone, Cassazione, sentenza 20 luglio 2015, n. 15138 ha affermato che alla stregua di un'interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della Cedu, dell'articolo 1 della legge n. 164 del 1982, nonché del successivo articolo 3 della medesima legge, attualmente confluito nell'articolo 31, comma 4, decreto legislativo n. 150 del 2011, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile deve ritenersi non obbligatorio l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari. Invero, l'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà e univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia oggetto, ove necessario, di accertamento tecnico in sede giudiziale.

La Suprema corte ha concluso la propria – complessa e articolata indagine – evidenziando che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l'irreversibilità personale della scelta.

Tali caratteristiche, unite alla dimensione tuttora numericamente limitata del transessualismo, inducono a ritenere del tutto coerente con i principi costituzionali e convenzionali un'interpretazione della legge n. 164 del 1982 (articoli 1 e 3) che, valorizzando la formula normativa «quando risulti necessario» non imponga l'intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari.

L'interesse pubblico alla definizione certa dei generi, anche considerando le implicazioni che ne possono conseguire in ordine alle relazioni familiari e filiali – ha evidenziato la Suprema corte - non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psico fisica sotto lo specifico profilo dell'obbligo dell'intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell'avvicinamento del soma alla psiche.

L'acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell'approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale.

Prescrizione e decadenza - In tema di prescrizione e decadenza deve ricordarsi Cassazione, sentenza 10 aprile 2015, n. 7194 , secondo cui in materia di danno alla salute, l'azione intrapresa dal soggetto danneggiato innanzi al giudice amministrativo e volta a conseguire l'indennizzo per causa di servizio, non è idonea ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 2943 Cc.

Ha osservato, infatti, la Suprema corte, che l'effetto interruttivo della prescrizione, che l'articolo 2943 Cc, ricollega alla notificazione dell'atto con il quale si inizia un giudizio, non può non essere limitato al diritto dedotto specificamente nel giudizio, posto che ogni diritto si estingue in forza di una propria prescrizione e non può estendersi ad altre azioni. Si tratta della limitazione oggettiva degli effetti della prescrizione che si unisce a quella soggettiva, dal lato attivo e passivo, non potendo normalmente operare l'effetto interruttivo sulla sfera giuridica di terzi estranei.

Estensione degli effetti internativi che non si verifica neanche nell'ipotesi di diverse azioni risarcitorie, dovendo l'identità concernere anche la causa petendi oltre che il petitum
Nella specie nessuna identità oggettiva è rinvenibile tra l'azione volta ad ottenere l'indennizzo per infermità dipendente da causa di servizio e l'azione di risarcimento del danno, ex articolo 2043 Cc, per lesione del diritto alla salute, data la ontologica diversità delle stesse, della quale è sufficiente evidenziare l'indifferenza dell'indennizzo, con valenza assistenziale/previdenziale, a qualsiasi profilo di colpa.

Senza che possa assumere alcun rilievo la circostanza che i diversi diritti reintegrino lo stesso bene della integrità psicofisica, violato da uno stesso evento lesivo, che, invece potrebbe assumere rilievo rispetto alla cumulabilità dei diversi benefici (cumulabilità ripetutamente negata dalla Corte di legittimità nel caso di danni alla salute patiti a causa di infezione contratta in seguito ad emotrasfusione con sangue infetto).

E' richiamato, in motivazione in tale pronunzia, a fondamento della raggiunta conclusione l'insegnamento contenuto in Cassazione, sentenza 10 gennaio 2006 n. 726 ove la precisazione che la pretesa avanzata per chiedere l'adempimento di un'obbligazione risarcitoria ex articolo 2043Cc non vale ad interrompere la prescrizione dell'azione, successivamente esperita di risarcimento ex articoli 2049, 2050, o 2051 Cc, difettando il requisito della pertinenza dell'atto interruttivo all'azione proposta (da identificarsi non solo in base al petitum ma anche alla causa petendi), in quanto le domande suddette si pongono in una relazione di reciproca non fungibilità e derivano da diritti cosiddetti eterodeterminati, per la cui identificazione occorre fare riferimento ai relativi fatti costitutivi, tra loro divergenti sul piano genetico e funzionale, nonché Cassazione, sentenza 1975 n. 1550 e 1966 n. 2839.

Processo civile - In materia processuale, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sorto nell'ambito delle sezioni semplici, Cassazione, sezioni unite, 15 giugno 2015, n. 13222 , hanno enunciato il seguente principio di diritto, ex articolo 384 Cpc: la modificazione della domanda ammessa a norma dell'articolo 183 Cpc, può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Ne consegue che deve ritenersi ammissibile la modifica, nella memoria all'uopo prevista dall'articolo 183 Cpc, della iniziale domanda di esecuzione specifica dell'obbligo di concludere un contratto in domanda di accertamento dell'avvenuto effetto traslativo.

Nello stesso senso (nel caso in cui l'attore, dopo aver domandato con l'atto introduttivo del giudizio una sentenza costitutiva, ai sensi dell'articolo 2932 Cc sulla base di un contratto da lui qualificato come preliminare di vendita immobiliare, formuli nelle conclusioni definitive di primo grado la richiesta di una pronuncia dichiarativa dell'avvenuto trasferimento della proprietà del medesimo immobile oggetto del contratto, qualificato come contratto definitivo di compravendita, è configurabile non una mutatio, ma una semplice emendatio libelli, poiché il thema decidendum resta circoscritto all'accertamento dell'esistenza di uno strumento giuridico idoneo al trasferimento della proprietà, restando così identico nella sostanza il bene effettivamente chiesto e identica la causa petendi costituita dal contratto, del quale viene prospettata, rispetto alla domanda originaria, soltanto una diversa qualificazione giuridica. Tale emendatio, consentita dall'articolo 184 Cpc fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, non trova ostacolo nel fatto che il convenuto sia rimasto contumace e che non gli sia stata notificata l'avvenuta modificazione della domanda), Cassazione, sentenza 6 novembre 1991, n,. 11840.

In termini opposti, costituisce domanda nuova - come tale vietata e, perciò, inammissibile sia in primo grado che in appello - quella conseguente al sopravvenuto mutamento della pretesa di accertamento del contratto di compravendita del diritto di proprietà in quella di esecuzione coattiva di un contratto preliminare ai sensi dell'articolo 2932 Cc (nella specie formalizzato all'udienza di precisazione delle conclusioni del giudizio di prima istanza), essendo le due domande diverse per petitum e causa petendi: infatti, mentre la prima è diretta ad ottenere una sentenza dichiarativa, fondata su un negozio con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà per effetto del consenso legittimamente manifestato, la seconda mira ad una pronuncia costitutiva, fondata su un contratto con effetti meramente obbligatori come il preliminare, avente ad oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire ad un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, Cassazione, sentenza 8 febbraio 2010, n. 2723.

Sempre in termini opposti, rispetto alla pronuncia del 2015, Cassazione, sezioni unite, 5 marzo 1996, n. 1731, secondo cui costituisce domanda nuova, vietata in appello e anche in primo grado ove manchi il consenso espresso o tacito della controparte, quella del creditore che, dopo aver invocato l'esecuzione coattiva di un contratto preliminare rimasto inadempiuto, ponendo a base dell'atto introduttivo la richiesta di pronuncia costitutiva ex articolo 2932 Cc, sostituisce nelle conclusioni del giudizio di primo grado, ovvero nell'atto di appello, la predetta domanda con una successiva, con la quale chieda una sentenza che accerti l'avvenuto effetto traslativo, qualificando il rapporto pattizio non più come preliminare, ma come vendita per scrittura privata. Trattasi, infatti, di domande diverse sotto il profilo del petitum e della causa petendi, atteso che nella prima ipotesi l'attore adduce un contratto preliminare con effetti meramente obbligatori, avente a oggetto l'obbligo delle parti contraenti di addivenire a un contratto definitivo di vendita per atto pubblico o per scrittura privata autenticata dell'immobile; nella seconda un contratto con efficacia reale, immediatamente traslativo della proprietà dell'immobile per effetto del consenso legittimamente manifestato.

Condominio - In tema di controversie condominiali, Cassazione, ordinanza 25 agosto 2015, n. 17130 ha affermato che in materia di competenza territoriale, l'articolo 23 Cpc, che prevede per le cause condominiali il foro esclusivo del luogo in cui si trovano i beni comuni o la maggior parte di essi, è derogabile e, quindi, è valida ed efficace la clausola del regolamento condominiale che stabilisca un foro convenzionale per ogni controversia relativa al regolamento medesimo.

Ha evidenziato, in particolare, la Suprema corte che l'articolo 23 Cpc, introduce un foro speciale esclusivo per le controversie tra condomini, stabilendo che per esse è competente il giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale.
Il carattere esclusivo del foro – peraltro - non significa che lo stesso sia anche inderogabile.
Le ipotesi di inderogabilità della competenza territoriale, infatti, sono stabilite dall'articolo 28 Cpc, e non vi rientra il foro per le cause tra condomini.
Il foro ex articolo 23 Cpc, è derogabile – quindi - in presenza di un accordo tra le parti sul punto.

Per la giurisprudenza anteriore:
- nel senso che l'articolo 23 Cpc, che introduce un foro speciale esclusivo per le controversie tra condomini, stabilendo che per esse è competente il giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale, trova applicazione anche alle liti tra condomino ed amministratore in ordine al pagamento dei contributi per l'utilizzazione delle cose comuni, agendo l'amministratore, nell'attività di riscossione, nella sua veste di mandatario con rappresentanza dei singoli condomini, Cassazione, sezioni unite, 18 settembre 2006, n. 20076, in Guida al diritto, 2006, f. 39, p. 46, con nota di De Paola;
- per la precisazione che l'articolo 23 Cpc, che prevede per le cause tra condomini il foro speciale esclusivo del giudice del luogo in cui si trova l'immobile condominiale, si applica a tutte le liti tra singoli condomini attinenti ai rapporti giuridici derivanti dalla proprietà delle parti comuni dell'edificio, Cassazione, ordinanza 12 gennaio 2015, n. 180,
- per l'affermazione che l'articolo 23 Cpc si riferisce a tutti i casi di comunione ex articolo 1100 Cc (e non solo ai condomini divisi per piano) perché le controversie siano assoggettabili alla disposizione in esame, è necessario che entrambe le parti siano condomini, Cassazione sentenza 18 aprile 2003, n. 6319 (ove in motivazione, il rilievo che «salvo per i casi espressamente contemplati, la competenza per territorio può essere derogata per accordo delle parti: ciò significa che, fuori dei casi previsti dall'articolo 28 cpc, a pena di decadenza l' incompetenza deve essere eccepita nella comparsa di risposta»).

Assicurazioni sulla vita - In materia di contratti di assicurazione sulla vita, Cassazione, sentenza 24 aprile 2015, n. 8412 , ha affermato che il dovere di una informazione esaustiva, chiara e completa, e quello di proporre al contraente polizze assicurative realmente utili per le esigenze dell'assicurato, sono doveri primari dell'assicuratore e dei suoi intermediari o promotori. Tali doveri scaturiscono dagli articoli 1175, 1337 e 1375 Cc, e la loro violazione costituisce una condotta negligente, ai sensi dell' articolo 1176, comma 2, Cc.

I doveri di cui si è appena detto hanno portata generale, e in quanto dettati da norme di legge, prevalgono sulle norme regolamentari, quali i regolamenti dell'autorità di vigilanza, ed a fortiori sulle indicazioni contenute in atti addirittura privi di potere normativo, quali le circolari dell'autorità amministrativa.

Nella specie gli attori avevano stipulato due assicurazioni sulla vita a contenuto finanziario. In particolare ciascuna delle due polizze prevedeva versamenti semestrali per 5 anni e, alla scadenza, la rinnovazione del contratto o l'erogazione d'una rendita al beneficiario. Alla scadenza, richiesto il differimento del contratto, era stato riferito agli attori che il capitale ad essi spettante era addirittura inferiore ai premi versati.

Poiché l'assicuratore, al momento della stipula, aveva tenuto una condotta scorretta, sottacendo agli assicurati sia l'esatto ammontare dei costi di gestione della polizza (poi risultati pari al 10% circa dei premi); sia l'esistenza del rischio che il rendimento da essa garantito potesse essere inferiore al capitale versato dal contraente, gli attori avevano convenuto in giudizio la società assicuratrice chiedendone la condanna della convenuta alla restituzione dell'eccedenza dei premi pagati rispetti al capitale maturato, ed al risarcimento del danno, quantificato in misura pari agli legali sui premi versati.

Nel rigettare la domanda la Corte di appello aveva affermato che al momento della stipulazione dei contratti, nell'anno 2000, l'assicuratore non aveva alcun obbligo giuridico di informare il contraente dell'esistenza e dell'ammontare dei costi di gestione relativi ad una polizza sulla vita a contenuto finanziario, specie tenuto presente che la materia, a quell'epoca, era disciplinata dalla Circolare ISVAP 19 giugno 1995, n. 249, la quale non imponeva alcun obbligo in tal senso.

In termini opposti la Suprema corte ha affermato il principio di diritto sopra riassunto, evidenziando – altresì – che il dovere di correttezza, in materia assicurativa, ai sensi dell'articolo 1175 Cc., in materia assicurativa, impone all'assicuratore ed ai suoi intermediari o incaricati due precisi obblighi:
- proporre ai contraenti non già contratti assicurativi purchessia, cioè genericamente e astrattamente coerenti con le loro esigenza di previdenza o di risparmio, ma proporre prodotti assicurativi utili: cioè coerenti con il profilo di rischio (nell'assicurazione danni) o con gli intenti previdenziali (nell'assicurazione vita) del contraente;
- mettere il contraente in condizione di compiere una scelta consapevole, e dunque informarlo in modo esaustivo sulle caratteristiche del prodotto, nulla lasciando di occulto.
Per utili riferimenti, sulla questione specifica, cfr. Cassazione, sentenza 18 aprile 2012, n. 6061 secondo cui in tema di contratto di assicurazione sulla vita stipulato prima dell'entrata in vigore della legge 28 dicembre 2005 n. 262 e del decreto legislativo 29 dicembre 2006 n. 303, nel caso in cui sia stabilito che le somme corrisposte dall'assicurato a titolo di premio vengano versate in fondi d'investimento interni o esterni all'assicuratore, che, alla scadenza del contratto o al verificarsi dell'evento in esso dedotto, l'assicuratore sarà tenuto a corrispondere all'assicurato una somma pari al valore delle quote del fondo mobiliare al momento stesso (polizze denominate unit linked), il giudice di merito, al fine di stabilire se l'impresa emittente, l'intermediario e il promotore abbiano violato le regole di leale comportamento previste dalla specifica normativa e dall'articolo 1337 c.c., deve interpretare il contratto, e tale interpretazione non è censurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivata, al fine di stabilire se esso, al di là del nomen iuris attribuitogli, sia da identificare come polizza assicurativa sulla vita (in cui il rischio avente ad oggetto un evento dell'esistenza dell'assicurato è assunto dall' assicuratore) oppure si concreti nell'investimento in uno strumento finanziario (in cui il rischio di performance sia per intero addossato all'assicurato).

Per altri riferimenti , altresì:
- nel senso che il principio di correttezza e buona fede, il quale secondo la Relazione ministeriale al Cc, «richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore», operando, quindi, come un criterio di reciprocità, una volta collocato nel quadro di valori introdotto dalla Carta costituzionale, deve essere inteso come una specificazione degli «inderogabili doveri di solidarietà sociale» imposti dall'articolo 2 della Costituzione. La sua rilevanza si esplica nell'imporre, a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, a prescindere dall'esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge, Cassazione, sentenza 5 novembre 1999, n. 12310;
- per il rilievo che la responsabilità precontrattuale prevista dall'articolo 1337 Cc può derivare, oltre che dalla rottura ingiustificata delle trattative, anche dalla violazione dell'obbligo di lealtà reciproca, il quale comporta un dovere di completezza informativa circa la reale intenzione di concludere il contratto, senza che alcun mutamento delle circostanze possa risultare idoneo a legittimare la reticenza o la maliziosa omissione di informazioni rilevanti nel corso della prosecuzione delle trattative finalizzate alla stipulazione del negozio.

Responsabilità civile - In tema di responsabilità civile e, in particolare, in tema di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante dalla circolazione stradale, devono segnalarsi due decisioni.

La prima, Cassazione, sentenza 13 gennaio 2015, n 274 , ha enunciato il seguente principio di diritto: nel caso di sinistro causato da veicolo non identificato l'obbligo risarcitorio sorge non soltanto nei casi in cui il responsabile si sia dato alla fuga nell'immediatezza del fatto, ma anche quando la sua identificazione sia stata impossibile per circostanze obiettive, da valutare caso per caso, e non imputabili a negligenza della vittima.
Nella specie la Corte di appello, dopo avere affermato che la vittima d'un sinistro stradale causato da veicolo non identificato ha l'onere di provare l'incolpevole impossibilità di identificare il responsabile, ha escluso che tale prova fosse stata fornita, sul presupposto che mancava la fuga del veicolo, atteso che ai fini del presente giudizio occorre dimostrare una fuga idonea a lasciare il veicolo sconosciuto.

La Suprema corte ha ritenuto questa affermazione erronea in iure, per due ragioni.
La prima ragione è che la fuga del responsabile non è elemento costitutivo della fattispecie astratta prevista dalla norma positiva (articolo 19, comma 1, lett. a) della legge n. 990 del 1969), dovendo la stessa essere letta come se dicesse risarcibili da parte dell'impresa designata i sinistri causati da veicoli non identificati, né identificabili con l'uso dell'ordinaria diligenza, precisando che la natura diligente o meno di qualsiasi condotta giuridicamente rilevante va compiuta alla stregua dei precetti dettati dell'articolo 1176 Cc, secondo cui è negligente colui il quale tiene una condotta difforme da quella che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto il bonus paterfamilias, ovvero la persona di normale avvedutezza e media istruzione e sensibilità.

La seconda ragione per la quale l'affermazione della Corte d'appello è erronea in iure – ha ancora evidenziato la Cassazione - è che essa non è coerente con una interpretazione del quadro normativo conforme all'ordinamento comunitario.

L'intervento d'un organismo che indennizzi le vittime dei cosiddetti pirati della strada, presente nel nostro ordinamento sin dal 1969, è stata in seguito imposta al legislatore nazionale dall'articolo 1, comma 4, della Direttiva CE del Consiglio 30 dicembre 1983, n. 84/5, “Seconda Direttiva r.c.a.” (oggi abrogato e trasfuso ad litteram nell'articolo 10, comma 1, della Direttiva 2009/103/CE del 16 settembre 2009), il cui sesto Considerando spiega che scopo della previsione è quello di “garantire la vittima”.

Facendo - sostanzialmente – applicazione di tali principi, Cassazione, sentenza 18 settembre 2015, n. 18308 , ha affermato – sempre in tema – che al danneggiato non può imporsi l'onere di indagini articolate o complesse per l'identificazione del veicolo investitore, purché egli abbia tenuto un comportamento di normale diligenza.
Nella specie – in particolare - è stata esclusa la responsabilità del Fondo di Garanzia, atteso che dopo l'urto il tamponante si era fermato ed era sceso per verificare i danni, ma in un secondo momento, con tempistica testualmente definita dai giudici di merito non così rapida da impedire l'annotazione del numero della targa, si era allontanato; ciononostante il soggetto danneggiato non aveva annotato la targa del tamponante.

Per la giurisprudenza anteriore sul tema cfr. Cassazione, sentenza 13 luglio 2011, n. 15367, secondo cui il danneggiato il quale promuova richiesta di risarcimento nei confronti del fondo di garanzia per le vittime della strada, sul presupposto che il sinistro sia stato cagionato da veicolo o natante non identificato, ha l'onere di provare sia che il sinistro si è verificato per condotta dolosa o colposa del conducente di un altro veicolo o natante, sia che questo è rimasto sconosciuto e che a quest'ultimo fine è sufficiente dimostrare che, dopo la denuncia dell'incidente alle competenti autorità di polizia, le indagini compiute o quelle disposte dall'autorità giudiziaria, per l'identificazione del veicolo o natante investitore, abbiano avuto esito negativo, senza che possa addebitarsi al danneggiato l'onere di ulteriori indagini articolate o complesse, purché egli abbia tenuto una condotta diligente mediante formale denuncia dei fatti ed esaustiva esposizione degli stessi.

Circolazione stradale - La seconda pronunzia di estremo interesse in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica è Cassazione, sezioni unite, sentenza 29 aprile 2015 n. 8620 , che, componendo un contrasto manifestatosi nell'ambito della terza sezione civile, ha affermato il principio secondo cui nell'ampio concetto di circolazione stradale, indicato nell'articolo 2054 Cc è compresa anche la posizione di arresto del veicolo, sia in relazione all'ingombro da esso determinato sugli spazi addetti alla circolazione, sia in relazione alle operazioni eseguite in funzione della partenza o connesse alla fermata, sia ancora con riguardo a tutte le operazioni cui il veicolo è destinato a compiere o per il quale esso può circolare per le strade. Per la operatività della garanzia per la responsabilità civile automobilistica (legge 24 dicembre 1969, n. 990) è – pertanto - necessario il mantenimento da parte del veicolo, nel suo trovarsi sulla strada di uso pubblico o sull'area a essa parificata, delle caratteristiche che lo rendono tale sotto il profilo concettuale e, quindi, in relazione alle sue funzionalità, sia sotto il profilo logico che sotto quello di eventuali previsioni normative, risultando, invece, indifferente l'uso che in concreto si faccia del veicolo, sempreché esso rientri in quello che secondo le sue caratteristiche il veicolo stesso può avere.

In applicazione dei riferiti principi le Sezioni unite hanno confermato la pronunzia del giudice del merito evidenziando che nella specie ricorrevano tutti i presupposti per l'attività della garanzia atteso che era pacifico che l'autogrù, al momento del sinistro, si trovava in una strada pubblica o almeno in un'area equiparata, che l'uso che si faceva della stessa (sollevamento del cassone, con il braccio meccanico) corrispondeva all'utilitas propria del veicolo in oggetto; che è stata accertata una responsabilità (prevalente) del proprietario/conducente per un'errata manovra del braccio meccanico.

Per la giurisprudenza anteriore, nel senso che operazioni di carico e scarico di carburante effettuate da un automezzo nell'area di un impianto di distribuzione di carburante costituiscono attività non riconducibili alla circolazione stradale, onde in ipotesi di danni provocati dall'automezzo nel corso e a causa di tali operazioni (durante le quali, nella specie, si era sviluppato un incendio) non operano le norme di cui alla legge 24 dicembre 1969, n. 990, Cassazione, sentenza 9 giugno 1997 n. 5146.

Sempre nella stessa ottica, ai fini dell'applicabilità delle norme sull'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile automobilistica, la sosta può essere equiparata alla circolazione solo se il sinistro sia eziologicamente ricollegabile ad essa e non ad una causa autonoma - ivi compreso il fortuito - di per sé sufficiente a determinarlo, Cassazione, sentenza 5 marzo 2013, n. 5398, che ha escluso la possibilità di applicare la citata disciplina in quanto l'evento dannoso, conseguente alla propagazione dell'incendio di un'autocisterna, pur trovando occasione nella sosta del mezzo presso l'abitazione di un privato per rifornire il suo serbatoio di gas Gpl, è risultato essere determinato dall'indebita fuoriuscita di gas dalla parte superiore del serbatoio dell'autocisterna e dal maldestro tentativo del conducente di porvi riparo.

Diversamente, sempre nello stesso ordine di idee ora fatto proprio dalle Sezioni unite, tra le altre, Cassazione, sentenze 6 febbraio 2004, n. 2302 (secondo cui, in particolare, deve considerarsi evento relativo alla circolazione stradale l'incendio propagatosi da un veicolo in sosta, a meno che l'incendio stesso non derivi dall'azione dolosa di terzi), 9 gennaio 2009, n. 316, resa in una fattispecie pressoché analoga a quella ora all'attenzione delle Sezioni unite, ove – in particolare - il rilievo che per l'articolo 1 della legge n. 990 del 1969, il presupposto dell'operatività dell'obbligo assicurativo e della conseguente copertura è il trovarsi del veicolo su strada di uso pubblico o su area a questa equiparata in una condizione che sia riconducibile a un momento della circolazione, ivi compresa anche la sosta, mentre non ha dignità di presupposto ulteriore la correlazione dell'uso del veicolo, secondo le potenzialità sue proprie, con le varie modalità con cui può atteggiarsi la circolazione. Ne discende che, quando il veicolo è un'autogru, a integrare il presupposto di operatività della copertura assicurativa è sufficiente che essa si trovi in sosta su una strada di uso pubblico o su un'area ad essa equiparata, restando indifferente se durante la sosta essa operi o meno quale macchina operatrice.

Tributaria - Tra le tantissime pronunce in materia tributaria si segnala Cassazione, ordinanza 2 aprile 2015, n. 6794 secondo cui sono deducibili ai fini Irpef dal reddito del coniuge tenuto all'adempimento anche le somme, non superiori all'ammontare dell'assegno di mantenimento determinato in sede di separazione, che lo stesso coniuge non versi all'altro coniuge, ma al creditore di quest'ultimo, per il pagamento di ratei di mutuo a lui intestato.
Assumeva, in particolare, nella specie l'Agenzia delle Entrate, denunziando la violazione dell'articolo 10 del t.u. sulle imposte dirette, che il giudice a quo avesse violato la regola dettata dalla predetta norma secondo cui gli oneri sostenuti a titolo di assegni periodici, così come gli assegni alimentari corrisposti alle persone indicate nell'articolo 433 Cc, sono deducibili solo nella misura in cui risultano da provvedimenti dell'autorità giudiziaria, mentre nella specie il contribuente aveva allegato che gli assegni periodici dovuti al coniuge separato erano stati sostenuti in maniera alternativa, e cioè accollandosi le spese di spettanza del coniuge, spese oggetto di un “mutuo” dovuto dall'altro coniuge, ciò che costituiva una sorta di adempimento di altre prestazioni nell'interesse ed in vece dell'obbligato principale, modalità «non normativamente tipizzata» e perciò inidonea a dare luogo alla deducibilità delle corresponsioni.
La Suprema corte ha disatteso l'assunto, evidenziando, in estrema sintesi che appare che del tutto correttamente il giudice del merito abbia ritenuto legittimamente fungibile, come modalità di adempimento dell'obbligo alimentare solitamente attuata a mezzo della diretta corresponsione dell'assegno periodico, quella che consiste nell'accollo dell'obbligazione pecuniaria gravante sul coniuge, che in tal modo ne resta sollevato.
Invero – ha puntualizzato la Suprema corte - nell'ottica della realizzazione dell'interesse pratico tutelato dalla legge civile (l'assistenza materiale alla persona che - a causa della separazione personale tra i coniugi - versa in stato di bisogno economico), le due modalità non differiscono in alcun modo, pervenendo entrambe al medesimo risultato e costituendo forme di adempimento entrambe satisfattive dell'obbligo giudizialmente imposto. D'altronde delegazione, espromissione e accollo (che qui si citano confusamente, non potendosi conoscere nei particolari quali siano stati gli accordi tra i coniugi e con il terzo creditore, ai fini dell'adempimento dei ratei di mutuo) sono contemplate come «modi di estinzione delle obbligazioni diverse dall'adempimento», a mente dell'articolo 1268 Cc e ss., sicché non è chi non veda che a mezzo di siffatta modalità la coniuge debitrice è rimasta di certo sollevata dall'onere di adempiere in prima persona, in tal modo avvantaggiandosi, nell'ottica del sollievo dallo stato di bisogno, alla stessa stregua di come sarebbe avvenuto se la corresponsione dell'assegno periodico fosse avvenuto direttamente a suo favore con le modalità consuete.

Assegni scoperti - Nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione per emissione di assegni senza provvista, Cassazione 19 marzo 2015 n. 5574, qualora il soggetto che formalmente appare come emittente disconosca la sottoscrizione che compare sul titolo, l'autorità che ha irrogato la sanzione non ha l'onere di dimostrare l'autenticità della sottoscrizione mediante idonea istanza di verificazione, potendo la sussistenza dell'illecito essere dimostrata con altri mezzi di prova e anche mediante presunzioni
In tema opposizione a decreto irrogativo di sanzione pecuniaria per violazione dell'articolo 2 del Dl 6 giugno 1956, n. 476 (convertito in legge 25 luglio 1956, n. 786) si è affermato che ove la prova dell'illecito valutario sia costituita da un assegno, colui contro il quale tale prova è addotta può disconoscere la propria sottoscrizione e porre in discussione l'autenticità del titolo di credito, ma il conseguente accertamento istruttorio non va compiuto nelle forme del giudizio di verificazione ex articolo 216 Cpc, ben potendo l'amministrazione dimostrare l'elemento materiale dell'illecito con altri mezzi di prova ed eventualmente pure con presunzioni.
La pronunzia, seppur conforme alla risalente Cassazione, sentenza 11 marzo 1993, n. 2969, si contrappone a Cassazione, sentenza 19 giugno 2007 n. 14278, ove la precisazione che ai sensi dell'articolo 29 del decreto legislativo n. 507 del 1999, risponde dell'illecito amministrativo di emissione di assegni senza provvista chiunque emetta un assegno, bancario o postale che, presentato in tempo utile per l'incasso, non venga pagato per mancanza di provvista, per cui nel giudizio di opposizione a sanzione amministrativa, qualora il soggetto che formalmente appare come emittente disconosca la sottoscrizione ivi comparente, grava sull'autorità che ha irrogato la sanzione l'onere di dimostrare l'autenticità della sottoscrizione, proponendo idonea istanza di verificazione.(Nella specie, la Suprema corte ha riformato la sentenza di merito, che aveva rigettato l'opposizione proposta dall'amministratore di una società di capitali ritenendo che la mancata comunicazione alla banca dell'avvenuta cessazione dalla carica di amministratore precludesse la prova della falsità della sottoscrizione e considerando idoneo a provare l'autenticità della firma il mero protesto dell'assegno, omettendo di valutare l'inidoneità di tale atto a dimostrare la provenienza e l'autenticità del titolo).
Il contrasto, tra le due pronunce, è stato risolto, dalla pronunzia del 2015 privilegiando la prima delle richiamate sentenze atteso che la seconda decisione (del 2007) afferma la indispensabilità, in ipotesi di disconoscimento della sottoscrizione dell'assegno da parte dell'opponente a ordinanza ingiunzione, della istanza di verificazione, senza prendere in considerazione le argomentazioni svolte nella prima sentenza. In secondo luogo, perché, come esattamente rilevato nella motivazione della prima decisione, la necessità della proposizione della istanza di verificazione in ipotesi di disconoscimento della sottoscrizione di un titolo di credito può predicarsi nel solo caso in cui venga in discussione il rapporto di credito incorporato dal titolo: nel caso in cui, viceversa, venga in considerazione la potestà sanzionatoria esercitata a fronte della commissione dell'illecito amministrativo di emissione di un assegno privo di provvista, non può ritenersi che l'unica possibilità per l'amministrazione che abbia adottato il provvedimento sanzionatorio per dimostrare la fondatezza della pretesa punitiva possa essere rappresentata dalla formulazione della istanza di verificazione che, come detto, risponde ad altre finalità ed attiene al rapporto di credito incorporato dal titolo.
In sostanza, una volta che il destinatario della sanzione amministrativa per emissione di assegno senza provvista opponga il disconoscimento della sottoscrizione dell'assegno l'amministrazione può provare l'elemento materiale dell'illecito con altri mezzi di prova, ed eventualmente anche a mezzo di presunzioni.

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